sabato 24 settembre 2016

CHOOSY, VIZIATELLI, NARCISISTI: GENITORI CREATIVI NEL #FERTILITYDAY


Roberto Ciccarelli

Le due campagne del Ministero della salute sul fertily day hanno rivelato l'orientamento della biopolitica di stato: la donna è considerata la "proprietaria di un corpo-sepolcro vuoto, improduttivo, non messo a valore, l’essere in debito con la società per non riuscire a contribuire all’esistenza di nuova forza lavoro per il mercato. Il governo ritiene che si tratti di un "errore di comunicazione", mentre è chiaro che si tratta di un problema politico: il  "mancato rispetto delle donne e stigmatizzazione nei confronti di chi non può avere o non vuole avere figli". La campagna: "Genitori giovani per essere creativi". Oggi in Italia nonsifanno figli perché i possibili genitori sarebbero impegnati a essere "creativi". Pubblicato su OperaViva 


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"Genitori giovani per essere creativi". Nella sua banalità imbarazzante uno degli slogan della campagna sul Fertility Day accredita la mentalità della classe creativa, soggetto pseudo-sociologico inventato da Richard Florida nel 2002 e obiettivo dell’operazione del ministero della Salute: oggi in Italia non si fanno figli perché i possibili genitori sono impegnati a essere "creativi".

“Classe creativa”

Il ministero, e i suoi “creativi”, alludono al profilo di un lavoratore elastico, sempre disponibile alle richieste dei suoi committenti, un soggetto che vive per lavorare e affermarsi nella carriera professionale intesa come un’attività creativa, appagante, auto-centrata. La «classe creativa» non include solo manager cosmopoliti, artisti, freelance o professionisti dell’immateriale, appartenenti a un ceto medio ricco e poliglotta nelle industrie dell’high tech o dell’intrattenimento. È un modello morale: per molti anni è stato usato per reinterpretare la condizione della precarietà. La precarietà è un’opportunità, va intesa come flessibilità, una condizione anche estetica, performativa. Mai intenderla come una questione giuridica o, peggio, sindacale. Che noia, che barba, che noia.

Lo slogan ha preso molto sul serio una delle fandonie che nutre la rappresentazione del lavoro indipendente, tra start up e auto-impresa: il creativo sa usare la precarietà, esistenziale e professionale, in maniera imprenditoriale, appartiene a uno strato culturale vasto che contiene diverse posizioni sociali economicamente disomogenee, in una società integrata senza classi. Salvo poi scoprire che tale «creatività» oggi è solo un’altra faccia dell’auto-sfruttamento, del lavoro gratuito o sottopagato, oltre che dell’alienazione del lavoro autonomo contemporaneo.




Consapevolezza acutissima tra i diretti interessati, a tal punto da avere alimentato la maggior parte delle reazioni contro la campagna, costringendo il premier Renzi a sconfessare la sua ministra Lorenzin che ha ritirato la campagna, ma non il suo “piano nazionale della fertilità”. La rete, oggi in Italia, è l’unico contropotere reale –e dell’immaginario del conflitto – a disposizione in un paese commissariato, dove le classi dominanti esercitano una violenza, non solo simbolica.

Choosy, sfigati e costi sociali

Lo slogan rappresenta una svolta nella recente rappresentazione della precarietà bersagliata da insulti, censure morali, indignazione contro la “nullafacenza” dei giovani. Elsa Fornero e il suo leggendario Choosy, cioè schizzinosi e viziatelli che non escono da casa e dipendono da genitori e nonni; il suo vice Martone con gli “sfigati”; un ministro dell’università Profumo che considerava i fuoricorso “costi sociali”. Con Monti a Palazzo Chigi ci fu una violenta offensiva contro i laureati, e i giovani dai 15 ai 34 anni in generale. Il messaggio fu immediatamente recepito da un’altra docente universitaria mandata a dirigere il ministero dell’Istruzione con il governo Letta. «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita» disse Maria Chiara Carrozza. Più di recente il ministro del lavoro Poletti secondo il quale “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21” . E poi andare a lavorare. Continuando a fare quello che ormai si fa dall’adolescenza: lavorare senza reddito e senza tutele. Un voucher, e via, passa la paura.

La trappola della precarietà

In questo campionario del disprezzo, pronunciato da professori universitari o da burocrati delle coop rosse, è chiara l’intenzione di non parlare della precarietà – mancanza di diritti sociali e di reddito – e attribuire a chi non lavora, o lavora precariamente, la colpa della propria precarietà. Il vittimismo che si contesta ai precari è in realtà il prodotto della colpevolizzazione morale della loro condizione.

Le reazioni veementi che di solito producono queste accuse rafforzano il doppio vincolo sul quale si regge questa strategia di soggettivazione: da un lato, si dice che è colpa dei precari, dall’altro si risponde vogliamo lavorare come gli altri, ma non possiamo. In mezzo resta del tutto impensato che cosa significhi, oggi, lavorare. Sia coloro che accusano i precari, sia i precari che si difendono pensano che il lavoro in sé porti a un salario, e il salario serva a diventare cittadini, quindi anche padre e madre. Questo è vero nella misura in cui il salario in questione sia superiore, mettiamo, ai due o tremila euro mensili. Una cifra, del tutto indicativa, che può garantire una cittadinanza salariata in Italia. Quanti, senza ricorrere al patrimonio familiare, oggi possono aspirare a tanto? Pochi, probabilmente.



“Chi non lavora non fa l’amore” rispondeva Claudia Mori a Adriano Celentano che nella famosa canzone contro le lotte operaie del 1969 interpretava appunto un operaio in sciopero. Oggi questo titolo ha ritrovato un’attualità insospettabile. Il senso è stato rovesciato: è il precario che chiede allo Stato più garanzie e salario per lavorare e quindi procreare. Questa può essere considerata la risposta media alla provocazione del governo – a parte le risposte più opportune giunte dai fronti femministi, acuti e brillanti nella decostruzione e nell’attacco.

Rispondere a queste offensive evocando “più lavoro” non aiuta a risolvere il problema: la separazione tra produttività e salari nel capitalismo finanziario. Anzi rafforza la cornice in cui si muovono le classi dominanti. La trappola della precarietà resta anche nella creatività: non solo perché, in sé, è una rappresentazione falsa, ma perché sottintende lo stesso immaginario lavorista di chi ha negato tutti i diritti al lavoro. A questo punto, sul lato del governo, i paradossi sono senza fine. Ma non sono da meno quelli sul lato dei precari. Certo, si può sempre attendere un aumento dei salari, e la cancellazione della precarietà, ma al momento non mi risulta che ci siano lotte sociali o sindacali in corso su questi temi.

Una risposta più opportuna è quella del reddito incondizionato di base, una riforma del Welfare in senso universalistico e una radicale riforma del sistema fiscale. Nell’incertezza generale di una politica senza idee in una governance che procede automaticamente (il “pilota automatico” di Draghi e dell’Unione Europea) anche questa strada presenta purtroppo non poche difficoltà.

Ceto medio impossibile

La campagna sul Fertility Day ha chiuso il cerchio: se le coppie “creative” non fanno figli è colpa loro, non della condizione in cui lo Stato e il mercato le costringono e disciplinano. Questa “colpa” presunta può essere, in realtà, il risultato di una libera decisione di sottrarsi al modello statistico della demografia. Alla base c’è una questione di libertà femminile, ed è questo che al fondo indigna i dominanti: la possibilità che donne, e uomini, si sottraggano alla fertilità come valore in sé, indipendentemente dal corpo della donna; una percentuale da inserire nel data mining della crescita alla canna del gas; il biovalore che serve al patrimonio dello Stato. Da qui la continuità biopolitica con l’idea dello Stato etico e con la campagna fascista che invitava le donne a dare figli (e fucili) alla “madre patria”.

La copertina contestata di uno degli opuscoli del ministero della Salute


L’analogia va tuttavia relativizzata. Il problema non è affatto il fascismo, ma l’affermazione di una “normalità” biopolitica che corrisponde allo stile di vita del ceto medio travolto dalla crisi. La fertilità è biovalore, il biovalore è "creativo" per coloro che dovrebbero essere il nuovo “ceto medio” – la “classe creativa” – ma che non lo saranno mai. Al fondo, il tentativo della campagna è di restaurare l’ordine perduto della società del Dopoguerra dove a una crescita economica moderata, ma continua, si accompagnava una crescita demografica giudicata “normale” per i parametri economici. La “fertilità” è un altro dei fronti aperti dall’impotenza a immaginare un altro modello sociale ed economico alternativo.

Il “creativo” è il gestore del fallimento – il proprio e quello dello Stato. Anche per questo soffermarsi sul chiedere più lavoro non basta. È più opportuno rivendicare un Welfare sganciato dal suo modello in crisi: paternalista, familista, lavorista e sessista. Il “creativo” in questione è colui che si adatta – “creativamente” appunto – a questo stato sociale. E per questa ragione è evocato dalla campagna governativa.

“Ripiegamento narcisistico”

Di “creatività” non si parla direttamente nel rapporto che accompagna “il piano nazionale delle fertilità”, un faticoso scritto di 137 pagine, pieno di luoghi comuni sociologici. Si riconosce che il motivo del ritardo della maternità – o della sua rinuncia – è dovuto alla crisi economica, ma più interessanti sono le motivazioni psicologiche attribuite alle donne comprese tra i 25 e i 34 anni, il target della contestatissima campagna.

L’impostazione è conservatrice e molto aggressiva: si parla di un “ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo”. Tale ripiegamento ha generato un modello di vita “mediterraneo” fra i giovani in cerca di occupazione, più al Sud rispetto al Nord e nei piccoli comuni piuttosto che in quelli di maggiori dimensioni.

Il “modello mediterraneo” è una parafrasi che raccoglie gli insulti di solito rivolti ai precari. Invece di affermare che l’Italia – e l’Europa del Sud – sono all’avanguardia delle politiche di precarietà, si procede con l’interiorizzazione sociologica della rappresentazione razzista della modellistica sociologica che riconosce anche un modello “mediterraneo” di Welfare o di mercato di lavoro. Di solito questa espressione viene usata dai “riformatori” delle classi dominanti per imporre una regola efficientista e all’altezza di quelle del Nord Europa, società identificate immancabilmente con il modello di indipendenza, ricchezza, efficienza.

Una falsità. E tuttavia la categoria è acquisita e contro questa idea di “modello mediterraneo” si muove la classe dominante italiana, il cui provincialismo si riflette nell’intenzione di “fare come la Germania” reputata un modello socio-antropologico, ancor prima che economico e lavorativo. Non va sottovalutato questo aspetto quando si parla di politiche sociali in Italia: il mercato dei “mini job” è ritenuto a destra, come a sinistra, un risultato della “modernità tedesca”. La volontà di “essere come i tedeschi” rivela inoltre in questi “riformatori” il segno della soggezione rispetto alla politica della Cancelliera Merkel.

Da qui nasce la caratterizzazione dei precari italiani come lassisti, lazzaroni, sfaticati, narcisisti e “creativi”: in una parola le “cicale” contro le quali si scagliano in Germania. Quando si parla di precarietà in Italia, bisogna tenere conto che essa rappresenta l’immagine che i dominanti hanno di questa precarietà che non riguarda le condizioni materiali della vita.

Liberiamoci della precarietà

C’è stato un tempo, alla fine degli anni Novanta e fino all’ultimo governo Berlusconi, in cui il concetto di “precarietà” era quasi indicibile. Era il tempo in cui si diceva che gli italiani andassero al ristorante, la crisi non esisteva e si nascondeva il contributo che il centro-sinistra e la destra hanno apportato al progetto liberista.

Oggi tutti parlano di precarietà, a cominciare dal governo. E, come tale, la usano: uno strumento del potere. Anche per imporre una norma della riproduzione agli stessi precari. La rimozione politica della precarietà resta e continua la precarizzazione in nome di una nuova politica favorevole ai diritti dei lavoratori. Il discorso pubblico sulla precarietà è un paradossale strumento di governo.

È giunto il momento di liberarci del concetto di “precarietà”. Può essere la prima mossa per non essere più “precari” e sperimentare nuove forme di vita al di fuori della cornice in cui tutti, senza distinzione, oggi siamo subordinati.

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