Un terzo della forza lavoro attiva – condannato alla povertà e al rischio di esclusione sociale, forse alla sparizione vera e propria, dentro una crisi infinita – che si affianca ai tre milioni già materialmente fuori dal contratto di lavoro, perché disoccupati e/o inoccupati. Eppure gli autonomi, le indipendenti, gli intermittenti e le precarie sono dentro al “mercato del lavoro” – seppure in modo atipico.
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Qualche giorno fa tutti a strapparsi i capelli. Il bollettino mensile della Banca Centrale Europea tornava a ricordarci che già nell'ultimo trimestre del 2011 l'occupazione nei Paesi dell'Euro-zona era diminuita. "Le condizioni nei mercati del lavoro dell'area-euro continuano a deteriorarsi. La crescita dell'occupazione è rimasta negativa mentre è proseguito l'aumento del tasso di disoccupazione". Quindi: "le indagini congiunturali anticipano un ulteriore peggioramento nel breve termine" dei tassi di disoccupazione. Siamo a oltre il 10,8% di disoccupazione nei Paesi dell'area-euro, con quella giovanile (under-25) che si spinge fino quasi al 22%. E andrà sempre peggio.
Per quanto riguarda l'Italia le condizioni sono ancora più allarmanti. In base ai dati Istat dell'ultimo trimestre 2011 e del primo 2012 siamo al 9,3% di disoccupazione, circa 2,5 milioni di persone in assenza di lavoro. Se a queste cifre aggiungiamo il numero di persone che sono in Cassa Integrazione, siamo vicini ai 3 milioni di senza lavoro: l'11,3% della forza lavoro attiva, come si vede da questo grafico (redatto da Lavoce.info: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002984.html). Rispetto ai livelli precedenti l'innesco della crisi globale, la disoccupazione in Italia è aumentata di un terzo, tornando oggi alle percentuali più alte dal passaggio 2009-2010 della crisi globale, che sembrava già abbastanza insostenibile. La disoccupazione giovanile raggiunge quasi il 32%, confinando un terzo dei giovani in cerca di lavoro in nel limbo della NEET generation: Not in Employment, Education, Training.
Non studio, non lavoro, non guardo la TV, non vado al cinema, non faccio sport, urlavano i CCCP – Fedeli alla Linea in Io sto bene, oramai quasi trent'anni fa, nel cuore oscuro della disoccupazione di lunga durata del ventennio '70/'80: e sembra oggi.
Nel mentre, sempre oggi, questo Paese vede stagliarsi all'orizzonte una “riforma del mercato del lavoro” che continuerà ad escludere dalla cittadinanza e dalla vita degna oltre 4 milioni di lavoratori e lavoratrici indipendenti, autonomi, intermittenti, flessibili, precari-e, perché per loro non è previsto alcun diritto, tutela, garanzia – anzi un ulteriore aumento di contributi dati a fondo perduto, per pagare il Welfare, sempre più misero, degli altri: come accade da sempre in questo Paese e soprattutto dalla metà degli anni '90 dello scorso secolo, quando le riforme Amato-Dini e il famigerato “pacchetto Treu” (e ora ce lo ritroviamo, Treu!) crearono il massacro della Gestione Separata INPS e della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro.
È il Quinto Stato che viene, dopo il Quarto, ma senza sindacati e patti sociali da difendere.
Questo terzo della forza lavoro attiva – condannato alla povertà e al rischio di esclusione sociale, forse alla sparizione vera e propria, dentro una crisi infinita – si affianca ai tre milioni già materialmente fuori dal contratto di lavoro, perché disoccupati e/o inoccupati. Eppure gli autonomi, le indipendenti, gli intermittenti e le precarie sono dentro al “mercato del lavoro” – seppure in modo atipico – tanto quanto lo sono disoccupati, inoccupate, in cerca di prima occupazione, sottoccupati, quasi Working Poors, al nero di qualche odioso lavoretto e di qualche aiuto familiare per chi può, o della strada, per chi non può.
Come si può far capire, in modo definitivo e perentorio, che queste “cittadinanze laboriose”, solo per il fatto di trovarsi nel “mercato del lavoro” (che siano occupati in modo atipico in una qualche attività – secondo l'odiosa retorica della subordinazione – ovvero disoccupati-in cerca di occupazione, tendenzialmente senza diritti) hanno diritto a una serie di tutele e garanzie che possano includerli nella società in cui (soprav-)vivono?
Eppure il Senatore Tiziano Treu – novello, si fa per dire, sempre lui, relatore del DdL governativo – e il Ministro Elsa Fornero – tecno-politici di ampie letture e cultura – sanno benissimo che da oltre un ventennio tutta la più attenta scuola giuslavorista – penso ad Alain Supiot e Massimo D'Antona per ricordar due nomi che desteranno in loro, come in noi, un qualche sentimento di affezione – sostiene che la protezione pubblica deve estendere il suo campo d’azione anche al piano del mercato del lavoro (sì proprio quello!), cioè all'affermazione di una nuova cittadinanza sociale. E sempre gli onorevoli Treu e Fornero sanno benissimo che nell'Unione europea a 27 Stati membri solo l'Italia, insieme con la Grecia, non possiede una forma anche minima di reddito garantito di base.
Chi scrive queste note, più per sfogo singolare e sconforto collettivo, è convinto che solo la previsione di un reddito garantito di base, universale e incondizionato, può permettere a questi sette milioni di cittadini e a tutti gli altri di sfuggire ai ricatti della crisi e alle miserie del presente, garantendo la libera autodeterminazione di ciascuno e la possibilità di guardare al futuro praticando le operose attività attraverso le quali rilanciare un Paese pericolosamente immobile nelle paure e ripiegato in rancori e risentimenti.
Chi scrive sa anche che questa misura non verrà mai adottata in questo Paese, perché le sue classi dirigenti, ancor prima che pavide, sono ottuse, incompetenti e al contempo saccenti. Preferiscono la paternale tecnocratica del “lo sappiamo noi come si fanno le riforme”; la compassione caritatevole dell'assistenzialismo savoiardo; la retorica stantia e catto-comunista dei sacrifici per “salvare la Patria”; il comando efficentista della fabbrica dell'obbedienza al lavoro e al ricatto della povertà, da accettare con falsa “pazienza cristiana”, o con odiosa “etica del lavoro”, quando è degli altri e “sotto padrone”.
Perché se a Palazzo Chigi abbiamo la truppa professorale delle fondazioni bancarie, alla Camera dei Deputati abbiamo gli A., B. e C. che sembrano usciti da una tribuna elettorale democristiana, in bianco e nero, dei primi anni '60, sempre del Novecento. Nella migliore delle ipotesi – si fa per dire – siamo fermi al 1978, come ci ricorda – a giorni alterni – il nostro Capo dello Stato, alla ricerca della gioventù perduta: quella del Mistero napoletano di Ermanno Rea, probabilmente. Ma capiamo le sue debolezze, che ci sentiamo anziani e fuori tempo noi, che abbiamo la metà dei suoi anni: e forse proprio per questo, a volte, ci viene voglia di incontrarlo, per parlarci – magari anche della memoria del nipote di Bakunin e della “compagna” Francesca Spada – ma poi, quasi subito, ci passa, questa voglia.
E allora, proprio perché sappiamo che non c'è salvezza, dati questi orfani di una politica che ha lasciato metà del Paese, con tutte le metropoli, in mano alle grandi corporation della malavita, cominciamo ad organizzarci. E a riprendercela insieme la dignità e il reddito che ci hanno sottratto. Coalizzandoci tra indipendenti, autonomi, precari-e, disoccupati e inoccupati per urlare no collettivi a tutti i ricatti e immaginare dal basso le forme di riappropriazione e redistribuzione della ricchezza. Solo noi possiamo fondare l'idea di una nuova società – realmente garantista – che sappia uscire dalla crisi fondando nuove forme di vita, nella gioia della cooperazione sociale e della condivisione. Coalizzati ci si sostiene reciprocamente: per cambiare le nostre vite e dare un nuovo presente alla società in cui viviamo, fuori i depressivi incubi finanziari dell'urcapitalismo; dentro la gioia del fare società insieme. E, per paradosso, proprio dentro la crisi, l'inoccupazione, la sottoccupazione di massa e il rischio di povertà diffuso, si possono trovare i modi per affermare nuovi modi di stare assieme.
E chissà che anche i nostri illustri Ministri e Onorevoli non abbiano voglia di ripensare alle letture che sicuramente fecero da giovani – semmai lo furono – sulla fine della società salariale e quello che può venire, dopo. André Gorz, Claus Offe, Robert Castel, tra gli altri, ci parlano di ipotesi affascinanti, proprio a partire da una critica del capitalismo e dalla valorizzazione di quelle figure che hanno combattuto e rifiutato la subordinazione, come condanna della propria forma di vita. Forse capiranno, ma troppo tardi, che dentro e oltre la crisi che essi definiscono recessivo-depressiva siamo noi la società che viene: la One Big Union del Quinto Stato.
Giuseppe Allegri
Se ti va credo puoi aggiungerci anche noi lavoratori pubblici (dirigenti inclusi? non so), che sono tra i garantiti solo fintanto che accettano lo scambio, al ribasso, tra tempi dilatati di produzione e salari orari sotto la media.
RispondiEliminacaro Antonio,
Eliminascusa del ritardo della risposta..-
temo tu abbia molta ragione!
è questa costrizione alla dittatura della subordinazione che dovremmo combattere insieme: per l'autonomia, l'indipendenza, l'autodeterminazione delle proprie esistenze, contro qualsiasi comando del lavoro subordinato!
in questo senso l'allusione al Quinto stato è quella per coalizioni sociali che affermino una nuova cittadinanza sociale, au-delà de l'emploi!!
grazie della lettura
pa