domenica 26 luglio 2015

REMO REMOTTI, NOSTRO ANGELO CUSTODE

Giuseppe Allegri


Da settimane vorrei scrivere di Remo. Ma le parole non vengono.

Remo Remotti poeta, artista, scultore, scrittore, quindi attore, grande affabulatore, performer indisciplinato e gioiosamente innamorato della sua mamma, delle donne e della vita, dichiarato matto dai custodi del grigiume quotidiano, ma saggiamente folle come un antico bardo alla conquista del mondo. E di Roma. Andata e ritorno. 

Perché Remo Remotti è per me Roma. Da quando lo vidi per la prima volta, Remotti/Freud che vive a casa con la mamma nello splendido Sogni d'oro di Nanni Moretti. Quindi sul finire degli anni Ottanta arrivai nella capitale, da provinciale, e incappai in Mamma Roma Addio, monologo da lacrime agli occhi, che poi Remo declamò sul tappeto sonoro dei Recycle, in uno dei più potenti crescendo musicali e poetici che si possano tuttora sentire.

Anche se in quell'epocale EP, titolato (Mamma) Roma addio, una bella versione è anche quella titolata Volemo lavora'?, con Remo che urla: “Volemo lavora'? Pronti!? Senti! Domanda a tutti: la faccio Roma, pure? La rifamo? Allora parto co' Roma e annamo via, va'! Un intercalare che divenne il ritornello preferito dei nostri figli, ai tempi uno infante e l'altra agli albori dell'adolescenza.
E proprio dei figli parlai a lungo con Remo.






Incantati dalla vita

Con Alessandro, un fratello, lo conoscemmo alla stazione di Milano, prima parte degli anni zero. Di ritorno da una giornata di assemblea neurogreen salimmo sullo stesso treno per Roma che prese anche Remo, dopo non so quale reading. Chiacchierammo a lungo. Tributammo a Remo la nostra esaltata passione, dopo averlo visto svariate volte dal vivo, a Testaccio e in giro per Roma. Parlammo senza rete, divagando dai ristoranti cinesi, alle onnipresenti ragazze, alle trasmissioni della Radio Rock dell'epoca d'oro, con Prince Faster, fino a una surreale discussione sul carcere di Spandau e del detenuto Rudolf Hess, con annesso passaggio sui Joy Division.


Poiché gli raccontai che custodivo come una reliquia il CD con Recycle, mi regalò il suo ultimo lavoro, In voga, con Remo in tenuta da rematore in copertina. “A Pe' me sento che ricambierai”.

Ci lasciammo scommettendo che ci saremmo rivisti ad accompagnare a scuola le nostre rispettive figlie, che frequentavano lo stesso istituto scolastico, a Prati: le medie Col di Lana, la mia, e il Liceo accanto Federica, la figlia di Remo.

Quel Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini!

E infatti ci incrociammo nuovamente poche settimane dopo. In macchina, alle otto di mattina. Avevamo davvero lasciato le nostre figlie a scuola, mentre io portavo il mio piccolo al nido. Ci fermammo sul lungotevere, all'altezza di un luogo simbolo per i monologhi di Remo, e gli presentai il piccoletto mezzo addormentato sul seggiolino. E al sonnolento, piccolo Jap sembrò di aver visto babbo natale, mi disse dopo. 

Lo stesso Jap che ora va a scuola alla Guido Alessi di via Flaminia, Roma nord, dove nei primi anni Trenta Remo frequentò le elementari. Quindi ci prendemmo una cosa volante al baretto davanti all'obelisco del Foro Italico: “quel Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini!” Parlammo delle nostre splendide fanciulle e del mio sornione piccoletto. Di come si potesse essere genitori all'altezza della situazione, restando però incantati dalla vita. Io verso i quarant'anni. Remo verso gli ottanta. 

E mi disse che c'è solo un modo per crescere i bambini, amare la vita e noialtri: considerarli adulti, da quando sono infanti, eppure sempre incantati. Noi e loro. “Pe', io Federica ci ho sempre parlato come fosse un'adulta. Più adulta di me, più incantata di me dalla vita”. Lui che ancora ad ottantacinque anni se ne sentiva dodici, come ricorda nella serata per Stefano Cucchi, solo cinque anni fa.

Finimmo per riconvocarci dal solito cinese, scambiandoci nuovamente i numeri del cellulare, che ho ancora qui nella mia rubrica. Non se ne fece nulla. Ci perdemmo di vista. Lo incontrai nuovamente diverse volte in giro per Roma. Da ossessivo appassionato lo fermavo sempre, ma ovviamente non si ricordava più di me. Ero uno tra i tanti rompicoglioni che lo salutavano:

Bella Remo!
  
Che lavoro fai?

E in questi giorni ho risentito mille volte Mamma Roma addio e sfogliato le pagine formidabili di un libro splendido e importantissimo per capire qualcosa di più di Remo Remotti, di Roma, della vita e di questo Paese, dai “fascistissimi” anni Trenta a oggi. È Diventiamo angeli. Le memorie di un «matto» di successo, che la preziosa casa editrice DeriveApprodi pubblicò all'inizio degli anni zero. 

In copertina c'è Remo, fazzoletto al collo e sigaro in bocca, fotografato dinanzi al manifesto Remotti è matto “ve lo prova con questa mostra alla Galleria Valle”, presso il (nostro) Teatro Valle (occupato), giusto quaranta anni fa, visto che la mostra si chiudeva il 10 luglio 1975. Da svogliati, distratti e bislacchi lettori vichiani e nietszchiani quali siamo, diremmo: corsi e ricorsi di una furiosa predisposizione all'insubordinazione che prende forma in quegli spazi abituati da secoli a vederne di tutti i colori. Roma. Da Remo Remotti al Valle occupato, agli oziosi quintari che siamo.

Che lavoro fai? Per anni e anni questa domanda – rivolta a me – mi ha fatto trasalire di imbarazzo e vergogna”, per dirla sempre con Remo in un altro suo proverbiale monologo, appunto: Che lavoro fai?
Gli altri erano qualcosa. Io non ero un cazzo...

Remo, Imperatore di Roma

Remo Remotti è invece stato un Imperatore di Roma, con quel nome da fratello fondatore, insieme allattati dalla Lupa, eppoi fratricidi. Un Imperatore di quelli che più ci hanno accompagnato, per strada, nelle notti, nelle mattinate e in quei pomeriggi infiniti, assolati di canicola, come questo luglio nell'anno della sua morte, nei vicoli e nelle piazze di questa Roma infame, eppure splendente. Tra Roma nord e Monti. Nel cuore di Trastevere e dispersa al Mandrione. Magari un Imperatore meno corrosivo di quello narratoci da Nico D'Alessandria. Una sorta di Victor Cavallo senza essere Ladro di Bombay (nel senso del gin, tra i migliori), perché Remo è piuttosto sempre stato un Bukowski sobrio.

Con uno stile inconfondibile e un'eleganza senza tempo, da eterni circoli canottieri prossimi ai bassifondi, in quella Roma papalina eppure popolana, dove le domande erano sempre già chiuse e la disaffezione per una qualsiasi forma di lavoro si faceva stile di vita...

Quella Roma che è poi contraltare dell'immensa provincia che la circonda.

Tanto la provincia vitellona, quanto la Roma cinematografara sono gironi dell'inferno, ma sono anche godibili Paesi della Cuccagna”. Così Italo Calvino, nella sua Autobiografia di uno spettatore, per introdurre i Quattro film di Federico Fellini (Einaudi, 1974) 

Il Campari al Notegen di via del Babuino

E rileggendo Diventiamo angeli di Remotti, salta immediatamente all'occhio dell'erratico freelance del tempo passato a ciabattare per Roma la conclusione del suo fallimentare incontro con il dott. Furio Colombo, impeccabile addetto della “prestigiosa industria di Ivrea”, per la selezione del personale laureato:

Strinsi la sua mano di vincitore, abbozzando un piccolo inchino. Non mi rimase che scendere lentamente le scale, uscire dal portone, fammi baciare dal sole caldo di Roma, di quella puttana maledetta, e andarmi a ubriacare lì vicino al Baretto di via del Babuino, con un paio di Campari Soda”.

Il Baretto era probabilmente il celebre (anche per noi) Bar Notegen, tutt'altro che un baretto, aperto tutta la notte sin dagli anni Cinquanta e Sessanta, dove la nostra memoria individuale e collettiva ricorda il vociare acuto di Federico Fellini che lascia lo spazio a un alticcio e cavernoso Carmelo Bene.

Tutto questo non c'è più. Da tempo.

Ora anche Remo se ne è andato, da questa Roma e non solo. Per diventare il nostro amato angelo custode. L'amore ha voluto che i suoi geni possano ancora calpestare questa terra.

E a noi servono più di un paio di Campari, meglio se corretti con il Bombay, per sopravvivere.

Piangi, Roma...splendi sole, da far male...

E rimanere incantati, ancora una volta. Per una vita intera.





***
  
PS: Nel tempo, noialtri furiosi, citammo Remo e le sue performance, anche in questo blog. 

In controcanto alla Grande bellezza, della nostra amata e odiata Roma:

Per festeggiare la (s)vendita democratica della nostra Furia dei cervelli, con il già ricordato Sigmund/Remo:
http://furiacervelli.blogspot.it/2015/01/siamo-in-saldo-ma-con-tanta-furia.html

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