martedì 15 maggio 2012

MACAO: L'UTOPIA CONCRETA DEL LAVORO INDIPENDENTE

Uno spazio verticale di 33 piani dove riunire le arti e le professioni indipendenti, liberali, cognitive e creative, come quelle operaie e artigiane, seguendo un modello di auto-governo che va dalla formazione alla co-progettazione, dalla creazione di una filiera dell'arte alternativa a quella pienamente finanziarizzata (a Milano, passando da Venezia e Roma e, poi, sulla scena globale) ad un laboratorio del co-working dove il principale obiettivo è la creazione e la socializzazione di un'attività operosa, non la concessione a pagamento di loculi dove la "creative class" si accomoda con il suo computer e finge la normalità di avere un ufficio, ricevere i "clienti", simulare la comodità di un atelier, quando invece paga solo il marchio acquistato in franchising dalle multinazionali del co-working.

Questa è l'idea di Macao.  L'utopia concreta dei lavoratori dell'arte che hanno occupato per dieci giorni la Torre Galfa di Milano, al centro di una delle aree della speculazione immobiliare più grande d'Europa, non muore con lo sgombero di stamattina.  Macao, infatti, rovescia il presupposto del lavoro professionale, nell'ambito del lavoro della conoscenza: non più fondato sullo status professionale del singolo professionista che ha bisogno di "distinzione" e "autorevolezza" e quindi acquista, affitta o condivide uno studio professionale, un laboratorio o un atelier, uno spazio espositivo oppure un'aula universitaria dove mostrare il proprio sapere davanti ad una platea di studenti o di apprendisti in un master a pagamento. 


Macao può essere l'acronimo che allude alla creazione di uno spazio sociale, la cui proprietà viene condivisa dagli operatori che lo governano e da coloro che lavorano, o si riconoscono, nelle filiere delle attività che lo attraversano, trovando così il proprio fondamento nella cooperazione produttiva e nella progettazione condivisa da parte dei singoli, come delle loro reti associative, professionali, sociali alle quali appartengono. 










Si passerebbe così dallo status alla cooperazione, imperniata sul riconoscimento di una condizione comune e non sul possesso di un sapere, sulla necessità di posizionarlo sul "mercato" e sull'obbligo di trasmetterlo seguendo la tradizione gerarchica e frontale dell'insegnamento universitario, oppure quello esoterico elle filiazioni professionali. Il "maestro" artigiano, il grande artista che possiede una bottega d'arte che centellina i segreti del mestiere all'apprendista che deve penare e inventare stratagemmi per estorcere, nel più breve tempo possibile, la verità che un giorno lo renderà, forse, famoso sul mercato.

Nel concetto di Macao non emerge solo l'esigenza di elaborare una professionalità fuori da un mercato che la esclude, oppure la sfrutta ricorrendo alle regole ferree della committenza al ribasso, pagata un tozzo di pane in cambio dell'anima. C'è anche l'idea di una nuova socializzazione delle arti e delle professioni a partire da una condizione comune: quella del nomade urbano, del precario metropolitano, dell'apolide in patria che non ha diritti e quando lavora non trova alcuna sponda in una società nemica, né 
riconoscimento giuridico nell'edificio delle tutele e delle garanzie lavorative. 



Nel suo slancio universalistico, nello sforzo della definizione di uno spazio polifunzionale ma non enciclopedico, Macao è difficilmente riducibile ad un progetto di co-working, quello conosciuto da San Francisco a The Hub di Milano.  Il termine "coworking" è stato coniato da un programmista informatico, Bernie DeKoven nel 1999.  DeKoven disse: "Sembrava che potessi avere sia un lavoro, che mi avrebbe dato la struttura e la comunità, restando però un freelance con la mia libertà e indipendenza. Perché non avrei dovuto avere entrambi?". E fu così che organizzò a San Francisco uno spazio di coworking, "Hat Factory" e "Work only" dove chiunque poteva crearsi il proprio ufficio, affittare una scrivania, creare una comunità con persone di diverse professioni che vogliono condividere idee e progetti. La rete di coworking come l'ha concepita questo informatico si è estesa negli Stati Uniti, e nel resto del mondo. C'è sempre il Wi-Fi e risponde alle esigenze di chi non sopporta di lavorare da solo in casa, cioè il modello di vita del lavoratore autonomo. Su questo bisogno è nato un impero. 

Macao nasce invece dall'esigenza di non cedere al mercato il prezzo della propria solitudine, bensì di condividere in una comunità aperta il progetto di reinventare e proteggere un lavoro che il mercato svalorizza, frammenta in mille mansioni irriconoscibili, basandosi sulla divisione tra i saperi (manuali e intellettuali, artistici e pratici, esecutivi e astratti) e sul privilegio del merito e del talento rispetto alla diffusione orizzontale dei saperi tra gli esperti e i non addetti, tra gli studenti e i docenti, tra i professionisti 
e i clienti, tra la domanda e l'offerta. 

Il criterio base di questo spazio non è quello di esporre delle competenze all'offerta migliore del cliente, né quello di supplire all'alienazione del lavoratore digitale spingendolo in un falansterio dove può incontrare solitudini simili alla propria, regolamentate da un cerimoniale basato sulla simulazione di un'apparenza o di una carriera. Il criterio è un altro: 

- creare un lavoro al quale non preparano più le istituzioni (dalle accademie all'università, passando per la scuola o i master); 
- ricreare le filiere distrutte dalla gigantesca concentrazione finanziaria del potere nell'arte, così come dalla burocratizzazione dei ruoli e delle mansioni operata dalle autorità statali (soprintendenze, società dei servizi, musei, ma anche fondazioni); 
- modificare e riattraversare i confini tra i saperi "umanistici" e "artistici", da un lato, e quelli "tecnici", "giuridici" e "commerciali" dall'altro;

Da un atto di disobbedienza civile che occupa uno spazio immenso abbandonato da 15 anni emerge infine l'esigenza di costituirsi in soggetto collettivo, che si faccia forte di varie specificità professionali, ma soprattutto del riconoscimento di una condizione comune, quella del Quinto Stato, che dia la possibilità ai singoli di ritrovarsi in un consorzio, o un'associazione, capaci di tutelare la vita, come la professione, ricorrendo agli strumenti 

- del microcredito (ricerca collettiva di finanziamenti, a livello locale nazionale e europeo) per l'attività produttiva;
- del mutualismo (Macao, come consorzio, potrebbe essere la sede di una cassa mutualistica dove i lavoratori indipendenti possono versare i proprio contributi previdenziali, costituire un'assicurazione collettiva contro malattie e infortuni - cosa che mai troverebbero fuori, nella società);
- della co-progettazione che aiuta a sviluppare un'attività imprenditoriale, un progetto artistico, una formazione individuale e continuativa:

Questa è l'utopia concreta di Macao, teoria e pratica della ricchezza sociale, di chi crede che la cooperazione sia la parte attiva, vivente, di una società.


Roberto Ciccarelli

1 commento:

  1. Il tutto è molto affascinante visto da quaggiù.
    Lo dico da creativo che dopo esser stato 3 anni direttore creativo di una piccola agenzia toscana ha intrapreso la libera professione e sta cercando di offrire la professionalità maturata in 4 agenzie (3 unicom e una che lavorava per Vespa, Piaggio e Regione Toscana) ad un prezzo sostenibile, non gonfiato dal dover mantenere zavorre cerebrali e operative.

    Il punto che mi perplime rispetto a Macao è:
    chi paga i lavori di ristrutturazione, messa a norma, gestione, e 33 piani di utenze di Macao?

    No, perché a Milano magari lo fa il comune...
    qui da noi di solito i concept space nascono a spese di papà, per figli che hanno CV altisonanti... e come dopo un vuoto d'aria... presto si sfracellano e lasciano spazio a concessionarie Ford.

    Con questo non intendo esser pessimista, né tarpare sogni e speranze di un presente più equo, gioioso e sostenibile.

    Sto solo chiedendo come intende un'Utopia diventare topia.

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