venerdì 27 febbraio 2015

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI COALIZIONE SOCIALE

Roberto Ciccarelli

Da parola chiave del centro-sinistra, quello delle alleanze arcobaleno o dei rissosi governi Prodi, la sinistra politico-sindacale italiana ha riscoperto la parola “coalizione”. Un termine che si pone in antitesi alla sommatoria dall’alto e alla fusione degli attuali ceti politici. Ma, ad analizzare bene, le idee di coalizione di Maurizio Landini, Stefano Rodotà e Sergio Bologna assumono sembianze diverse. Un' analisi pubblicata su MicroMega

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Nel linguaggio del segretario della Fiom Landini, quando non spende il  tempo a smentire di voler entrare in politica, “coalizione” significa questo: “Il sindacato – ha detto - si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga che superi i confini della tradizionale rappresentanza sindacale e aprirsi a una rappresentanza anche politica. La sfida democratica a Renzi passa anche da qui”.

La versione Ladini

Strumentalizzazioni di Renzi, e titoli di giornali fuorvianti a parte, la coalizione di Landini privilegia l'idea di una primazia del “sindacale” sul “politico”. Per questo auspica un ruolo forte del sindacato (Cgil più Fiom) che supera se stesso e diventa un soggetto politico che ingloba, e uniforma, le infinite e divergenti sigle della sinistra “sociale”, movimentista o associativa. E immagina di aspirare nel suo vortice ciò che resta dei frammenti della sinistra politica che seguono progetti politici inconciliabili:  l'alleanza con la “sinistra Pd” - qualsiasi cosa significhi – o l'incarnazione di una Syriza all'italiana.


In questa visione il sindacato si farebbe movimento politico, se non partito “a rete”. Syriza, in Grecia, e non Podemos in Spagna, sembra essere il modello più vicino alle aspirazioni del segretario Fiom, anche se in questo caso il nucleo centrale è rappresentato da un partito, e non da un sindacato. La coalizione di Landini è composta da cerchi concentrici retti dal nucleo ordinatore, razionale, compatto di un sindacato che fa politica, lì dove la politica non esiste.

Sin dal tempo della ”coalizione” “Uniti contro la crisi”, questa è stata l'idea guida della Fiom. Questa operazione ha conosciuto una drammatica battuta d'arresto il 15 ottobre 2011 quando la “coalizione” formata con l'allora crescente Vendola, insieme ad una parte dei movimenti sociali e altre rappresentanze della sinistra diffusa, implose in piazza San Giovanni. Al netto delle dure polemiche tra aree di movimento, e delle pesanti conseguenze per i singoli, quell'episodio registrò il fallimento dell'opposizione italiana contro l'austerità mentre in Grecia e in Spagna mobilitazioni analoghe crescevano. Tre-quattro anni dopo, in maniera diversa, hanno portato a Syriza e Podemos.

Il fatto politico più rilevante è che quel primo tentativo di “coalizione”  - al centro c'era l'idea di Landini del sindacato-movimento (o meglio di una sua parte) – fu contestata dall'interno del movimento. Certo, da allora le cose sono molto cambiate, perché è cambiata l'Europa ed è cambiata l'Italia con l'avvento del Movimento 5 Stelle che oggi immobilizza il 20% dei voti e, soprattutto, quello di Renzi. E sono cambiate anche le reti che in Italia compongono i movimenti sociali, come dimostra tra l'altro l'esperienza dello sciopero sociale e un più avanzato ragionamento da parte delle aree che lo compongono. Si registra una maggiore disponibilità ad una politica di coalizione, rispetto a quattro anni fa, ma non è detto che la versione di Landini sia condivisa.

Quando formula la sua ipotesi sul futuro della sinistra, il segretario Fiom non sembra calcolare che la mobilitazione d'autunno della Cgil contro il Jobs Act è fallita e il suo potenziale di mobilitazione che ha portato un milione di persone in piazza il 25 ottobre 2014 ha subìto un passaggio a vuoto. In più non è detto che la dirigenza Cgil guidata da Susanna Camusso condivida la sua idea di sindacato-movimento e non sia invece più sensibile all'idea di un sindacato autonomo dalla politica, ora che lo storico collateralismo con il Pd sembra essere stato interrotto dalle politiche dichiaratamente neoliberiste di Renzi.

E infine non è detto che nella società, e non nella scala infinitesimale di ciò che resta della “sinistra radicale”, questa idea di “sindacato-movimento” (di “parzialità metalmeccanica” per così dire) sia riconosciuta come collante per una “coalizione sociale”. Che i metalmeccanici, e in generale la Fiom, possano essere oggi riconosciuti in questo ruolo non è affatto scontato, al netto della popolarità del loro leader. Che presenta la sua idea di coalizione, ma non di leadership politica, in quanto sindacalista. Un ruolo che andrebbe perlomeno ridiscusso, come quello della sua idea di lavoro e del sindacato considerato come il motore della coalizione.

L'azione di Landini risente di queste incertezze. Passare dalla manifestazione sulla “via maestra” del 12 ottobre 2013, che prese molte distanze da quella del movimento della casa del 19 successivo, ad un rapporto di interlocuzione pragmatico e personale con Renzi nei primi sei mesi del suo governo, prima della recente rottura, non aiuta alla comprensione della sua strategia. Oscillare tra le posizioni del sindacalista conflittuale a quello di un politico a tutto tondo non giova al progetto di coalizione. Per Landini l'obiettivo è la ricomposizione del sindacale con il politico, oppure del sociale con il sindacale. Processi che tuttavia restano distinti, se non proprio distanti, considerando che Landini è minoranza nella Cgil e non ha ancora affrontato la complessità sociale a cui si rivolge. Nel vuoto della politica, tutto resta sospeso agli esiti del dibattito tra le componenti del sindacato di Corso Italia.

Nei fatti il sindacato ha conquistato un'autonomia sulla società, come sulla politica. E costringe entrambi a sottostare alle sue modalità, non facilmente comprensibili, e per di più figlie di una logica della rappresentanza non proprio diffusa, né popolare. In questa cornice la versione Landini resta una parzialità non interamente rappresentativa di una “coalizione” che ha già rifiutato una volta di farsi rappresentare da lui. Al momento il segretario della Fiom trova ascolto in un'area di sinistra sensibile ai diritti del lavoro dipendente, contro l'abolizione dell'articolo 18, per la rappresentanza dei lavoratori nella grande fabbrica (la Fiat-Fca), contro l'austerità e per il rilancio di un keynesismo tradizionale. Tutte battaglie che sono state perse onorevolmente. Ma che tengono vivo un necessario fronte anti-austerity.

La versione Rodotà

Non giova in questi discorsi l'astrattezza del concetto di “coalizione”. Si tratta di una “parola baule” come dice Humpty Dumpty in Alice nel paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. Coalizione indica oggi una parola con “due significati imballati in un solo significante”, quella che in italiano si chiama cerniera. Coalizione è infatti la “cerniera” tra le strutture sindacali e associative e una molteplicità indistinta di singolarità e movimenti che talvolta esprime livelli di intelligenza e di auto-organizzazione notevoli.

Questa è l'idea di coalizione proposta da Stefano Rodotà: “mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza”. È una visione della coalizione diversa, ma non opposta, da quella di Landini dove la Fiom – intesa come parte del tutto: la Cgil – viene considerata sullo stesso piano di organizzazioni molto diverse,  ma collegate dalla stessa koiné.

Per Rodotà queste organizzazioni sono “cerniere” di collegamento tra le istanze dei beni comuni, dei diritti fondamentali e dell'universalismo concreto con il tessuto socio-istituzionale che la sinistra italiana ancora possiede. Perché questa coalizione funzioni, bisogna liberarsi della “zavorra” dei partiti di sinistra radicale, sostiene Rodotà. Alla base di questa proposta c'è la solidarietà tra i singoli che “ci permette di non rassegnarci alla frammentazione sociale e ai meccanismi di esclusione”.

Una volta accertata la crisi dei legami solidaristici nella classe operaia, assunto che lo Stato sociale nazionale non è più l'orizzonte esclusivo dove essa si manifesta, Rodotà prospetta un'evoluzione europea della coalizione. Questa “utopia concreta” si nutre di un pensiero cosmopolita, considera la coalizione come la parte agente di un pensiero politico universale, non il rifugio nella sovranità dello Stato nazione o nel rilancio dei suoi corpi intermedi o della rappresentanza sindacale. Pur usando la stessa parola, la coalizione di Rodotà è lontana da quella di Landini.

Resta un'interrogativo: qual è la differenza tra lo schema proposto da Rodotà (Fiom, Libera, Emergency e altri come cerniera tra il sociale e il politico) e quello dei social forum sperimentati tra il 2001 e il 2003 in Italia dal G8 in poi? Quell'esperienza si trasformò nell'infelice parlamentino della sinistra radicale, movimentista e associativa. Una sommatoria di diversità accomunate dalla necessità di fare “cartello”, organizzare manifestazioni, in una crescente enfasi declamatoria che poco rispondeva alle esigenze delle pratiche quotidiane del mutualismo (nuova parola baule della sinistra italiana), per non parlare del conflitto sociale.

Allora non funzionò, per la debolezza di queste esperienze e per il ruolo devastante di Bertinotti e di Rifondazione Comunista che distrussero tutto pur di andare al governo. Una scelta punita alle elezioni del 2008 quando gli elettori di sinistra distrussero la sinistra parlamentare semplicemente non votandola mai più. Perché dovrebbe funzionare oggi, quando i partitini zavorra svolgono un ruolo di interdizione rispetto a ciò che potrebbe nascere “dal basso” ma che, a tutti gli effetti, non nasce. E se nasce, è estraneo alla rappresentanza di sinistra? Per Rodotà ciò che permetterebbe di superare questo problema politico è la forza dell'argomentazione sui diritti fondamentali e delle pratiche dei beni comuni. La coalizione è il risultato di queste azioni, non la premessa di un nuovo assetto tra forze politiche (questa è la versione della coalizione fornita dai vari Civati, Fassina o Vendola), o tra soggetti costituiti e quelli che emergono dal basso.

Questi tentativi di proporre una nuova forma della politica restano tuttavia soggiogati dalla riduzione di “coalizione” a parola-macedonia. Essa è il prodotto del tentativo di pronunciare nella stessa parola due concetti senza però decidere l'ordine. Viene prima il “sociale” o prima il “politico”? Viene prima il “sindacale” oppure il “partito”? Nella lotta tra chi si spende per imporre la sua priorità, non si è solo persa la sequenza originale, ma anche il senso delle parole.

La crisi della sinistra italiana non è organizzativa. Anzi, di organizzazione ce n'è pure troppa. Manca ciò che ha fatto la fortuna di movimenti come Syriza, Podemos, o di Grillo quando sembrava agire in campo aperto, non fare l'amministratore di un gruzzolo di voti. Ciò che conta in questa nuova politica non sono i termini di una relazione (i “soggetti”, i “partiti”, i “sindacati” ecc), ma la relazione tra questi termini. Tra l'alto e il basso, tra la destra e la sinistra, tra ciò che compone una coalizione e non la coalizione come contenitore di tutte le differenze.

La versione Sergio Bologna

In un saggio del 2007 intitolato “Il senso della coalizione” (contenuto in “Ceti medi senza futuro”, DeriveApprodi) Sergio Bologna,  ha reinventato un concetto che oggi è arrivato a noi in tutt'altre forme, come abbiamo visto. Da storico del movimento operaio, Bologna ha ripreso questo concetto riferendosi alle prime associazioni di mutuo soccorso, e alle leghe di resistenza, organizzate dai lavoratori senza tutele all'origine del capitalismo moderno. Sensibile alle innovazioni politiche più avanzate dei nostri tempi, quasi dieci anni fa Bologna ha visto nel sindacato dei freelance più grande al mondo – la Freelancers Union (FU) – un nuovo modello della politica, e non solo della rappresentanza degli interessi dei lavoratori indipendenti, con o senza partita Iva.

Oggi la Freelancers Union pratica il mutualismo e ha creato un rapporto problematico con le istituzioni e il capitale finanziario, proponendo un nuovo concetto politico ispirato al concetto di auto-determinazione e di auto-tutela, non di delega o di rappresentanza e di lobby. Lo studio della storia del mutualismo italiano e francese è stato determinante per la fondatrice della FU Sarah Horowitz per sperimentare una nuova forma di coalizione adattata alla “forza lavoro” del futuro: il lavoro indipendente, cioè autonomo, precario, intermittente, non dipendente, cooperativo o delle micro-imprese.

Fare coalizione non significa dunque stabilire solo un patto associativo per lo scambio mutualistico di servizi. La coalizione è anche lo strumento per difendere il valore del proprio lavoro, o per crearne uno insieme ad altri. Serve per contrastare l'aumento del carico fiscale del lavoro autonomo, come la precarizzazione di chi è sempre più precario. E per la creazione di nuove istituzioni che intreccino gli interessi dei singoli con quelli generali.

Il presupposto di questo ragionamento è modificare i principi della lettura sociale a sinistra: rovesciare la sua mono-cultura basata sul lavoro salariato e, in generale, sul lavoro subordinato a tempo indeterminato. Non si tratta più rappresentare solo la classe operaia o solo il ceto medio, ma trovare la relazione comune a questi termini. E la relazione risiede nelle modalità del lavoro, e del non lavoro, all'interno di una trasformazione generale che ha investito tanto la produzione, quanto la società e le sue istituzioni nel mercato capitalistico. Gli esempi abbondano negli Stati Uniti, come in Francia o in Belgio, e molti altri se ne possono fare in Italia. un principio guida utile per riconoscere un elemento costituente, e non reazionario, è l'auto-organizzazione del lavoro indipendente e la sua capacità di proporsi come consapevole attore politico. Queste esperienze sono, con le parole di Bologna, il risultato di una “coalizione sociale tra i precari e i freelance”. 

Tale coalizione è anche il risultato di una riflessione politica di primo piano. Vista l'arretratezza della borghesia italiana, a suo tempo il partito comunista è stato in Italia il soggetto che propose un patto politico tra la classe operaia e il ceto medio. Un tentativo che non ebbe successo, negli anni Settanta fu contestato duramente da sinistra, per poi nel ventennio successivo ai dogmi del neoliberismo, al centrismo e infine alle politiche di austerità. Oggi più che mai il problema resta lo stesso. Ma sono cambiate le priorità.

Il campo di battaglia, dove conquistare gramscianamente l'egemonia, è diventato il ceto medio proletarizzato. Uno spazio sociale stratificato, e politicamente divergente, ma che oggi costituisce l'ambito dove maturano quasi tutte le esperienze politiche significative: le rivolte Occupy o degli Indignados, piazza Taksim a Istanbul. Anche il movimento 5 Stelle, almeno secondo l'interpretazione che ne ha dato Giuliano Santoro, ha recepito molte di queste istanze. È su questo spazio che le destre europee alla Le Pen hanno lanciato la loro sfida anti-euro, ed è in questo spazio che sono maturate le opzioni dell'europeismo politico di Syriza e Podemos. In questi ultimi casi è più che evidente il risultato di un patto politico progressivo generato dall'idea di coalizione sociale tra le classi lavoratrici e una parte attiva e consapevole dei ceti medi.

Questo territorio politico incandescente, mobile e trasversale, è il luogo dove realizzare la politica delle coalizioni. Non una, come si sostiene in Italia, ma molteplici perchè tanti sono i consorzi sociali, professionali o civili che possono formarsi. Gli strumenti per realizzarla sono quelli indicati dal movimento femminista. Su questo punto l'analisi di Bologna è determinante. Il concetto di coalizione deriva da questo movimento e oggi incarna una realtà strutturale del lavoro: quello femminile è il lavoro in quanto tale, le sue modalità relazionali sono quelle della produzione. L'invisibilità politica che ha perseguitato le donne, oggi è anche la realtà del lavoro indipendente. Rimettere al centro l'esperienza di questo movimento serve a rimettere in discussione il paternalismo e il leaderismo della politica contemporanea.

Fare coalizione è infine una risposta al discorso ricorrente sulla guerra tra giovani e anziani, garantiti e precari, e un modo per vedere diversamente la situazione:


“Ai giovani precari – ha scritto Sergio Bologna – ben pochi dicono come va il mondo. Chi invece è sul mercato da anni come i lavoratori autonomi potrebbe insegnare loro qualcosa. Ma dai giovani questi freelance devono imparare a non chiudersi dentro un rivendicazionismo corporativo, devono anzi mantenere alta la riflessione sullo stato di cose presente, devono stare incollati all'innovazione di pensiero, quanto più cambiano i paradigmi del modo di ragionare comune, tanto meglio è per loro. Non devono aver paura a misurarsi con la storia”.

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