mercoledì 29 aprile 2015

L'ESPLOSIONE DELLA CLASSE ESPLOSIVA

Uno spettro si aggira per l’Europa: è lo spettro del precariato. Ed è proprio attraverso la categoria concettuale del precariato, definita “classe esplosiva”, che si può comprendere il quinto stato e l'idea di politica come pratica delle coalizioni - da MicroMega

di Domenico Tambasco

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Uno spettro si aggira per l’Europa: è lo spettro del precariato.

Così potremmo esordire, parafrasando il noto incipit del “Manifesto del Partito Comunista”[1], per definire con una sintomatica espressione il recente sviluppo di “coalizioni sociali” che traggono la loro origine direttamente dal mondo del lavoro.

È un fenomeno che risponde a dinamiche sociali articolate e profonde, di lungo momento, che solo uno sguardo superficiale può ridurre alla lista dei cartelli politico-elettorali; è il caso dunque di coglierne i profili, facendo riferimento a ciò che sta accadendo, negli ultimi mesi, proprio in Italia.

Incredibile a dirsi –forse memore di una tradizione movimentista che affonda le sue radici ai tempi della Rivoluzione Francese – una delle prime categorie a mobilitarsi è stata proprio quella degli avvocati che, a colpi di “selfie” recanti lo slogan “Io non mi cancello”, ha dato vita ad una diffusa protesta contro la propria Cassa di Previdenza Forense. Protesta che si è rivolta in particolare contro il sistema dei “minimi contributivi” che prescindono dal reddito del singolo professionista e, soprattutto, contro l’approvazione di una norma dello schema di decreto ministeriale[2] che prevederebbe la “regolarità contributiva” quale requisito di permanenza nell’ordine professionale. Il che vorrebbe dire, in poche parole, penalizzare oltre il 40% dei professionisti oggi iscritti all’albo che dichiarano redditi rientranti addirittura nella soglia di esenzione dal contributo unificato per le cause di lavoro (ovverosia redditi inferiori ai 32.000,00 euro)[3] e che, ciononostante, si vedono recapitare annualmente richieste di pagamento di contributi minimi che sfiorano i 4.000,00 euro.

La concretezza di un’inedita difficoltà in cui è coinvolta una professione tradizionalmente investita di prestigio sociale è espressa non solo dalle parole dei diretti interessati, che denunciano “gravi forme di sfruttamento” veicolate “dalla finzione della partita Iva”[4] ed il ribaltamento della tradizionale equazione democratica “lavorare per avere reddito” nell’assurdo postulato censitario “avere reddito per poter lavorare[5], ma anche da un’attenta analisi sociale del più generale fenomeno del cosiddetto Quinto Stato”, in cui si rileva come “i giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure dal muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance”[6].

È la scoperta della nudità del re: la diffusione della povertà anche in professioni, una volta universalmente rappresentate come “caste”, che oggi invece rispecchiano drammaticamente la stratificazione della società in una èlite che accumula, con voracità sempre maggiore, immani guadagni e privilegi e in una maggioranza che, al contrario, non può che assistere con sempre maggiore frustrazione all’aumento dei debiti nel deserto dei diritti[7]. Questa drammatica divisione – soltanto all’apparenza invisibile – ha portato addirittura ad affermare che “pensare che questi giovani avvocati, e i proprietari o soci degli studi legali per cui lavorano, così come i giornalisti freelance e i loro direttori appartengano al medesimo ceto medio è con tutta evidenza un’assurdità: i primi sono liberi professionisti, i secondi sono i loro schiavi”[8].

Di qui, in concreto, è derivata la costituzione di un movimento denominato “Mobilitazione generale degli avvocati” (MGA), che si è fatto promotore di un’iniziativa di protesta che, lungi dal limitarsi alla sterile rivendicazione corporativa, si è saldata con il malcontento di numerose altre professioni autonome ed indipendenti, dando vita alla “Coalizione 27 febbraio”, saldatura intercategoriale “in embrione”, che raggruppa all’insegna della solidarietà interprofessionale alcune rappresentanze degli avvocati, dei giornalisti freelance, dei parafarmacisti, degli architetti, degli ingegneri, dei segretari comunali e provinciali, dei geometri e degli archivisti[9].

Si tratta di una prima forma di mobilitazione di quello che è stato definito il “Quinto Stato”, ovverosia una mescolanza di situazioni sociali opposte e di culture del lavoro spesso divergenti, accomunate tuttavia dal fatto di rappresentare forme lavorative apparentemente “indipendenti” (appunto, le classiche professioni autonome, i freelance, le partite iva, i parasubordinati et similia) ma ugualmente colpite dal tarlo della precarietà e della quasi totale assenza di strumenti di protezione sociale, tanto da far parlare di stato di vera e propria “apolidia”[10]. Movimento sociale e non classe[11], dai contorni spesso magmatici il cui malcontento, oltre che da una povertà retributiva tutta attuale, è motivato dalla coscienza di essere vittima di una grave ingiustizia contributiva: corrispondere –a proprio carico, e non a carico dei committenti- sempre maggiori contributi alle proprie Casse di appartenenza o alla “gestione separata” dell’Inps, nell’assenza di adeguati sistemi di protezione sociale in caso di malattia, maternità, infortunio, disoccupazione, e con la prospettiva di pensioni che, se conosciute nel loro reale e miserrimo importo, porterebbero ad un vero e proprio “sommovimento sociale”, come dichiarò a suo tempo l’ex presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua.

Su questo humus, dunque, si innesta il recente e da più parti discusso fenomeno della “coalizione sociale”[12] che appare –a prescindere dalle identità dei singoli protagonisti dell’iniziativa- come una spontanea saldatura del Quinto Stato con il Quarto Stato, dei lavoratori indipendenti con i lavoratori subordinati sindacalizzati (la tradizionale classe lavoratrice-operaia), uniti in una solidale lotta contro la precarietà, a prescindere dalle appartenenze di ceto sociale.

Da queste incessanti, molteplici e veloci “fusioni sociali” sembra quasi emergere, sebbene allo stato ancora nascente, il prototipo di quella che un attento studioso ha definito la “classe esplosiva”, il precariato, che da “classe in sé” tende a trasformarsi rapidamente in “classe per sé”: in questa dinamica, secondo Guy Standing, è proprio lo strato cognitivo del precariato a dover prendere l’iniziativa, lo strato “ delle persone istruite precipitate in un’esistenza precaria dopo che era stato loro promesso l’esatto opposto: una brillante carriera fatta di crescita personale e soddisfazioni”[13]; iniziativa finalizzata al coinvolgimento nella lotta per la propria “autoabolizione” anche degli altri strati della massa precaria, primo fra tutti quello dei giovani lavoratori subordinati, figli delle famiglie operaie vissute nel sogno della stabilità e della mobilità sociale ed oggi affogati nel mare di una precarietà vissuta come “deprivazione relativa ad un passato reale o immaginario”[14].

È la precarietà, dunque, il codice genetico di queste nascenti “coalizioni sociali” ed il cardine attorno a cui ruota l’azione sia dei lavoratori indipendenti nati nella precarietà sia dei lavoratori subordinati che nella precarietà sono rovinosamente caduti, anche all’esito di recenti “riforme” del lavoro che, nell’estendere “crescenti tutele”, non hanno fatto altro che creare un unico e totalizzante modello di lavoro precario.

Lotta contro la precarietà – lato oscuro della “flessibilità” neoliberista – che, in controluce, sembra assumere un duplice ruolo, tanto distruttivo quanto costruttivo.

Da un lato, la pars destruens evidenzia la critica alla precarietà nel suo triplice, deteriore inveramento storico, costituito dalla rimercificazione[15] del lavoro, dal pauperismo lavorativo e dall’insicurezza socio-esistenziale.

In particolare, l’azione di contrasto di questi movimenti sembra indirizzarsi verso la critica all’ormai invalsa teoria mercatista del lavoro come bene liberamente scambiabile sul mercato indipendentemente dal “valore” dell’uomo che lo presta, all’assioma del lavoro-merce il cui prezzo e la cui quantità è liberamente determinata dalla legge della domanda e dell’offerta cui seguirebbe, conseguentemente, la libera fluttuazione del salario rimessa alla contrattazione individuale, la libera licenziabilità ai fini dell’adeguamento della “forza-lavoro” alle contingenti esigenze del mercato e la libera gestione del “capitale-umano”, demansionabile ad libitum in ragione di semplici “modifiche degli assetti organizzativi aziendali”[16].

Critica espressa nella severa denuncia del “lavoro povero”, ossimoro che evidenzia un altro aspetto della precarietà, cui si rivolgono questi movimenti nella loro richiesta di retribuzioni “degne”, adeguate ad un’esistenza libera e dignitosa[17], e soprattutto nell’icastica e paradossale dichiarazione di “lavorare per avere reddito” e non di “avere reddito per lavorare”.

Critica che si sostanzia, da ultimo, nel contrasto alle conseguenze esistenziali del lavoro[18] precario, che attraverso la destandardizzazione delle forme lavorative ordinarie ha introdotto milioni di lavoratori nella “società del rischio”, felice espressione[19] utilizzata per significare l’universalizzazione dell’insicurezza sociale, dell’impossibilità di programmare la propria esistenza individuale e familiare a causa dell’instabilità del presente, di un presente in cui ogni minimo imprevisto puo’ ridurre chiunque in rovina, in cui la mobilità sociale è, spesso, unidirezionalmente orientata dall’alto verso il basso.

Ma vi è pure, a fianco e congiuntamente alla severa critica ai riflessi lavorativi ed esistenziali della precarietà, anche una parte fortemente, intensamente costruttiva, che ha la sua fonte nell’intrinseca natura di questi fenomeni, che di fatto sono veri e propri “contromovimenti sociali” rispetto al movimento neoliberista dominante, per utilizzare lo strumento di analisi creato, alcuni decenni orsono, da Karl Polanyi[20]. E si tratta di contromovimenti sociali che, quale primario criterio orientativo dell’azione, non possono non avere quello del ripristino dei meccanismi di protezione sociale[21] dell’uomo in quanto lavoratore, in quanto individuo sociale ed in quanto essere collocato in un ambiente dalle risorse esauribili.

Da queste istanze derivano le richieste, svolte dai movimenti citati, di “correttivi solidaristici al sistema contributivo”, di “pensione minima di cittadinanza”, di “estensione universale del welfare (malattia, maternità, ammortizzatori sociali)” di “reddito di base”, di “aliquote contributive sostenibili”[22], di restituzione del valore al lavoro senza aggettivi e senza distinzioni[23].

Quello che sta accadendo in questi mesi in Italia, tra sorrisi sprezzanti, post sarcastici e tweet sardonici, è il fisiologico accumulo di pressioni e spinte sociali provenienti dalla frontiera su cui si sta combattendo la “guerra del lavoro”[24]: è il preannuncio della possibile esplosione, nella generale indifferenza, della “classe esplosiva”[25].

NOTE

[1] K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, ed. it. Mursia, Milano, 1973, trad. A. Labriola.
[2] Si tratta dello schema di decreto del Ministero della Giustizia, sottoposto al parere del CNF, concernente il “Regolamento recante disposizioni per l’accertamento dell’esercizio della professione, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
[3] G. Biancofiore, I redditi degli avvocati dichiarati nel 2013, in La Previdenza Forense, 3/2014, pp. 224-232, in cui si evidenzia che il 19,2% degli iscritti dichiara un reddito da 1 a 10.300,00 euro, mentre il 21,0% dichiara redditi compresi tra 10.300,00 e 18.770,00 euro. Nell’articolo l’autrice svolge la condivisibile affermazione secondo cui “negli ultimi anni il reddito ha mostrato un brusco calo probabilmente imputabile alla situazione economica instabile in cui versa il Paese…..il perdurare di una situazione di stagnazione dei redditi professionali prodotti deve necessariamente indurre a pensare a qualche intervento a sostegno dei professionisti che mostrano maggiori sofferenze (i giovani, le donne..) per prevenire eventuali ricadute sulla tenuta del sistema previdenziale forense…..”, p. 232.
[4] Intervista a Cosimo Matteucci, presidente MGA, in Il Manifesto, Se Landini parla di partite Iva e precarietà: “E’ il segno che qualcosa sta cambiando”, di Roberto Ciccarelli, edizione on line del 22 marzo 2015.
[5] Dichiarazione reperita su pagina MGA, 17 marzo 2015, https//mgaassociazioneforense.files.worpress.com/2015/03/27f-vert.jpg.
[6] G. Allegri e R. Ciccarelli, Il quinto stato, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 54.
[7] G. Standing, Precari – La nuova classe esplosiva, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 84: “Così, la crisi ha accresciuto le disparità che sussistono fra i ricavi della maggioranza degli studi legali e di quelli d’elite. Questi ultimi hanno mantenuto intatti i guadagni ed il proprio status, attraverso licenziamenti e ridimensionamenti dei percorsi di carriera oltre che valendosi sempre piu’ del lavoro di assistenti precari…”.
[8] G. Allegri e R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, cit., p. 54.
[9] Il Manifesto, Caro Tito Boeri, il nostro Welfare è iniquo. L’inps cambi per partite iva e precari, di R. Ciccarelli, tratto da edizione on line del 22 marzo 2015.
[10] G. Allegri e R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, cit., pp. 21-24
[11] G. Allegri e R. Ciccarelli, Il Quinto Stato, cit., pp. 37-47.
[12] Si fa riferimento al fenomeno della “coalizione sociale” recentemente sorto dall’iniziativa di Landini, leader della Fiom; si rimanda, a tal proposito, all’articolo di R. Mania, Associazioni, lavoro autonomo e tute blu, così Landini organizza la sua coalizione, pubblicato su La Repubblica, 30 marzo 2015, p. 15.
[13] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 35.
[14] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 36; l’autore fa riferimento alla saldatura anche di un ulteriore strato del precariato, quello dei non-cittadini, migranti e minoranze etniche, che vivono la dura realtà di “un presente assente”.
[15] Parliamo in questo caso di ri-mercificazione e non di mercificazione, ricordando come un’analoga dinamica si sia sviluppata tra il secolo XIX e i primi decenni del XX secolo nel periodo d’oro del primo liberismo economico, dinamica magistralmente analizzata da Karl Polanyi nell’opera La grande trasformazione, 1944, ed. it. Einaudi, Torino, 1974.
[16] Causale legittimante la modifica unilaterale delle mansioni da parte del datore di lavoro prevista nella modifica dell’art. 2013 c.c. ad opera dell’art. 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
[17] Istanza che ben puo’ sintetizzarsi nell’espressione rinvenibile in Karl Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 2010, p. 227, che riprende la seguente dichiarazione attribuita al vescovo Whately: “Quando un uomo chiede lavoro, non chiede lavoro ma salario”.
[18] Si vuole ricordare l’interessante workshop dal titolo “Le conseguenze del lavoro”, tenuto il 27 marzo 2015 a Torino, nell’ambito della manifestazione Biennale Democrazia, Passaggi, a cura di Marco Revelli e Beppe Rosso. In particolare, è d’obbligo in questa sede riprendere l’idea di “sradicamento” proposta da Marco Revelli partendo dalla lettura delle opere principali di Simone Weil, La prima radice e La condizione operaia. Sradicamento che si sostanzia anche nello sradicamento dell’uomo dall’uomo causato dal lavoro alienato, dal lavoro abbrutito, dal lavoro che come un bene qualsiasi è oggetto di vendita e acquisto. Sradicamento che puo’ portare, all’estremo, anche alla rottura dei legami sociali, in un incessante bellum omnium contra omnes: “Chi è sradicato sradica”.
[19] Ulrich Beck, La società del rischio –verso una seconda modernità, Roma, Carocci, ed. 2015, pp. 199-213. In particolare, degno di nota è il passaggio secondo cui “la cesura dal sistema industriale standardizzato che ci è familiare al sistema futuro della sottoccupazione pluralizzata, flessibile, decentralizzata avviene secondo una logica inalterata di razionalizzazione orientata al profitto”, p. 212.
[20] Karl Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, ed. 2010, p. 170.
[21] Di necessari strumenti di protezione sociale parla anche U. Beck, La società del rischio, cit. Senza un’estensione del sistema di protezione sociale incombe un futuro di povertà. Con la creazione di un reddito minimo garantito per tutti potrebbe essere strappata al futuro un po’ di libertà”, p. 213.
[22] Dichiarazione reperita su pagina MGA, 17 marzo 2015, https//mgaassociazioneforense.files.worpress.com/2015/03/27f-vert.jpg., relativa a “coalizione 27 febbraio” e articolo tratto da Il Manifesto, Caro Tito Boeri, il nostro Welfare è iniquo. L’inps cambi per partite iva e precari, di R. Ciccarelli, cit.
[23] Scrive Gabriele Polo sul sito della Fiom: “…..rappresentare e contrattare tutte le forme del lavoro e, persino, tutti gli aspetti della vita sociale; coalizzando cio’ che è frammentato, cercando gli elementi e i punti di vista comuni per costruire un mondo”, R. Mania, cit., La Repubblica del 30 marzo 2015, p. 15.
[24] Espressione che dà il titolo al saggio di W. Passerini e I. Marino, La guerra del lavoro, Milano, Rizzoli, 2014.
[25] G. Standing, Precari – la nuova classe esplosiva, cit.; nel piu’ recente studio di G. Standing già citato, Diventare cittadini – un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, l’autore così definisce la natura esplosiva del precariato: “Dire che il precariato è esplosivo significa sostenere che i suoi interessi di classe sono opposti ai programmi politici tradizionali del Novecento, il neoliberismo della destra classica e il laburismo dei socialdemocratici”, pp. 36-37.

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