mercoledì 20 aprile 2016

LO SPECIALISMO NON BASTA: FARE COALIZIONE COME MINIMO DAL REDDITO

Roberto Ciccarelli

Bilancio politico 2012-2016 a partire dalla battaglia per il reddito minimo in Italia. Critica dello specialismo sindacale, associativo e da lobby. Non basta più il pragmatismo né la consultazione con la politica istituzionale per affermare l’efficienza e la ragionevolezza di questa misura. La politica intenderà il reddito sempre come un sinonimo di assistenzialismo o sostegno ai poverissimi. Come fare una politica delle coalizioni, senza nascondersi difficoltà nella passivizzazione generale della società dello spettacolo e il discorso conservatore del renzismo. 

E' online Basic Income Network, Quaderno per il Reddito, numero 3: Un reddito garantito ci vuole. Ma quale? (scaricabile qui)
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La politica è costante rielaborazione di un principio di soggettivazione alternativo, creazione di nuove occasioni di dissidio e pratica rivoluzionaria dell’incommensurabile alla luce di concrete misure e pratici strumenti di riforma. Per condurre questa attività molto complessa bisogna essere mobili, mai riconciliati e sempre un passo in avanti rispetto al dispositivo che riduce la realtà alla finzione e alla sua valorizzazione nel meccanismo del controllo e del governo.

In questa cornice abbiamo riscontrato un limite nelle lotte per il reddito in Italia: collocarsi sul terreno dell’expertise, della consulenza, della risoluzione pragmatica non è bastato per chiarire la ragionevolezza di questa misura in un momento di grave emergenza sociale. Questo è anche lo stile scelto dalle associazioni del lavoro autonomo, ad esempio, fuori dai sindacati o dalla politica. Loro pongono problemi diffusi in un gruppo socio-professionale e interloquiscono direttamente con il parlamento e la politica. Il “pragmatismo” o l’appello al realismo o al dialogo non bastano per neutralizzare la potenza del falso che anima la politica istituzionale. Se, come scriveva Debord, il falso è un momento del vero in una società dello spettacolo, allora lo stile puntuale dell’emendamento o l’arte del dettaglio sono inefficaci. Stilare tabelle, tracciare linee sui grafici, pretendere l’oggettività o provvedere alla scrittura di disegni di legge alternativi da depositare nelle commissioni parlamentari serve a fornire elementi a un dispositivo che soddisfa altre necessità. È un lavoro utile per i custodi della finzione politica, ma non porta nessun avanzamento reale nella costruzione di una soggettivazione alternativa.

Questo è il problema del potere e, oggi, non è disponibile alcuna soluzione per affrontarlo. Lo si può, in compenso, decostruire. Non è abbastanza, per la diffusa esigenza di azione, ma è un punto di partenza, com’è l’attitudine pragmatica che anima l’attuale stagione di nuovo sindacalismo e auto-organizzazione. La dimensione pulviscolare di questa consultazione permanente tra piccole avanguardie consapevoli sarà limitata finché le singole istanze resteranno separate, innestando talvolta una concorrenza sulla priorità di una misura rispetto ad un’altra. Ad esempio, il reddito è una misura decisiva perché indica la necessità di una generale trasformazione. Fino ad oggi ci si è limitati a spiegare la misura in sé, ora si tratta di esplicitare il contesto in cui sarebbe inserito.


Il problema resta la partecipazione dei soggetti che sarebbero i destinatari di queste o altre misure. La loro vita possiede molte altre esigenze alle quali la proposta del reddito allude, ma che di solito non sono esplicitate. Parlo di problemi fiscali, previdenziali, professionali, lavorativi che si aggiungono a quelli “classici” del Welfare e di una sua riforma in senso universalistico. In questa cornice non bisogna perdere di vista il decisivo scenario europeo e il suo impatto censorio su un paese come l’Italia. La necessità di una riforma del sistema si scontra evidentemente contro un blocco politico, quello dell’austerità.

Il pragmatismo legato a una singola proposta o “tema” ha mostrato i suoi limiti, ma possiede anche delle risorse. Bisogna tuttavia rovesciare il punto di vista, a partire dalla critica dello specialismo. Questo è un lavoro politico e culturale assente in un’epoca in cui si pensa di supplire alla manifesta incapacità della politica istituzionale o di professione offrendo gratuitamente le competenze elaborate nel corso della vita professionale. In realtà, la cooptazione di professionisti (avvocati, medici, farmacisti, giornalisti) è già avvenuta da tempo, senza risultati tangibili. La critica dello specialismo, e della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro politico, potrebbe tornare utile a chi vuole sottrarsi dalla cooptazione del sistema che neutralizza le potenzialità e non intende essere confinato nel calderone della “società civile” dove tutto è omogeneo, uniforme e prigioniero di un primato inesistente.

LA COPERTINA DEL QUADERNO PER IL REDDITO, 3, BIN ITALIA
La critica dello specialismo dovrebbe essere accompagnata dalla capacità di intrecciare le istanze specifiche in una rinnovata capacità di istituire coalizioni fluide e realmente funzionanti. L’elaborazione delle soluzioni va sempre accompagnata con la costruzione di reti o gruppi trasversali e aperti che intrecciano provenienze socio-professionali diverse, il basso e l’alto, in una costante consultazione di cittadinanza sulle modalità di associazione e sui contenuti delle proposte.

Oggi si può passare dalla fase del protagonismo dei gruppi specifici alla generalizzazione sociale delle istanze individuali. Al contrario del “civismo” ovunque evocato, questo fare politica si nutre direttamente delle questioni sindacali, fiscali, previdenziali, economiche o imprenditoriali al di fuori delle rappresentanze tradizionali nel lavoro dipendente come in quello autonomo. Lo stesso discorso va fatto dentro e contro le rappresentanze delle questioni sociali dove esiste un’analoga tensione verso il professionalismo e lo specialismo che impedisce la creazione di movimenti di aggregazione nuovi e incollocabili.

Altro punto determinante è non limitare l’azione a una consultazione semi-privata con i rappresentati politici interessati a sostenere una battaglia nelle aule parlamentari. Di solito questo è considerato l’ultimo stadio di una mobilitazione che può passare da uno speakers’ corner, un tweet-storm e anche da un referendum o una legge di proposta popolare. La vicenda del reddito minimo dal 2012 al 2016 ha dimostrato che t è insufficiente. Certo, si dirà che è stata scelta questa strada perché i movimenti e i settori sociali interessati a questa battaglia l’hanno abbandonata. In una società ridotta alla passivizzazione dello spettacolo della politica è molto difficile – per non dire impossibile – uscire dallo specialismo e dalla consultazione individuale.

Tutto vero. Ciò non impedisce di puntare su una battaglia culturale innanzitutto all’interno della sinistra e del sindacato, di chi si riconosce nel movimento Cinque Stelle o dell’associazionismo per modificare la passività dominante.

Riconosco l’estrema difficoltà di un passaggio dal pragmatismo alla battaglia culturale, non di valore esemplare, ma generale. Non esiste volontarismo, né organizzazione capace di gestire una simile impresa. Nell’indeterminatezza si può tuttavia scegliere il modo e la qualità di un’azione che mira passo dopo passo (ecco il pragmatismo) a consolidare un’ampia coalizione, a partire da questioni concrete e oggettivamente correlate. E affermare, per quanto possibile, un universalismo concreto nei settori sindacali, professionali o popolari, dove vige la divisione e la segmentazione (ecco la politica).
 
Il nemico delle coalizioni non sono le rappresentanze esistenti, ma il loro specialismo e la divisione del lavoro nelle rappresentanze e nella società. L’obiettivo delle coalizioni – una nuova forma dell’associazione politica e culturale – è sconfiggere l’ideologia dello specialismo. E questo lo si può fare solo con i diretti interessati. Il reddito è un buon punto di partenza.

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