martedì 30 ottobre 2018

DELLA POTENZA DEGLI STUDENTI




Roberto Ciccarelli

Alla fine degli anni Sessanta i situazionisti descrivevano la condizione dello studente in questo modo:
“Il suo - scrivevano - è un ruolo provvisorio che lo prepara al ruolo definitivo di elemento positivo e conservatore nel funzionamento del sistema consumistico. Quella dello studente è soltanto un’iniziazione che riproduce, magicamente, tutte le caratteristiche dell’iniziazione mitica: è totalmente staccata dalla realtà storica, individuale e sociale. Lo studente è un essere diviso tra una condizione presente e una condizione futura nettamente distinte, il cui limite sarà superato meccanicamente. La sua coscienza schizofrenica gli permette di isolarsi in una “società di iniziazione”, mistifica il suo avvenire e si incanta davanti all’unità mistica che gli offre un presente al riparo dalla storia”
Allo studente era contestato il desiderio di essere assimilato dal sistema, trovando una collocazione nel mondo dello sfruttamento come “bambino sottomesso”:
“Le esigenze del capitalismo moderno impongono alla maggior parte di loro la condizione di quadri subordinati (vale a dire l’equivalente dell’operaio qualificato del secolo scorso) . Di fronte al carattere miserabile di questo avvenire più o meno prossimo che lo “risarcirà” della vergognosa miseria del presente, lo studente preferisce volgersi alla sua situazione attuale e abbellirla di prestigi illusori. Ma anche questa compensazione é troppo miseranda perché possa aggrapparvisi: il futuro non si salverà dalla mediocrità inevitabile. Allora lo studente si rifugia in un presente irrealmente vissuto”.
Lo scritto è del 1967, descrive una società tesa ancora per poco verso la “piena occupazione”. Gli autori 
erano, anche loro, giovani che criticavano il proprio ruolo di studenti dall’interno del movimento 
studentesco, e non dall’alto o dall’esterno. Un esempio di critica del proprio ruolo sociale, 
quello che in teatro Bertolt Brecht chiamava Verfremdungseffekt, effetto di straniamento 
o di allontanamento, che l’attore doveva produrre rispetto al suo personaggio. 
Lo studente dovrebbe estranearsi da se stesso allo stesso modo, rifiutando di diventare rotella 
dell’ingranaggio del capitale. Solo in questo modo può - nel corso della sua vita - 
modificare dall’interno l’ingranaggio. L’asprezza della critica alludeva a un esercizio politico 
del soggetto contro se stesso, per superare ciò che è costretto a essere.
“Data la sua situazione economica di estrema povertà - scrivono i situazionisti - lo studente è condannato 
a una condizione di sopravvivenza che non ha nulla di invidiabile. Ma, sempre soddisfatto di sé, 
eleva la sua miseria banale a “stile di vita” originale: il miserabilismo e la “bohème”. 
Senza esservi costretto lo studente separa lavoro e divertimenti, proclamando un ipocrita disprezzo 
per gli sgobboni e per quelli che vogliono far carriera. Sottoscrive tutte le scissioni della società 
e va poi a versare lacrime sull’incomunicabilità nei vari circoli religiosi, sportivi, politici o sindacali”.
Dopo cinquant’anni si potrebbe essere più generosi con gli studenti, senza rinunciare ai toni critici rispetto alla tendenza a volersi integrare in una società che in realtà li esclude.
“Lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto - ha scritto Giorgio Agamben - Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio”

In questo caso l’attività dello studio dimostra un impegno etico che va al di là dell’identità sociale dello studente. Tanto un adolescente, quanto un anziano possono ugualmente ricorrere a questa facoltà per sottrarsi all’idea che tutte le attività umane siano definite dalla loro utilità. Lo studio può essere fatto sui libri, ma anche sulle cose, i pensieri, le azioni, insomma sulla vita in quanto tale. E, soprattutto, questa attività può essere sottratta tanto al lavoro salariato, quanto all’attività produttiva. Se per “produttiva” si intende un’attività che produce un profitto per un altro.

“La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente”

Lo studio è un’attività irriducibile al rapporto di capitale e al rapporto di lavoro. 
Si dice che lo studio non serva se non vincolato a una finalità fuori di sé. 
Lo studio fine a se stesso è universalmente giudicato come inutile. 
In realtà entrambe queste convinzioni -la finalità esterna e la finalità in sé dello studio - 
non colgono l’attività reale dello studente che consiste nel mettere all’opera una facoltà - 
la sua forza lavoro. 

Questa è un’attività irriducibile al lavoro inteso solo come prestazione salariata o come attività alienata 
che realizza paradossalmente la dignità della persona. La forza lavoro è una manifestazione 
del “lavoro vivo”, ciò che per Marx genera ogni tipo di valore d’uso, 
anche l’uso capitalistico di una valore di scambio della merce.

Lo studente è una potenza. Liberato dai limiti generazionali, dal ruolo assegnatogli in maniera esclusiva nella scuola, dal vincolo alla professionalizzazione, il suo è il principio del movimento e del cambiamento in un altro essere sociale. La sua singolarità - definita come forza lavoro, non come soggetto specializzato nello studio e nella formazione - resta tuttavia un problema. La potenza è irriducibile all’atto del lavoro, allo status professionale o formativo corrispondenti. Questo vale sia per il lavoratore, sia per lo studente che esprime - in purezza - la permanente anacronia tra la potenza e l’atto. Il lavoratore non è mai il lavoro che fa; lo studente non è mai lo studio che compie. In qualità di forza lavoro entrambi sono potenze e, come tali, andrebbero considerati. In una scuola che non si comporta come un’istituzione totale, o un’agenzia del capitale umano, questa condizione dovrebbe essere considerata una fortuna. Andrebbe curata, sviluppata e celebrata come una condizione comune, non condannata, insultata o modificata in laboratorio.

* Pubblicato su Comune-Info

***Roberto Ciccarelli, Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri)


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