sabato 20 luglio 2019

LOTTA DI CLASSE CONTRO POPULISMO 2.0



Populismo, lotta di classe, una nuova idea di internazionalismo, la piattaforma come pratica politica non solo come interfaccia tecnologica, la critica delle teorie del capitale umano e la filosofia della forza lavoro. Sono alcuni dei temi di una conversazione sulle alternative, e le contraddizioni, della politica nel 2019 in un'intervista  pubblicata nel numero 166 di giugno 2019 della rivista di Engramma, dedicato a Adriano Olivetti: il disegno della vita e comunità dell'intelligenza. Con i contributi, tra gli altri, di Giuseppe Allegri (qui il suo testo), Marco Assennato, Sergio Bologna Aldo Bonomi, Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, Alberto Magnaghi, Michela Maguolo, Nicolas Martino, Michele Pacifico, Emilio Renzi, Alberto Saibene. (Roberto Ciccarelli)

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Engramma: Come va interpretata l’idea di “comunità” olivettiana rispetto al dibattito attorno al conflitto tra società e comunità che costituiva sino a poco tempo fa il fronte tra politiche di sinistra e politiche di destra?

Roberto Ciccarelli: L’idea che non si possa parlare più di “politiche di sinistra” e “di destra” è ispirata a una rappresentazione populista della politica. Il populismo è la parodia della lotta di classe di cui è stata sancita la fine dopo gli anni Settanta del XX secolo. Com’è stato abbondantemente dimostrato da eventi storici ed economici di prim’ordine negli ultimi 40 anni, questo è falso. La lotta di classe non è finita, la stanno facendo solo i padroni e i loro servi. Gli sfruttati, i vulnerabili, i poveri, i deboli, i confusi hanno smesso di farla perché hanno creduto che non esiste più lotta di classe. Il populismo è l’illusione di avere recuperato una parvenza di conflitto, ma di segno completamente diverso dall’antagonismo di classe, di sesso o di razza. 

Esistono complicate filosofie trascendentali  sulla “ragione populista”, alla Ernesto Laclau, che abbondano anche in una sinistra sensibile al canto della metafisica. Il “popolo” sarebbe il risultato di un conflitto discorsivo mediato dall’istanza autoritaria di un leader in una campagna elettorale permanente. La politica “oltre la destra e la sinistra” coincide con le strategie di marketing che strumentalizzano ogni istanza e definiscono la politica in un paradosso permanente di una democrazia che coincide con istanze paternalistiche e autoritarie. 

La “comunità”, intesa come “sociale”, viene smaterializzata in uno spazio discorsivo-elettorale, la politica diventa una questione di simboli e slogan. Chi ritiene che la politica oggi coincida con il populismo 2.0 - da destra, come da sinistra - non fa altro che aggiornare la teoria della società dello spettacolo. L’astrazione vertiginosa del “popolo” - un soggetto definito in base alla misteriosa idea della “pienezza assente” - è simile a quella del capitale: un processo il cui soggetto è la propria astrazione. Il populismo è la forma iperpolitica di questa astrazione. 

Queste teorie legittimano quello che in Italia è stato sdoganato in politica dal Movimento Cinque Stelle: l’idea che il populismo sia “oltre la destra e la sinistra”. In realtà la ragione populista cancella la classe a favore della totalità fittizia di “popolo” e, così facendo, legittima la rimozione della centralità della forza lavoro, intesa sia come facoltà di produrre il valore d’uso che come capacità di lavoro, antagonista al capitale. Il conflitto di classe è sostituito da quello tra l’appartenenza ad una comunità originaria nazionale contrapposta a un potere anonimo globale. 

Il conflitto molecolare tra forza lavoro e capitale è stato così ribaltato nella polarizzazione molare tra soggetti autosufficienti che confluiscono misteriosamente in un’unità linguistica definita “popolo”. Si dà così per scontato che all’interno del popolo regni l’amicizia, e non esista un’ostilità politica ed economica. Il conflitto viene proiettato fuori dalla “comunità” degli autoctoni, contro i migranti e gli allogeni. 

Nella “comunità” i diversi dovrebbero riconoscersi in un accordo garantito da un capitalismo benefattore, capace di riconoscere i meriti di ciascuno, mentre all’esterno vige uno stato di natura in cui si scatena l’ostilità contro gli altri popoli in una competizione tra mercati e sovranità contrapposte, contro masse di migranti che insidiano la presupposta autenticità naturale di un popolo - il mito del nativismo protetto dagli eserciti e dalle polizie sulle frontiere dello Stato. Si afferma così l’idea di una comunità fondata sulla proprietà e sulla protezione dei confini psichici, fisici, patrimoniali. È questa idea che si trova, tanto a sinistra quanto a destra, oggi. 

Rispetto a questi problemi, l’idea di comunità di Olivetti ci permette perlomeno di ragionare in contrappunto. Se intendiamo la sua “comunità” come la costituzione civile fondata sull’auto-governo dei territori, il buon governo delle città, le reti delle istituzioni di prossimità, un ripensamento dei “corpi intermedi”, allora possiamo istruire un discorso diverso dal “populismo” forgiato nei concetti di sovranità, nazione e proprietà. Credo tuttavia che questo discorso sia ancora molto preliminare rispetto a un ripensamento di una politica anti-capitalistica e costituente. Considerata la situazione attuale sarebbe comunque uno scarto rispetto alla miseria in cui ci troviamo. 

Engramma: Esiste un qualche legame tra l’esperienza olivettiana e l’emergere recente del tema della comunità nel dibattito filosofico contemporaneo? 

Roberto Ciccarelli: Credo che alludiate al dibattito introdotto dai libri di Roberto Esposito Communitas e Immunitas. Se è così allora bisogna dire che ogni comunità rimanda all’idea di proprietà. Ciò che accomuna i residenti è la proprietà di appartenere a qualcosa o qualcuno. Si appartiene a uno stesso insieme e, allo stesso tempo, ci si immunizza dalla presenza di altri. Tale compresenza di immune e comune nello stesso insieme rimanda al funzionamento di ogni cittadinanza: da un lato, si include qualcuno; dall’altro lato, si esclude qualcun altro. Non esiste libertà senza che, allo stesso tempo, ci si immunizzi contro il rischio della convivenza tra i simili e i diversi. La contemporaneità tra questi momenti diversi traduce la peculiarità del concetto di comunità. Un paradosso vivente anche oggi nelle società capitalistiche neoliberali dove è avvenuta una torsione neoautoritaria e neo-nazionalistica e sono fortissime le tensioni razziste e xenofobe. 

La comunità va continuamente decostruita, non va intesa formata una volta per tutte. Quando si parla di “comunità”, questo è un aspetto a cui prestare molta attenzione. Temo che Olivetti non sia molto d’aiuto per mettere in crisi questi meccanismi. I limiti del suo discorso sulla “comunità” sono per lo più noti: il paternalismo e l’olismo, ad esempio. È difficile ricontestualizzare la sua idea in un capitalismo molto diverso da quello fordista-keynesiano contro il quale reagiva: militaresco, onnivoro, imperialistico. E tuttavia credo che una certa accezione della sua idea di “comunità” sia utile: l’idea di un’impresa che vive in osmosi con il territorio grazie a un patto politico e civile. Questa impostazione serve a relativizzare il peso dell’autorità centralistica, statocentrica e tecnocratica, come dell’impresa che distrugge la città e i territori. 

L’olivettismo mi sembra interessante per ripensare il concetto di “corpo intermedio”, non più inteso come nesso rappresentativo tra ente locale e nazionale, cinghia di trasmissione che legava il sindacato al partito e allo Stato, oppure le organizzazioni corporative e di categoria alla rappresentanza politica. Una riflessione “olivettiana” porta a considerare il “corpo intermedio” come una “società di mezzo” creata dal “fare in comune” dei nuovi soggetti del lavoro, dipendente e indipendente. Questo porta a valorizzare un’idea di cittadinanza intesa come partecipazione culturale, politica, sociale o individuale alla vita in comune e al suo farsi.  Il problema è: creare una nuova rappresentanza che articola i flussi globali con i sistemi locali. In questa chiave si potrebbe dare un’altra rappresentazione del territorio inteso come piattaforma politica, connessione delle reti e dei flussi produttivi, sociali, civici. Questa idea va tuttavia declinata in termini anti-capitalistici. 

Quando parlo di “piattaforma”, intendo un progetto politico, materiale e territoriale, non solo un’interfaccia digitale. È una differenza sostanziale: la politica di piattaforma non è solo quella che fanno Facebook o Amazon nell’e-commerce. Un’altra politica di piattaforma collega territori al di là delle appartenenze locali e nazionali: contro la turistificazione forzata attraverso le piattaforme digitali - ad esempio Airbnb nelle città, e non solo in quelle “d’arte”. Questa idea di piattaforma è utile per reinventare il rapporto tra territori e flussi, tra livello nazionale e internazionale, tra comunità e società. In sé la piattaforma è internazionale: in essa possono coabitare i diversi e i simili, i prossimi e i lontani. Il suo significato più profondo è la coabitazione  nello stesso luogo di tanti mondi quanti noi possiamo essere, da soli e insieme ad altre nazionalità (inter-nazionale), essendo noi stessi di molte nazionalità (intra-nazionale): se non di nascita, almeno di cultura. 

La grande ricchezza di questa composizione sociale che già vediamo nelle nostre città - la troviamo ovunque - va contrapposta al nazionalismo che assegna all’individuo un’unica nascita, quella biologica; impone all’essere umano un unico posto al mondo, quello del territorio; una sola legge, quella di un ordine politico ed economico irreversibile. E ignora che ogni nazione, e ogni comunità, sono il prodotto di molteplici identità. L’internazionale le contiene e non le esclude. Il nazionalismo ne vede solo una, e la sovra-ordina a tutte le altre. Ecco, questa è l’idea dell’internazionalismo. La piattaforma è lo strumento per organizzarlo. La sua reinvenzione è necessaria per sovvertire l’immagine della città trasparente, interconnessa ma riservata ai proprietari e al consumo: la smart city. 

Engramma: Come la questione “territorio” si trasforma in relazione alla socializzazione del sistema produttivo e alla nuova formazione dei valori sia economici che sociali?

Roberto Ciccarelli: Dipende dalla trasformazione di cui parliamo. Un territorio è un’entità vivente, fisica, geografica, infrastrutturale, economica, sociale. Ed è anche uno spazio culturale e immaginario. Il rapporto con la produzione è diretta e irreversibile. Per ottenere una trasformazione “progressiva”, nel senso gramsciano, credo sia importante verificare l’ideale umanistico di convivenza a cui rinvia l’idea di “comunità” olivettiana alla luce della critica dell’economia politica capitalistica. Non farlo significa credere che la crescita di comunità umane e civili in uno o più territori possa avvenire o in base a valori presupposti astratti oppure in base alla propaganda del marketing territoriale delle città turistiche su Instagram o Facebook. 

Oggi il nesso tra vita in comune e critica del capitalismo è fondamentale. Se non lo tracciamo noi, lo subiremo dal capitalismo delle piattaforme. Quando Airbnb arriva a Venezia, o affitta i casali della campagna umbra, toscana o laziale fa questo ragionamento, anche se rovesciato in termini capitalistici. La comunità a misura del turismo da ceto medio globalizzato e impoverito. Questa operazione è diventata popolare grazie al lavoro trentennale degli uffici turistici delle regioni e delle città che hanno sposato l’idea delle politiche industriali che coincidono con la turistificazione di massa. Credo sia possibile opporre un’altra idea sia di sviluppo che di convivenza, proponendo un’altra lettura dei soggetti sociali interessanti. Negli studi critici sull’urbanistica, come in generale in quelli sul territorio, questa consapevolezza esiste e alimenta anche nuove forme di mobilitazioni contro la trasformazione delle città in Disneyland. 

Il mio lavoro, negli ultimi anni, è consistito nel confrontare le ipotesi di vita in comune anticapitalistiche con la critica del neoliberismo e la sua filosofia del “capitale umano”. Senza una critica di questo discorso che trasforma la vita e la nostra mentalità di soggetti neoliberali si creano comunità in cui il desiderio è il riflesso degli istinti individualistici, proprietari, securitari. Senza contare che la creazione di una nuova «società di mezzo» dovrebbe prima confrontarsi con la “società di mezzo” di Carminati e Buzzi a Roma, cioè la sussunzione del “principio istituente” nella corruzione sistemica della politica e del sociale. Il nostro problema invece è: come può il «fare in comune» diventare quella che Giacomo Beccattini definì una «coralità produttiva e civile»? La mentalità dei decisori politici, come delle classi dominanti, è arata dalla più insulsa letteratura sull’”innovazione” che ha colonizzato anche il discorso sul territorio e la sua trasformazione. Purtroppo è raro trovare una prospettiva diversa da quella che si accontenta dell’evocazione delle buone pratiche. 

Si può bere il vino buono, fare la cosmesi ai borghi e decorare il centro delle città come bomboniere, ma senza diritti sociali fondamentali il bello resterà appannaggio degli imprenditori degli stili di vita e dei brand, non di chi produce il suo valore e lo alimenta con la cooperazione o la condivisione. Introdurre potenti dosi di solidarietà, unendo la coscienza dei luoghi alla coscienza di classe, i beni comuni all’esigibilità dei diritti, la contestazione della proprietà e il fare il “comune”. Ecco questo potrebbe essere il granello di sabbia che interrompe il sistema dell’auto-sfruttamento e dello sfruttamento degli altri. Più che parlare di “innovazioni”, dovremmo parlare di nuovi inizi.

Engramma: Come reinterpretare il marxiano general intellect partendo dal caso Olivetti?

Roberto Ciccarelli: Ai discorsi sul general intellect l’olivettismo potrebbe dare una concretezza per quanto riguarda la rappresentazione del fare politica sul territorio e nella produzione. Credo sia interessante anche perché nell’ambito della cultura operaista da cui mi sembra derivare questa domanda sono sempre state molto presenti le interrogazioni sull’urbanistica, l’architettura, la tradizione politica moderna, a cominciare da quella umanistica italiana a cui afferiscono Olivetti e le sue suggestioni liberal-socialiste. Vale la pena approfondire queste tracce nell’ambito di un lavoro culturale ad ampio raggio. Tuttavia la prospettiva del general intellect è anticapitalistica, quella di Olivetti no. Questa eredità va usata in termini storici, e indagata criticamente, per riconoscere e rendere visibili le contraddizioni dell’ordine capitalista e neoliberale. 

L’uso che fate della categoria marxiana di general intellect  può essere utile per interrogare più in generale lo statuto del lavoro culturale oggi e dei suoi soggetti. È una condizione immersa nella precarietà diffusa, non riservata solo agli specialisti. Noi siamo il prodotto di una generalizzazione amplissima del lavoro culturale dentro un modo di produzione strutturalmente basato sulla sua attività. L’idea stessa di territorio è il prodotto della trasformazione Prendiamo alcune figure del lavoro contemporaneo: il lavoro autonomo (i freelance) o gli attori dell’“economia della condivisione” (i makers o i coworkers); i costruttori di comunità sociali e ecosistemi civili; i precari che ritornano nelle aree interne abbandonate dove avviano esperienze di auto-impresa e di “welfare di comunità”. 

Questi soggetti sono considerati protagonisti anche di nuove sperimentazioni di convivenza e associazionismo politico-culturale. Allo stesso tempo, rientrano nel modello neoliberale degli “auto-imprenditori”: questi individui sono un’impresa personale capace di creare un logo per la valorizzazione del territorio. La confusione tra il soggetto e l’impresa, l’identificazione tra il capitale e la persona, l’associazione tra l’azienda e il territorio è la regola del capitalismo neoliberale. 

Ai soggetti del lavoro - anche culturale - tocca scegliere se essere forza lavoro o capitale umano, considerando la teoria del capitale umano come l’effetto della sussunzione della forza lavoro da parte del capitalismo. È su questa faglia che si gioca un conflitto che si riflette su tutta la vita sociale e produttiva. Parte da dentro il soggetto, gli impone di essere contro se stesso - impresa - per diventare altro da ciò che è - forza lavoro. Non farlo, significa ridurre la facoltà della forza lavoro di produrre tutti i valori d’uso a una funzione produttiva del capitale. La critica dell’economia politica, e il lavoro culturale che comporta, scardina il soggetto dall’individuazione nell’impresa, afferma la priorità della forza lavoro nel conflitto con il capitale e le sue strategie di soggettivazione. 

Questa strategia politica è essenziale per affrontare anche i temi di cui stiamo parlando in questa intervista. Non porsi il problema implica la subalternità al discorso neoliberale e l’impossibilità di uscire dal suo labirinto. Questo lavoro, purtroppo, è raro. Prendiamo la discussione sul “mutualismo”, per molti versi parallela a quella sull’eredità di Olivetti. Negli anni scorsi si è parlato di “mutualismo”. Ci si è occupati del tema delle fabbriche recuperate, ma sono stati in pochi a collegare l’idea di una produzione autogestita con la creazione di strumenti mutualistici di natura assicurativa, previdenziale o cooperativa essenziali per permettere ai precari, disoccupati, lavoratori poveri privi di tutele di garantirsi un mutuo aiuto nel presente e una resistenza nel futuro. Oggi questi temi sono un po’ tramontati, succede sempre così nei cicli di discussione che vanno e vengono, lasciando dietro di sé solo suggestioni. 

Ecco, io mi chiedo la ragione di questi incontri mancati. Il problema è l’asincronia: ci si interroga sulle forme, e sulle formule, della teoria, ma non le si mette mai in relazione con i bisogni. Si parla di diritti sociali, ma non si pone mai il problema del potere, della proprietà e dell’organizzazione della produzione. Si parla di conflitto, ma non lo si mette mai in relazione con la lotta di classe. Questo non accade perché ci si percepisce solo come individui assoluti, soggetti corporativi o generazionali, categorie professionali, imprenditori di se stessi. Mai come forme di vita collettiva intelligente e capaci di organizzazione. È senz’altro un effetto dell’egemonia neoliberale che porta a non considerarsi mai come soggetti della propria forza lavoro, e del suo sfruttamento. Questa coscienza è subordinata ad altre priorità, oppure svuotata di senso. 

Viviamo in uno strabismo continuo: quello che è più vicino, e urgente, è considerato come il più remoto, e impossibile. A me interessa comprendere perché queste strade sembrano a un certo punto interrompersi. Lavoriamo sempre di più, e sempre peggio, ma in tutte queste attività, non si trova mai il tempo di fare un lavoro - culturale, su di sé e con gli altri, individuale e collettivo - che metta in discussione seriamente ciò che siamo e ciò che invece possiamo essere diversamente. Sembra che la sperimentazione sia troppo faticoso e che a tutto, a un certo punto, si possa rinunciare. Si rinuncia all’emancipazione. La liberazione, poi, sembra essere praticamente impossibile. Questo è l’altro volto della subalternità diffusa alla soggettività neoliberale che, nonostante tutto, noi siamo. 

Ci troviamo in una stagione di cinismo, disincanto e sofferenza, anche psichica, povertà e angoscia. Rispetto a cinque anni fa, è diminuita di molto l’intensità conflittuale, perlomeno in Italia. È terribile questa esibita mancanza di speranza, questo compiaciuto spettacolo dell’auto-compatimento. Visto che abbiamo introiettato il dogma neoliberale della performatività pensiamo che è meglio non agire, invece di fallire. Trovo insopportabili queste soggettività. Sono come pesci che agonizzano sulla spiaggia. Che pena. E tuttavia, dal punto di vista soggettivo, esiste una tensione ad andare controcorrente, non foss’altro che dal punto di vista individuale. Non basta. È necessario ripartire per identificare, umilmente e coraggiosamente, un nocciolo di resistenza.  Il lavoro culturale oggi è un lavoro sia clinico che critico contro la soggettività che siamo diventati e che ci ostiniamo ad essere, perché fa comodo mettersi dal lato dell’impotenza, sentirsi vittime di se stessi, più che soggetti di un conflitto. Come diceva Franco Fortini “Non si dà vita vera se non nella falsa”.

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