giovedì 23 ottobre 2014

SE IL LAVORO LO REGALO FAREI IL VOLONTARIO, NON IL FREELANCE

Giuseppe Allegri

Il lavoro emergente nell'epoca della dis-retribuzione di massa. Se il lavoro che regalo, lo regalo spontaneamente, di mia volontà, per me sì, è, oltre che etico, anche un gesto quasi nobile. Se invece il lavoro “devo” regalarlo per tutti i motivi del mondo, no, non è etico, è svilente e umiliante. Anche se poi, in definitiva, siamo tutti con debolezze e difficoltà più o meno grandi...

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Questa confessione in forma anonima la troviamo in apertura dell'assai interessante fascicolo della rivista di Sociologia del lavoro (il numero 133/2014), titolato Confini e misure del lavoro emergente, curato da Emiliana Armano, Federico Chicchi, Eran Fischer, Elisabetta Risi nella loro ricerca collettiva su «gratuità, precarietà e processi di soggettivazione nell'era della produzione digitale». La rivista viene presentata il 24 ottobre a Bologna, la Sala Poeti, Strada Maggiore 45 e varrà la pena spulciarla in lungo e in largo. Per ora ci si limita a segnalare la pluralità di interventi e punti di vista presenti nei 13 saggi lì raccolti.

L'espressione-concetto di “lavoro emergente” è l'oggetto dell'intero volume, nella sua accezione più ampia possibile, che parte dall'ambigua pratica della gratuità, tra volontarietà e sfruttamento, per inserirsi “nelle emergenze del quotidiano e nei processi e pratiche di ecosistemi sociali e digitali (per dirla con le parole utilizzate da Elisabetta Armano e Elisabetta Risi nell'introduzione al volume). Perché le analisi, ricerche e inchieste raccolte in questa pubblicazione indagano il free work e free labour tra materiale e immateriale: dalle industrie creative, all'editoria; dagli psicologi psicoterapeuti, a lavoratori e lavoratrici nelle cooperative sociali; fino alla sconfinata produzione digitale (cui è dedicata l'intera seconda parte della Rivista). 

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È il cuore di questo lento processo di impoverimento economico, monetario, delle forme del lavoro nell'epoca di maggiore successo di quel capitalismo finanziario fondato sul Commerce des promesses, come notava Pierre-Noël Giraud già nel 2001 (éd. Le Seuil): quell'economia politica della promessa che per Marco Bascetta (il manifesto, 22 ottobre) produce una “dis-retribuzione di massa”, piuttosto che una disoccupazione di massa. Siamo tutti occupati senza retribuzione: il lavoro gratuito è il paradigma quotidiano delle nostre esistenze occupate nelle maglie della rete, reale e virtuale.

Perché è proprio nella rete virtuale che l'utente-consumatore produce continuamente valore per le grandi imprese monopoliste di Internet, diventando “consumatore lavorizzato”, felice di contribuire a produrre beni informazionali in cambio di nessun salario, ma del riconoscimento e della visibilità nella sua cerchia di amici virtuali e per rendere più appeal la sua reputazione online. È “l'appropriazione inclusiva” analizzata da Mariano Zuckerfeld, che ci rende tutti dei piccoli produttori non retribuiti delle ricchezze altrui (di quella manciata di colossi del Web). Felici e sfruttati dice del resto da tempo Carlo Formenti, presente anche nella Rivista in questione, con un cupo intervento contro l'ideologia del lavoro indipendente e autonomo, causa principale, a sua detta, della perdita di “ogni capacità di opposizione e resistenza al comando capitalistico” da parte delle masse di lavoratori. 

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E allora il nodo è sempre quello: si resta tutti eternamente sospesi, in bilico, tra realizzazione di se stessi e condizionamenti esterni; passioni felici e rancoroso disagio; volontà di mettersi in discussione e pericolo di auto-sfruttamento; individualismo competitivo e cooperazione sociale. Nella rete virtuale, come nella vita reale. Con l'unica certezza: quella di venire sempre meno retribuiti dal punto di vista monetario. Eppure da qui bisogna ripartire: da questa doppia spinta, a volte contraddittoria, altre volte convergente, di autodeterminazione individuale e solidarietà collettiva; produzione di valore e riappropriazione di ricchezza. Recuperando la vocazione alla libertà, all'autonomia e alla libertà di scelta che è rivendicata anche nella frase riportata all'inizio di questa breve segnalazione.

Per questo si concorda pienamente con le conclusioni del saggio di Federico Chicchi, Marco Savioli, Mauro Turrini, sempre contenuto nella Rivista in questione: “se da un lato è necessario tenere ben presente come le recenti trasformazioni della produzione in senso cognitivo e biopolitico hanno frammentato e umiliato il lavoro come forse mai prima d’ora, d’altro canto ci pare inutile indirizzare la prospettiva interpretativa su tali fenomeni all’interno di un cono d’ombra del tutto ripiegato su una malinconica nostalgia del cosiddetto “posto fisso”. Concordiamo invece con chi pensa che “serve a ben poco denunciare la crescente precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro se non si cerca di capire quali sono le opportunità di liberazione e di autonomia che la condizione di precario offre” (Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, p. 43). La nostra speranza è di aver contribuito con questo scritto ad assumerci l’onere di questa difficile ma oramai non più evitabile direzione di ricerca”.

Qui siamo e qui dobbiamo saltare, avrebbe detto, in latino e al singolare, un ottocentesco barbuto studioso delle forme del lavoro e del capitale.


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