Il lavoro emergente nell'epoca della dis-retribuzione di massa. Se il lavoro che regalo, lo regalo spontaneamente, di mia volontà, per me sì, è, oltre che etico, anche un gesto quasi nobile. Se invece il lavoro “devo” regalarlo per tutti i motivi del mondo, no, non è etico, è svilente e umiliante. Anche se poi, in definitiva, siamo tutti con debolezze e difficoltà più o meno grandi...
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Questa
confessione in forma anonima la troviamo in apertura dell'assai
interessante fascicolo della rivista di Sociologia
del lavoro
(il
numero 133/2014),
titolato Confini
e misure del lavoro emergente,
curato da Emiliana Armano, Federico Chicchi, Eran Fischer, Elisabetta
Risi nella loro ricerca collettiva su «gratuità, precarietà e
processi di soggettivazione nell'era della produzione digitale». La
rivista viene presentata il 24
ottobre
a Bologna, la Sala Poeti, Strada Maggiore 45 e varrà la pena
spulciarla in lungo e in largo. Per ora ci si limita a segnalare la
pluralità di interventi e punti di vista presenti nei 13 saggi lì
raccolti.
L'espressione-concetto
di “lavoro
emergente”
è l'oggetto dell'intero volume, nella sua accezione più ampia
possibile, che parte dall'ambigua pratica della gratuità, tra
volontarietà e sfruttamento, per inserirsi “nelle
emergenze del quotidiano e nei processi e pratiche”
di ecosistemi sociali e digitali
(per dirla con le parole utilizzate da Elisabetta Armano e Elisabetta
Risi nell'introduzione al volume). Perché le analisi, ricerche e
inchieste raccolte in questa pubblicazione indagano il free
work
e free
labour
tra materiale e immateriale: dalle industrie creative, all'editoria;
dagli psicologi psicoterapeuti, a lavoratori e lavoratrici nelle
cooperative sociali; fino alla sconfinata produzione digitale (cui è
dedicata l'intera seconda parte della Rivista).
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È
il cuore di questo lento processo di impoverimento economico,
monetario, delle forme del lavoro nell'epoca di maggiore successo di
quel capitalismo finanziario fondato sul Commerce
des promesses,
come notava Pierre-Noël Giraud già nel 2001 (éd. Le Seuil):
quell'economia
politica della promessa
che per Marco Bascetta (il
manifesto,
22 ottobre) produce una “dis-retribuzione
di massa”,
piuttosto che una disoccupazione di massa. Siamo tutti occupati senza
retribuzione: il lavoro gratuito è il paradigma quotidiano delle
nostre esistenze occupate nelle maglie della rete, reale e virtuale.
Perché
è proprio nella rete virtuale che l'utente-consumatore produce
continuamente valore per le grandi imprese monopoliste di Internet,
diventando “consumatore
lavorizzato”,
felice di contribuire a produrre beni informazionali in cambio di
nessun salario, ma del riconoscimento e della visibilità nella sua
cerchia di amici virtuali e per rendere più appeal
la sua reputazione online. È “l'appropriazione
inclusiva”
analizzata da Mariano Zuckerfeld, che ci rende tutti dei piccoli
produttori non retribuiti delle ricchezze altrui (di quella manciata
di colossi del Web).
Felici
e sfruttati
dice del resto da tempo Carlo Formenti, presente anche nella Rivista
in questione, con un cupo intervento contro l'ideologia del lavoro
indipendente e autonomo, causa principale, a sua detta, della perdita
di “ogni capacità di opposizione e resistenza al comando
capitalistico” da parte delle masse di lavoratori.
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E
allora il nodo è sempre quello: si resta tutti eternamente sospesi,
in bilico, tra realizzazione di se stessi e condizionamenti esterni;
passioni felici e rancoroso disagio; volontà di mettersi in
discussione e pericolo di auto-sfruttamento; individualismo
competitivo e cooperazione sociale. Nella rete virtuale, come nella
vita reale. Con l'unica certezza: quella di venire sempre meno
retribuiti dal punto di vista monetario. Eppure da qui bisogna
ripartire: da questa doppia spinta, a volte contraddittoria, altre
volte convergente, di autodeterminazione
individuale
e solidarietà
collettiva;
produzione
di valore
e riappropriazione
di ricchezza.
Recuperando la vocazione alla libertà, all'autonomia e alla libertà
di scelta che è rivendicata anche nella frase riportata all'inizio
di questa breve segnalazione.
Per
questo si concorda pienamente con le conclusioni del saggio di
Federico Chicchi, Marco Savioli, Mauro Turrini, sempre contenuto
nella Rivista
in
questione:
“se da un lato è necessario tenere ben presente come le recenti
trasformazioni della produzione in senso cognitivo e biopolitico
hanno frammentato e umiliato il lavoro come forse mai prima d’ora,
d’altro
canto ci pare inutile indirizzare la prospettiva interpretativa su
tali fenomeni all’interno di un cono d’ombra del tutto ripiegato
su una malinconica nostalgia del cosiddetto “posto fisso”.
Concordiamo invece con chi pensa che “serve
a ben poco denunciare la crescente precarizzazione e
flessibilizzazione del lavoro se non si cerca di capire quali sono le
opportunità di liberazione e di autonomia che la condizione di
precario offre”
(Sergio Bologna, Ceti
medi senza futuro?,
DeriveApprodi, p. 43). La nostra speranza è di aver contribuito con
questo scritto ad assumerci l’onere di questa difficile ma oramai
non più evitabile direzione di ricerca”.
Qui
siamo e qui dobbiamo saltare,
avrebbe detto, in latino e al singolare, un ottocentesco barbuto
studioso delle forme del lavoro e del capitale.
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