ERWIN WURM, 1954 |
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Pubblicato su Doppio Zero: L'emergenza delle nostre vite minuscole.
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1. Ancor prima di essere una figura sociale, ispirata a una declinazione specifica del soggetto neo-liberale (“imprenditore di se stesso, l’Io S.P.A.) l’intellettuale di se stesso è una forma di intuizione. È un atto rivolto verso il conoscente e non è orientato verso l’altro, un oggetto, il mondo. Nel suo caso il conoscere si incarna in una forma di intuizione spirituale il cui obiettivo è l’auto-riconoscimento in quanto soggetto agente dell’intuizione. Intuendo se stesso, il soggetto di colloca presso di sé. In una società popolata da Sé atomizzati, questo è il primo atto di cittadinanza. Nel suo piccolo, l’intellettuale di se stesso compie un atto comune a chiunque voglia partecipare al gioco della cittadinanza neo-liberale: per dimostrare di esistere deve affermare che il proprio Sé esiste ed è produttivo. L’auspicio di una prossimità assoluta all’origine della percezione più intima di un essere umano fonda un’ontologia dell’essere presso di sé. Tale ontologia si forma nei dintorni di quel luogo oscuro, ma cogente e pienamente operante, del Soggetto. Un Soggetto che continua ad essere il mistero del discorso pubblico e culturale, pur essendo stato pienamente decostruito dalla filosofia critica o dalla genealogia di Michel Foucault, dalla differenza di Jacques Derrida, dall’immanenza nel pensiero di Gilles Deleuze.
Questo Soggetto è oggi l’argomento preferito della filosofia della mente, così come delle declinazioni locali e postume del pensiero debole, analitico, giuridico o variamente ontologico, psicoanalitico e antropologico, infine di quello antagonista o della filosofia radicale, a tal punto da dominare in maniera inesausta l’orizzonte delle scienze umane, sociali, giuridiche – quelle che un tempo si chiamavano “scienze dello spirito” – e ancor più di quelle epistemologiche, scientifiche o applicative – le “scienze della natura”. Questa rinnovata centralità è stata travolta da un’impetuosa corrente neo-scientista ispirata a paradigmi deterministi e imprenditoriali, indirizzati dal mercato accademico e implementati dal sistema della valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Il dispositivo ha rafforzato il mistero del Soggetto attribuendogli una trasparente familiarità domestica. Il Soggetto – e il suo risvolto più immediato: l’Io – rappresentano oggi il sostrato allusivo, ma non per questo meno falsamente “oggettivo”, di questo orientamento.
Si è così sviluppata una nuova attitudine nel lavoro intellettuale che ha creato – o rafforzato – un’attitudine iper-individualista e fondamentalmente corporativa nell’esercizio della professione della ricerca, come nelle attività classificabili come “letterarie”. Al di là del banale, intramontabile e auto-evidente imperativo capitalista applicato in questi campi – “si scrive per vendere e vende solo chi possiede lo status di scrittore di successo o di opinionista leader” – al centro di questa generale trasformazione c’è l’intellettuale di se stesso. Il protagonista indiscusso, la stella polare della cultura neo-imprenditoriale applicata alla valutazione della ricerca, il cosiddetto sistema-Anvur, come quello della scuola incarnato dall’auto-valutazione degli istituti o delle prove Invalsi. Il capitale (di pubblicazioni, di status, di relazioni) accumulato nel “portafoglio” dei titoli e dei meriti costituisce la ricchezza dell’impresa personale. La forma è il contenuto del Soggetto poiché tale accumulazione consiste nel percepirsi come imprenditori delle proprie capacità, buone pratiche o intuizioni.
2. “Intellettuale di se stesso” è una locuzione, il cui conio credo derivi da una suggestione fornita da Pier Aldo Rovatti, che allude ad un sopravvissuto, o revenant, in un mondo desertificato dalla catastrofe capitalista della privatizzazione e dell’iperburocratizzazione dello Stato. Gli organi del suo corpo rappresentano i comparti di un’azienda che lavora per il successo delle idee prodotte dalla testa-cervello – l’organo che rappresenta la parodia del prometeo contemporaneo: il manager. Una rappresentazione che pervade le retoriche governative in tutto il mondo, ricavata dall’immagine che dal Policraticus di Giovanni da Salisbury al Leviatano di Hobbes ha forgiato l’immaginario moderno della rappresentanza politica. Al posto dell’impresa (o del manager) a quel tempo c’era il sovrano, il Re. I ruoli oggi sono cambiati, ma le posizioni restano le stesse, all’interno di una rappresentazione verticistica, organicista e meccanica del corpo del sovrano inteso come corpo della nazione. Alla base c’è un dispositivo che assegna la funzione del comando – l’imperium – a un soggetto onniscente e onnipotente.
Le parti, organi, funzioni, ruoli obbediscono agli impulsi dettati da un unico centro decisionale incarnato – per una salda credenza antropomorfica – in un soggetto eminente che esercita una funzione pastorale. Come la monarchia anche l’impresa, e il politico che governa il suo paese come un imprenditore, aspirano a dirigere la coscienza e l’anima dei singoli come “il pastore veglia sulle sue pecore”. L’impresa e, per proprietà transitiva, il soggetto imprenditore applicano al corpo della popolazione i principi del controllo e del comando esercitati un tempo dal monarca. Questa trasformazione ha creato la governamentalità neoliberale, contraddistinta dalla “presa del potere sull’uomo come essere vivente”, la “biopolitica”. Quella che Foucault ha definito una “statalizzazione del biologico”, oggi si è trasformata nell’imprenditorializzazione della vita. Lo Stato è il relais di una razionalità economica, e di una volontà calcolante, che trova nello spirito dell’impresa il dispositivo unificante, oltre che di governo. L’uomo, in quanto animale vivente, respira e agisce come un’impresa. Lo stile della sua vita è rappresentato da un bilancio che – per essere tale – ha bisogno di un collegio di revisori, di arbitri, di azionisti. E poi di un’opinione pubblica e, soprattutto, di un mercato dove far valere i risultati o essere giudicato da un tribunale per un eventuale fallimento. L’impresa è il nome della polizia del pensiero che esercita il monopolio della forza su qualsiasi aspetto della vita, a cominciare dalle sue potenzialità espressive.
Al centro dell’attività dell’intellettuale di se stesso c’è una duplice convinzione: 1) il suo patrimonio è l’opera; 2) essere autore è il segno originario, lo stampo, l’impronta immemoriale della proprietà individuale su un atto del pensiero, un’opera edita, un discorso o un’opinione. Questo intellettuale è proprietario del proprio intelletto. Nell’esercizio del conoscere se stesso, un esercizio che consolida il riconoscimento dell’essere-presso-di-sé e esplicita l’intelligenza tale soggetto portandola nel mondo, tale soggetto compie un’“opera”. Questa opera viene contrassegnata e valorizzata, come un calco originario, il brevetto, da mettere in circolazione sul mercato sotto forma di merce immateriale. L’autore è il segno archeologico di un’appropriazione delle cose e dei discorsi che la società di mercato compie sul vivente in quanto tale. L’autore, nella forma di intellettuale di se stesso, è il capitalismo allo stato puro. La sua opera custodisce la verità per eccellenza: il talento. Una verità indimostrabile, tanto quanto lo è stata per secoli l’idea che l’essere sia lo spirito e che questo spirito sia riferibile a Dio. Tutto discende da Dio che crea il mondo o dall’intellettuale crea se stesso. L’analogia si scontra con un limite: l’intellettuale è una creatura e sulla sua testa c’è un creatore a cui adeguarsi. Ma nella scala degli esseri contenuta in questa rappresentazione rigidamente classista e gerarchica, questo intellettuale soggiorna un gradino appena sotto il suo pantheon portatile. E se ha da guadagnare un merito, egli lo acquista sul mercato delle indulgenze presentando il curriculum vitae pieno di relazioni e pubblicazioni.
Questo discorso è fondato su una metafisica dell’autore, l’unico discorso riconoscibile sul mercato editoriale come nella produzione comunicativa, artistica o informativa, oltre che nel campo universitario. Esso riproduce su una scala universale l’atteggiamento della critica moderna che usa schemi molto vicini all’esegesi cristiana per dimostrare il valore di un testo alla luce della santità del suo autore. L’intellettuale di se stesso è l’essere qualunque di cui bisogna liberarsi per accedere allo status di “autore”, cioè colui che esprime l’istanza profonda a cui Dio ha affidato un potere creatore o un potere che costituisce il luogo originario della visibilità nello star-system globale o in qualche sua remota provincia.
Questa è la descrizione di un delirio contenuto nella cultura basata sul soggetto imprenditoriale. Un delirio accuratamente organizzato al punto che la produzione del sapere è organizzata su questo modello prevalente ed è la precondizione per essere valutati in quanto cittadini e soggetti etici passibili di un giudizio sociale davanti al tribunale dei valori della società-impresa. L’obiettivo è la conquista dell’aura, dell’autenticità del Soggetto in quanto creatore di se stesso, merce circolante sul mercato dove collocare il nome, marchio, brand o logo.
3. Questa figura del lavoro intellettuale ha una storia: quella dei dominanti. Il suo percorso deriva da un’idea romantica dell’artista, oggi pienamente assunta dal sistema dell’arte e del capitalismo cognitivo. Franco Fortini l’aveva già individuata nell’atteggiamento dell’intellettuale-letterato italiano (ed europeo) alla metà degli anni Sessanta, ma le sue origini sono chiaramente antecedenti e risalgono all’epoca cortigiana, trovando nell’idealismo otto-novecentesco un vettore di affermazione nella modernità capitalistica. “Allo specialista-intellettuale – scriveva Fortini nel 1966 – non restano che soluzioni esistenziali-individuali a carattere anarchico-estetico, misticheggiante, iper-snobistico”.
Questi atteggiamenti derivano da un lungo processo caratterizzato da una progressiva marginalizzazione e dalla richiesta pressante di un risarcimento simbolico e postumo da parte dell’intellettuale tradizionale. La tonalità è quella del risentimento che oggi coinvolge le sottoclassi del precariato generate nel ventennio della liquidazione dell’istruzione come funzione pubblica e dell’esplosione della bolla formativa (1989-2010); le ramificazioni dei ceti medi travolti dal precariato dai bassi salari e dai nuovi processi di dequalificazione e proletarizzazione (lavoro volontario, gratis, in nero).
Processi che hanno portato alla reinvenzione di figure sociali nel lavoro culturale, tutelate dalla rendita finanziaria o da quella generata dai risparmi privati delle famiglie del ceto medio, che mescolano i tratti del bohémien e del maledettismo avanguardista Otto-Novecentesco. In questa temperie sociale si sono affermate pratiche per rinsaldare i confini corporativi, specialistici o comunitari e forme del lavoro intellettuale auto-referenziali. Questo è un processo generale che non riguarda solo i ceti medi e le loro frazioni occupate nel lavoro intellettuale. La riscoperta della centralità del soggetto, e il ritorno al corporativismo e ad un’idea di cittadinanza in quanto intrapresa personale riservata a un’élite, ha trasformato l’intero spazio sociale, modificando il sistema giuridico e il rapporto tra Stato e mercato. Non si comprende la trasformazione del modo di produzione in senso “postfordista” senza prima avere definito le caratteristiche di questo processo.
La parabola è evidente nella critica letteraria, disciplina ancillare ma caratteristica di una storia sociale dell’intellettuale accademico sospeso tra opinione pubblica e politica dal Dopoguerra in poi. Per un lungo periodo, si è accasato nel crocianesimo, trovando nei dispositivi universitari della separatezza, dell’elezione e della cooptazione il luogo dove esercitare quello che Bourdieu definì il “corporativismo dell’universale”. Un’espressione paradossale, ricorda Romano Luperini, che riassume il modo in cui gli intellettuali sono diventati funzionari di Stato come i magistrati, i poliziotti o i medici. Il loro lavoro era quello di sentenziare sulla totalità dei rapporti umani. Le convulsioni che hanno caratterizzato questa figura dagli anni Settanta ad oggi sono terminate con la grande espulsione del lavoro intellettuale dai circuiti della selezione sociale e dell’esercizio formale del potere nell’ambito dei saperi organizzati dallo Stato e dal mercato. La riforma Gelmini ha svolto questo ruolo nell’università italiana. L’estensione del lavoro gratuito alle professioni culturali e il perfezionamento del sistema della precarietà dal 1997 a oggi rappresentano la sua applicazione all’intera società.
La formulazione “intellettuale di se stesso” è l’ultima risorsa per restare a galla in un’alluvione dove il funzionario statale – o i suoi discepoli cresciuti nell’illusione di ripeterne le gesta eroiche – è stato deriso e spazzato via. La sua figura è un reperto archeologico, i suoi discorsi il bricolage di un mondo passato e ignoto, come il pappagallo di Humboldt. Questo “intellettuale” è in realtà un “lavoratore della conoscenza”, un proletario di nuova generazione che ha avuto a disposizione risorse economiche per vent’anni o più utili al fine dell’acquisizione di competenze, saperi taciti e relazioni tali da simulare – ma non praticare – lo status di “intellettuale” separato e corporativo.
Al netto delle caratteristiche contingenti, oggi questa figura ambivalente è molto simile al lavoratore indipendente, al viandante alla ricerca di un ingaggio, al soldato di ventura o un freelance capace di approfittare cinicamente di un contratto per resistere qualche giorno in più alla miseria (sociale, intellettuale, lavorativa) che la società gli ha riservato. Giovani e meno giovani, e così sarà in futuro, saranno costretti a fare i conti con una precarietà ancestrale, che è risalita dalla notte dei tempi per trovare una nuova e insospettabile attualità nell’epoca della precarietà o della mobilità. Il “talento”, che nella mentalità di questi baroni dimezzati, avrebbe dovuto essere l’incarnazione di un valore sovrannaturale, consiste oggi nella ricerca delle possibilità di riconversione sul mercato tra lavoro e non lavoro. Parliamo di un’arte della composizione dei residui spazi lasciati dalla valorizzazione finanziaria dell’esistenza. Questa è la condizione del quinto stato in cui il lavoratore cognitivo torna, per la prima volta dopo forse più di un secolo, a ricoprire la parte di chi per vivere lavora a cottimo, affronta la disoccupazione o la precarietà di lunga durata, lavora anche quando è disoccupato per cercare un impiego che rischierà sempre di perdere.
4. Il capitale continua a ingiungere di inventare se stessi. Diventare ingegneri dell’anima. Scolpire tra le pieghe dell’Io la figura di una persona che coincide con quella del manager automunito. Rispetto alla figura dell’intellettuale organico, o di quello “specialista”, questo “intellettuale di se stesso” intreccia le aspirazioni di un’aristocrazia accademica con il servilismo del lacchè. Ha le ambizioni del riformatore del mondo di Thomas Bernardt e le paure del disoccupato di lunga durata che chiede un’assistenza caritatevole, un favore, una raccomandazione. Aristocratico e plebeo, nobile e parvenu, manager e schiavo, questo intellettuale che intravvede nel valore della propria azione di auto-riconoscimento in quanto soggetto pensante è il risultato di un’opera di de-sovranizzazione. L’impossibilità di individuare l’imperium nel sapere, vale a dire nella sua produttività simbolica ancor prima che sociale o monetaria, alimenta l’inesausta corsa all’accreditamento, una via crucis penitenziale che segmenta l’esistenza in blocchi di crediti scambiabili in un percorso biografico che mira all’accumulazione. Capitalista in miniatura, l’intellettuale di se stesso è una nuova rappresentazione del borghese che accumula esperienze nel confessionale per dimostrare, un giorno, di meritare la salvezza. A differenza di questo borghese, un soggetto fiero del suo attivismo mondano, il nostro soggetto è tuttavia inoperoso. Gira a vuoto, nella speranza di costruire le sue opere, che si rivelano un castello di carte. Una volta crollato quest’ultimo, nelle mani del soggetto non resta nulla. Nemmeno il denaro guadagnato nelle prove che è riuscito a superare.
Dall’insieme di queste identità antitetiche, e dal conflitto tra l’aspirazione a dominare mondo e il risentimento per non essere esemplare, emerge la figura di un soggetto che nutre l’immaginario delle classi medie europee, americane o asiatiche che inviano i propri figli a studiare (a pagamento) nelle università prime nelle classifiche mondiali degli atenei per trovare un posto al sole in un mondo rinvigorito dall’energia imprenditoriale. In questo modello le virtù dianoetiche, riferite alla ragione discorsiva o conoscitiva e quelle etiche che riguardano l’attività pratica sono fondate sulla “nuda vita”, cioè la vita biologica in quanto tale: i suoi bisogni, le sue aberrazioni, le sue necessità fisiologiche. Il materialismo greve del corpo semplice – il fulcro di questa antropologia politica – domina un dispositivo performativo che dovrebbe premiare il primato morale dell’individuo assoluto e “meritevole”.
Questo soggetto è fondato su una peculiare invenzione del neoliberismo contemporaneo: il contratto intimo, o con se stessi. Essa è l’espressione di un dispositivo tratto dal diritto civile che assegna una rinnovata centralità alla categoria dell’auto-obbligazione: girare assegni a proprio nome, la firma di un contratto per un minore da parte del genitore, la firma per un portatore di handicap o per un malato terminale. Lo stesso ragionamento può essere fatto per il precario che chiede garanzie ai genitori o a un tutore per ottenere un mutuo dalla banca o un banale contratto di affitto. Il contratto intimo definisce oggi il modo della condotta del precario contemporaneo. La sua etica volontaristica è il prodotto di un patto morale del soggetto con se stesso. Questo gli permette di rispondere all’appello, o alla chiamata di un padrone, di un committente, di un’autorità.
Il soggetto del contratto intimo è l’applicazione più pura della filosofia della coscienza esposta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito; l’evoluzione della morale protestante basata sulla grazia, il merito e il premio; l’affermazione del management delle risorse umane, dell’etica dell’individualismo proattivo e competitivo oltre che delle filosofia della cura del sé. L’insieme di questi segmenti descrive il dispositivo complesso che governa la vita psicotica, subalterna e destinata allo scacco permanente di un soggetto che per affermarsi deve rinunciare alla potenza della sua vita. L’introiezione del dispositivo giuridico del contratto intimo spiega le basi materiali della metafisica del soggetto e rappresenta l’infrastruttura in cui è cresciuta la servitù volontaria contemporanea. Del dispositivo descritto da De La Boètie tale servitù mantiene la struttura paradossale: se gli individui non sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare, volontariamente e attivamente, la propria reificazione.
Rispetto all’alienazione, cioè la struttura in cui al lavoro salariato viene estorto il tempo e il valore della vita, la servitù volontaria è una decisione deliberata dal soggetto implicato di essere schiavo. Il meccanismo scatta dopo un diniego, l’atto attraverso il quale il soggetto nega le conseguenze negative e ingiuste di una scelta consapevole alla quale ha legato la sua affermazione nel mondo. Questo diniego mescola la rimozione dell’alienazione con la proiezione di una liberazione (arricchitevi, vincete la competizione, affermatevi sul mercato). Spesso rovescia i termini e confonde l’essere con il dover essere. Invece di ammettere di spendere tutta la vita a causare un danno per sé e per gli altri, il soggetto sceglie di portare il meccanismo fino in fondo. Come se la necessità di far sopravvivere il dispositivo fosse più importante dell’annichilimento che esso provoca. Emergono così i contorni di un soggetto auto-assoggettato ad un dominio in cui si riconosce pienamente.
I termini chiave di questa antropologia della mancanza sono auto-disciplinamento e controllo. Questa antropologia implica la creazione nel soggetto di una mentalità giuridica, burocratica e performativa instillata sin dai primi anni della scuola e perfezionata con le tecniche della valutazione, l’incoraggiamento al consumo e all’indebitamento privato, la spinta ossessiva a trasformarsi in “capitale umano”. Nella “fabbrica del soggetto neo-liberale” vige la regola paradossale dell’illimitatezza. Questa regola non ha nulla a che vedere con l’autonomia, ma con la “gestione mentale degli affetti” di cui parlano i manuali di management. Essa non induce alla “padronanza di sé” auspicata nell’etica degli antichi, ma alla somministrazione controllata di un delirio in un prontuario di azioni e reazioni che impoveriscono il mondo dove il soggetto vive, allontanandolo progressivamente da se stesso.
Nella desertificazione del Sé, come nello svuotamento di senso del mondo storico, il soggetto si identifica in un meccanismo di double-bind. Il suo scopo è quello di espletare una performance e di ottenere un godimento. Così facendo egli riproduce un limite politico, oltre che etico, fissato dal capitale e dall’impresa in cui si riconosce pienamente. La sua alienazione è pienamente agita dalle sue stesse azioni. La nuova servitù volontaria è fondata su un paradosso che fa implodere il soggetto e lo rende illimitatamente infelice.
5. Il nostro è il tempo dell’esausto: quello del soggetto postumo, stremato, dilaniato da un Sé che vuole essere Altro, ma non è mai proprio né vivente. “L’esausto è molto più dello stanco – ha scritto Gilles Deleuze – Lo stanco non dispone più di nessuna possibilità (soggettiva): e non può quindi mettere in atto la minima possibilità (oggettiva). Ma questa possibilità permane, perché non si attua mai tutto il possibile, anzi lo produce man mano che si va attuando. Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare”.
Deleuze parla di Beckett e della capacità di vedere nella soggettività esausta, cioè consumata dall’annichilimento delle sue stesse possibilità, l’estrema capacità di rivoltare il nulla in creazione. Nel naufragio egli scopre che il dispositivo fondato sull’impossibilità di dare una forma all’abisso di un soggetto senza fondo è popolato da molteplicità e singolarità pre-individuali. In questo spazio transizionale la vita si connette e si afferma in maniera storica, vivente, inesauribile. Bisogna dunque portare fino alle estreme conseguenze i paradossi del dispositivo basato sul Sé. Giunto oltre il limite dell’umano, questo soggetto scopre che il possibile è inesauribile.
Non molto diversa è la scelta di Bartleby, il protagonista dell’omonimo racconto di Melville, reso celebre da un commento di Deleuze. Quella dello scrittore americano è un’operetta misteriosa di rara perfezione che il filosofo francese ha trasformato in un apologo politico. Il protagonista è uno scriba, un lavoratore della conoscenza incaricato di un lavoro meccanico. Alla richiesta di continuarlo oppone la formula “Preferirei di no”. Per Deleuze si crea una nuova arte della resistenza: quella di dire nè si nè no. La ribellione contro l’usura e l’inerzia del lavoro – di ogni lavoro – sta nel posizionarsi in maniera equidistante sia dall’affermazione (continuare a darsi completamente nel dispositivo) sia dalla negazione (rifiutare radicalmente il dispositivo). La grandiosità di Bartleby consiste in un atto inconcepibile per il soggetto contemporaneo. La sua decisione non è un rifiuto perché “indetermina” il sistema della servitù volontaria. Bartleby è una singolarità senza referenze che non vuole ritrovarsi in nessuna situazione sociale concepibile oggi. Per questo diventa l’eroe moderno dell’uomo “senza qualità”, antenato musiliano, che rifiuta la vita intesa come “portfolio di competenze” o esperienze a misura di curriculum. Nella traiettoria immobile di questo “uomo senza nome” si riconoscono milioni di vite oscure nelle metropoli.
Il soggetto contemporaneo si è tenuto a distanza da questo anonimato. La sua cultura aristocratica, separata e paleo-capitalista lo ha spinto a credere che questo fosse il regno del “senza nome” o dei “senza titoli” o “meriti”, cioè della massima alienazione. Mentre, invece, è il luogo dove il più basso è ciò che è più comune nella vita di tutti. Questi “bassifondi” sono popolati dalle vite minuscole che si radunano in comunità precarie e cangianti. La cultura del ceto medio, quella accademica, ha interpretato il “comune” come esclusione, immobilità o deiezione dove il colto è l’animale politico capace di linguaggio, mentre il povero è il barbaro o lo straniero, l’animale che non ha diritto di cittadinanza.
L’orrore dell’intellettuale di se stesso rispetto alla nozione di “lavoratore della conoscenza” si spiega nel desiderio di essere riconosciuto in quanto soggetto distinto, forte del suo “capitale simbolico”, indipendente dalla “comunità” dei senza parte (o senza meriti). Questa distinzione può essere ottenuta con l’elezione, o la cooptazione, da parte dello Stato. Dove questo non è possibile – come oggi nel mondo occidentale soggiogato dall’austerità – la si cerca sul mercato. In entrambi i casi, i “senza parte” non hanno cittadinanza se non nelle narrazioni patetiche, compassionevoli o paternalisiche imbastite dalla cultura social-liberista che si è affermata nei canali mediatici gestiti dai dominanti.
La “superiorità della letteratura anglo-americana” (Deleuze) ha cancellato questa separazione dimostrando che il bando è funzionale al consenso della “democrazia liberale”. I clochard o i poveri anonimi raccontati da John Dos Passos nella trilogia Usa, i funambolici poveri e precari nei film di Charlie Chaplin, le macchine burlesche inventate da Buster Keaton rappresentano la parodia del vuoto universalismo che governa queste democrazie attraverso l’intensificazione iperbolica dei suoi tic meccanici e dell’espressività potenziata di un nomadismo inventivo. Non solo dimostrano che la maggioranza rappresentata dalla narrazione dei media governati dai mercati è un’invenzione, ma che in quel “basso” che cercano di redimere e governare esistono molteplicità incommensurabili rispetto al loro orizzonte: il soggetto, unico testimone di se stesso assunto a riferimento ontologico.
Esiste un tratto comune tra le maschere di Beckett e Bartleby di Melville: il tentativo di rendere inoperoso il sistema prima incarnandolo e poi portandolo fino alle sue estreme conseguenze. Più che giudicarle come atti estremi di resistenza, bisogna considerarle come tracce di un mondo molto più vasto di quello del soggetto. La tentazione dell’intellettuale accademico, come della sua parodia neoliberale, è quella di racchiudere la vita in un vaso. Gli unici autorizzati ad aprirlo sono i domatori di leoni, i gate-keeper, o i geni della lampada di Aladino: l’Artista, il Manager, il Filosofo, il Populista o il Tiranno come Gerone di Senofonte.
Queste vite minuscole danno senso e forma a un orizzonte sterminato, temibile e sconosciuto dove il soggetto-vaso è solo l’ultimo ripostiglio dove pensare di rinchiudere l’esistenza. La differenza con la restaurazione filosofica e politica in corso è palese. L’obiettivo non è quello di abbandonare il mondo, per osservarlo dall’alto, ma come abitarlo, dopo avere constatato la fine della distinzione tra il centro e la periferia. In questo mondo “comune” i molti – cioè coloro che non sono una maggioranza, nè una minoranza – apprendono a vivere al di là della mentalità del ceto medio: la speranza che l’ascensore sociale sia ancora in funzione e serva da propulsore alle ambizioni di carriera o di reddito dell’individuo. Si impara anche l’arte della parodia: cioè a simulare il desiderio di “essere normali” in un mondo che funziona in base all’esclusione.
Lo zelo del cittadino democratico, l’attitudine media dell’intellettuale di se stesso, si scontra con la realtà dei molti e nell’esibizione grottesca dei suoi buoni sentimenti rivela le pulsioni autoritarie di chi intende ristabilire la “normalità” del lavoro, della famiglia o della nazione in un mondo comune ingovernabile con questi canoni. Nelle metropoli globali, come nel fondo della vita di ciascuno, esiste invece il brulicare di un’esistenza smisurata, ma invisibile, che costituisce la dimensione comune del divenire. Esiste un’arte precaria nel restare fermi per indeterminare questo mondo ostile, oppure per velocizzarlo in maniera inaudita e aprirlo alle possibilità di una vita che diviene. Bisogna dare voce all’emergenza delle nostre vite minuscole.
6. Nella storia sociale degli intellettuali, qui abbozzata, emerge in maniera prepotente la figura decisiva del pensiero politico contemporaneo: l’apolide. Questo “personaggio concettuale” si è affermato compiutamente nel panorama filosofico-politico tra le due guerre mondiali, basti qui il riferimento alle riflessioni (anche biografiche) di Hannah Arendt o di Walter Benjamin. Inizialmente è stato trattato come bandito, esule, immigrato, pariah, outcast o outsider: una soggettività estranea alle regole della cittadinanza che definisce lo status del soggetto in base alla nascita su un territorio nazionale e al lavoro svolto per giustificare la sua identità sociale.
Nel corso del Novecento e, ancor più, nel primo decennio del XXI secolo, con l’affermazione definitiva della “contro-rivoluzione” neo-liberista, la cittadinanza è cambiata radicalmente rovesciando i suoi stessi cardini. Il rapporto tra lo status e l’identità si è interrotto, mentre i legami tra la nascita e territorio e tra il lavoro e l’appartenenza di classe sono stati sciolti. Nel primo caso le migrazioni di massa, e la creazione di entità sovranazionali come l’Unione Europea, hanno inciso profondamente sull’idea della cittadinanza “nazionale”; nel secondo caso, la proliferazione incontrollabile del precariato e del lavoro indipendente hanno negato alla base la supremazia del lavoro subordinato. L’affermazione del capitale finanziario ha, infine, sovvertito le regole del lavoro astratto, rendendo impossibile l’equivalenza tra una prestazione di lavoro e un compenso o reddito.
Sono questi i fattori principali che oggi hanno reso l’apolide la figura centrale della politica, sostituendo l’archeologia razionalista e totalizzante del Soggetto. Dagli anni Ottanta agli anni Novanta, questa figura si è ritrovata nella condizione dei “senza parte”, dei “senza comunità” o dei “sans papiers”. Nell’impetuosa trasformazione che sta portando oggi alla formazione di un quinto stato, l’intellettuale di se stesso è un rottame culturale alla deriva che esiste solo in funzione corporativa degli esclusi di un’élite conservatrice: l’intellettuale accademico o quello di “successo” sul mercato. La celebrazione delle esequie non deve tuttavia nascondere i nuovi problemi strutturali che sono numerosi e gravi. Come si fa ad unirsi nell’apolidia di massa? La domanda è chiaramente paradossale, perchè paradossale è l’antropologia politica del cittadino democratico da cui rifugge questo quinto stato. Abbiamo cercato tuttavia di relativizzare questo paradosso, restituendolo al suo contesto storico dove si è costituito in un dispositivo di (auto)governo e mostrato infine il mondo vasto in cui germoglia.
La domanda non è tuttavia così strana perché pone il problema dell’alleanza, della coalizione e della co-trasformazione in una condizione che non è più semplicemente di esclusione. E’ la condizione dei molti, non rappresentati nelle maggioranze delle democrazie parlamentari e dalla loro endemica corruzione e violenza. Non è assolutamente scontato che una “coalizione” si formi e che gli apolidi non ripetano i meccanismi di potere da cui sono stati cacciati. All’origine c’è la teoria dei “blocchi di alleanza” proposta tra il 1972 e il 1980 da Deleuze e Guattari nell’AntiEdipo e in Mille Piani, pensatori che hanno chiarito la virulenza del “micro-fascismo” presente nella scintillante soggettività neoliberista.
Questa teoria è un modo per neutralizzarla e spostare l’oggetto su un terreno costituente. In alto non c’è nessuna telologia che la guida, in basso nessun idealismo che elegge una classe o un ceto a semi-dei di un racconto di emancipazione o liberazione. Al centro c’è invece un agente o “medium attivo” che permette al soggetto di “entrare in un divenire minoritario che lo strappa alla sua identità maggiore”, cioè al Soggetto della cittadinanza neoliberale. Questo “divenire” crea un doppio movimento attraverso il quale il soggetto si sottrae alla maggioranza ed esce dalla minoranza in cui è stato confinato. Lo abbiamo visto in Barleby o in Chaplin: sono loro gli agenti che permettono alla singolarità qualunque di entrare in risonanza con blocchi di divenire indissociabili e asimmetrici che si formano – e si riformano – indipendentemente dalla cittadinanza, dal territorio, dal lavoro. Quegli agenti sono coloro che, tra gli artisti o i filosofi riconoscono il comune già dentro di Sé e lo esprimono nella vita dei molti a cui appartengono anche loro. E lo stesso vale per chi, non aspirando a questi o altri status “creativi”, o presunti tali, vuole restituire alla sua vita la degna potenza dell’espressione.
Ogni storia sociale, per essere tale, deve storicizzare infine i suoi strumenti. Prima dell’essere c’è la politica. Prima dell’ontologia, la strategia e la pragmatica. La costruzione delle alleanze deriva cioè dall’organizzazione della moltiplicazione dei blocchi di alleanze che decidono. E’ una concezione rischiosa, e sempre da verificare, questa teoria dell’universale intensivo in cui i soggetti divengono insieme in un processo dove gli ancoraggi identitari assumono una plasticità che li rende trasformabili. L’universale cresce man mano che si compone. Invece di ammirare categorie sociologiche come la classe (non quella di Marx, ma dei marxisti), si predispone un universale strategico caratterizzato dalla dinamica delle pratiche di alleanza. Come tutte le teorie, anche questa va verificata e giudicata in base alla sua capacità di attivare una concezione radicalmente costruttivista dell’autonomia individuale e collettiva. Siamo in mezzo ad un guado. Noi, esausti, ricominciamo.
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Articolo pubblicato su Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale, il nuovo numero di Aut Aut, 365/2015, edito da Il Saggiatore.
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