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sabato 15 giugno 2013

IL NOMADE CHE DUNQUE SONO, NON LA FUGA DEI CERVELLI CHE AUSPICANO


Roberto Ciccarelli

E anche se il viaggio è immobile, da fermo, 
impercettibile, imprevisto, sotterraneo, 
dobbiamo chiederci quali sono oggi i nostri nomadi
DELEUZE

La famiglia di mio padre è costituita per oltre tre quarti da emigrati negli Stati Uniti. Oggi non conosce i nipoti e i pronipoti che portano il suo nome oltreoceano. Lui stesso è di origini albanesi. Mio padre è un arbresch, cioè parla l'albanese che il generale Scanderberg importò nell'Italia meridionale a metà del 400 quando Ferdinando I gli concesse i feudi di Monte Sant'Angelo, Trani e San Giovanni Rotondo. Con mia sorella, siamo cresciuti nella sospensione tra la lingua inglese e quella albanese, lontani idiomi incomprensibili che ascoltavamo quando i parenti si riunivano d'estate nel paesino di origine della migrazione della famiglia. Si chiama Greci, in provincia di Avellino, ricostruita 30 anni dopo il terremoto dell'Irpinia. Alle spalle della grande casa dell'infanzia, che si affaccia sulla vallata dove corre la linea ferroviaria Napoli-Bari, bombardata dai tedeschi e dagli americani nel 1944, c'è via Scanderberg. Nelle estati afose degli anni Settanta ho imparato dov'è l'Albania.

lunedì 14 gennaio 2013

A PAVIA L'UNIVERSITA' NON RICONOSCE LA MATERNITA' DELLE ASSEGNISTE

Lucia Vergano, 36 anni, è un'economista che si occupa di questioni ambientali. Ha lavorato per la Commissione Europea a Siviglia e, da mercoledì prossimo, ricomincerà a lavorare in un centro di ricerca a Ispra in provincia di Varese. Come molti precari della ricerca, anche lei conduce una vita nomade. Dopo il dottorato in finanza pubblica a Pavia, ha ricevuto due assegni di ricerca più una serie di contratti di collaborazione dall'università di Padova. 

Casualmente, nel 2007 ha incrociato il destino che l'accomuna a circa 1,5 milioni di lavoratori indipendenti iscritti alla Gestione separata dell'Inps e, da quel momento, la sua vita è cambiata. Lucia chiese l'estratto conto contributivo all'Inps di Padova, rendendosi conto che la sua posizione previdenziale aveva più buchi di un gruviera svizzero. 

mercoledì 9 gennaio 2013

UNA REPUBBLICA FONDATA SUL RICATTO DEI MCJOB



641mila giovani senza un posto, è il record assoluto tra i 15 e i 24enni Per l'Istat uno su tre non lavora, ma nessuno parla di reddito minimo. Questa è la cronaca di un'ordinaria disinformazione a partire dai dati mensili dell'Istat sulla disoccupazione giovanile. Un piccolo, grande, classico nell'Italia sepolta dal gelo dell'austerità, e del precariato che sconfina nell'inoccupazione. 

Alle dieci di ieri mattina gli uffici dell'Istituto nazionale di statistica comunicano i dati sull'occupazione a novembre 2012. Il numero dei disoccupati, pari a 2 milioni 870 mila, registra un lieve calo (-2 mila) rispetto a ottobre. La diminuzione della disoccupazione riguarda la sola componente femminile. Bene, finalmente una notizia positiva, anche perchè l'occupazione femminile tra i 15 e i 29 anni è sceso al minimo astorico tra aprile e giugno dell'anno scorso: meno di una donna su due (il 16,9%) lavora in Italia. Segno negativo sul tasso d'occupazione maschile che a novembre è sceso al 66,3%, il livello più basso dal quarto trimestre del 1992. Tra il 2007 e il 2012 gli uomini al lavoro sono diminuiti di 746.000 unità. 

domenica 30 dicembre 2012

IL PARTITO DELLA FUGA DEI CERVELLI COLPISCE ANCORA

Dicembre è il mese dei consuntivi. E delle offensive del partito della fuga dei cervelli. La sua è una retorica pervasiva, improntata allo sport preferito nazionale - l'autocompatimento e il vittimismo - è riuscita ad imporre nell'ultimo decennio l'idea che in Italia esista un'emergenza "fuga dei cervelli".

Quando la nave affonda, i migliori fuggono
Non c'è ombra di dubbio: da questo paese che affonda, stanno fuggendo tutti, soprattutto i suoi  figli migliori: laureati, che hanno studiato, sul loro "capitale umano" lo Stato ha investito risorse. Non trovano occupazione, e quindi vanno all'estero. E' un mercato globale che premia chi parla l'inglese. Chi ne ha le capacità, e i meriti, lascia la barca, e legittimamente trova un posto di lavoro - in un'università, in un'impresa - dove il suo talento verrà adeguatamente ricompensato.

Questo, più o meno, quello che sappiamo della fuga dei cervelli.

Ma per dimostrare se esiste una "fuga dei cervelli" bisogna conoscere le statistiche. E saperle leggerle.

martedì 24 gennaio 2012

IL CERVELLO IN FUGA SARA' IL TUO

venerdì 2 dicembre 2011

"PERCHE' NON DOVREI LASCIARE QUESTO PAESE DOVE NULLA E' NORMALE, NEMMENO UN CONCORSO?"


Roma 1-5 dicembre: la rivolta dei candidati al megaconcorso per insegnare all'estero. Sbrigatevi perché con il dottorato, questo è uno degli ultimi modi per evadere dalla gabbia.


Chiusi dentro il bunker dell'Ergife per 18 ore, sei mila concorrenti per il ruolo di insegnante di italiano all'estero hanno atteso l'ultima prova di francese prima di riuscire a mangiare un panino. Nella cattedrale nel deserto in via Aurelia dove si è svolta la prima giornata della selezione alla quale parteciperanno 37 mila persone per 281 posti come lettore, docente o personale Ata, il 1 dicembre le quattro commissioni del concorso sono andate in tilt, provocando la rivolta dei candidati.

martedì 22 novembre 2011

Insolitamente furiosi, a Firenze

Gianni Del Panta - perUnaltracittà

Un incontro insolito. Laconicamente è questo il commento che rende meglio le sensazioni che abbiamo vissuto nel lasciare la Sala delle Miniature di Palazzo Vecchio, dove Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri avevano appena concluso la presentazione del loro nuovo libro scritto a quattro mani: “La furia dei cervelli”. Incontro insolito non solamente per l’orario e la giornata scelti (sabato pomeriggio), ma anche per l’inattesa partecipazione di pubblico: attento ed incuriosito nell’ascoltare gli autori, così come prolisso e variegato nel sollevar loro quesiti. Un’atmosfera resa particolare anche da quello che ci circondava. Nelle vie adiacenti il consueto weekend di shopping frenetico nella città-vetrina scorreva con cadenzata ripetitività, mentre asserragliati al piano sottostante al nostro “i massimi esponenti del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale del Paese”, riuniti dall’Aspen Institute, “discutevano in massima riservatezza delle misure da adottare per uscire dall’attuale crisi economico-finanziaria”. L’immagine di Maurizio Da Re, che con attivismo frenetico preparava cartoncini colorati (come in una caccia al tesoro) per guidare gli spettatori all’incontro in un Palazzo Vecchio blindato, strideva così con particolare forza rispetto all’esclusione perorata dall’Aspen Institute attraverso guardiani fintamente eleganti e cancelli rigorosamente sigillati. Insomma, una nitida polaroid dell’idea di partecipazione espressa dalle nostre classi dirigenti.

L’incontro, promosso dalla lista di cittadinanza perUnaltracittà e da DemocraziaKmzero, si inseriva in quel ciclo di appuntamenti (inaugurato da Joseph Halevi giovedì 10 novembre e che proseguirà con un prossimo appuntamento sabato 26 novembre alle 10,30 con l’intervista di Cristiano Lucchi a Roberta Carlini di “Sbilanciamoci”) volto ad approfondire i temi della crisi economica e finanziaria.

Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, sollecitati dalle domande di Ilaria Agostini, armata di estro ed accompagnata da citazioni dotte, hanno ricostruito la genesi del proprio lavoro, muovendo dal quasi naturale lapsus che provoca a prima vista il titolo della loro opera. Come segnalato nella presentazione da Ornella De Zordo “La furia dei cervelli” è infatti spesso, quasi meccanicamente, traslato nella desolante, quanto ricorrente, formula della “fuga dei cervelli”. Una realtà estremamente circostanziata nei numeri, ma divenuta nel comune sentire prassi diffusa tra i lavoratori della conoscenza, volta soprattutto a rappresentare la precarietà come una forma di vita povera e sfortuna. Gli autori così già dal titolo marchiano la propria alterità rispetto alla vasta letteratura, “ispirata all’italico sentimento dell’autocompatimento e della nostalgia”, fiorita attorno a quella che partiti, sindacati e giornali rappresentano come la condizione giovanile. 

Il libro è soprattutto una colonizzazione del futuro, un grido di speranza e di furore, una cesura netta e profonda con il secolo passato e con il patto sociale che lo ha animato ed attraversato: quello fordista. Ciccarelli e Allegri sgomberano per prima cosa il campo da quelle dicotomie utilizzate dal sistema vigente per imbrigliare ed arginare il soggetto da loro analizzato: il Quinto Stato. Le tradizionali distinzioni tra giovani e vecchi, tra garantiti e non-garantiti non possono cogliere la complessità e l’eterogeneità della dizione che i due autori coniano parafrasando Sieyes. Il Quinto Stato è figlio della trasformazione della produzione in senso post-fordista di fine anni Settanta, della diffusione del lavoro della conoscenza, della crescita di soggetti senza cittadinanza perché esclusi da quel patto sociale che si fondava sulla figura del lavoratore subordinato a tempo indeterminato. Un esercito di sfruttati cresciuto nel deserto sociale del neo-liberismo, istituzionalizzato dal famigerato “pacchetto Treu” del 1997 e dalla impropriamente detta “legge Biagi”, ma che trova nel biennio della transizione 1992-1994 il nucleo portante del suo disegno ideologico.

Una zona grigia in gran parte costituita dagli “intellettuali eccedenti, sospesi tra schiavitù ed autonomia”, ma che non si esaurisce con questi. Sei/sette milioni di lavoratori, in gran parte giovani, ma non solo, “senza un contratto decente, raramente con un reddito dignitoso”, inconsapevoli persino di avere diritti. Sono gli esclusi, gli emarginati del mondo post-1989 perché non integrati in quel patto di cittadinanza calibrato sul possesso di un lavoro stabile e duraturo. La loro condizione di extra-territorialità li accomuna così ai cinque milioni di migranti presenti sul suolo nazionale, non-inclusi in quanto “stranieri, barbari, indipendenti”.

I primi quattro capitoli del libro sono una genealogia antica e moderna del Quinto Stato. Antica, nel rintracciarne le origini nei secoli passati; moderna, nell’evidenziarne l’improvvisa centralità numerica e simbolica assunta a partire dalla caduta del muro di Berlino.

Un’analisi colta, raffinata, ricercata. Un libro-progetto che muove dalla consapevolezza dell’incapacità di sindacati e delle molte anime della sinistra (da quella moderata a quella radicale) di adeguare il loro linguaggio e i loro parametri mentali ad uno scenario post-fordista. La gauche nostrana, stretta tra il servilismo più vile all’ideologia neoliberista e il rimpianto di una mitica età dell’oro, è incapace di vivere il presente, di pensare il futuro. Il furore degli autori nasce anche da qui: dalla volontà di chiudere definitivamente i conti con il Secolo Breve e con un patto sociale che immaginano non estendibile al Quinto Stato. Siamo così già entrati nella seconda parte del testo, dove si delineano i movimenti resistenti che hanno animato l’attuale passaggio storico: dagli studenti ai ricercatori, dai lavoratori della conoscenza al Teatro Valle Occupato. Soggetti diversi, ma accomunati dalla non-delega, dalla partecipazione in prima persona, dall’auto-organizzazione come presupposto e forma suprema dell’agire politico. 

 Il Quinto Stato è al momento solo una potenzialità, per emergere come soggetto politico ed autonomo dovrà, a parere degli autori, federare le realtà resistenti, “adottare la cultura del mutualismo e della cooperazione”, spargere conflitto ed organizzare l’insubordinazione alle strutture esistenti. Ciccarelli e Allegri tracciano le coordinate di una zona estranea all’assistenzialismo statale e all’anarchia del mercato, con istituzioni e diritti non più ponderati sulla condizione di lavoratore, ma di cittadino. La cesura rispetto al passato è netta, lacerante, personalmente aggiungerei anche dolorosa. Così, se il limite del Terzo Stato, descritto dall’abate francese Sieyes e al quale va comunque il merito di aver abbattuto le strutture dell’Ancien Régime, risiederebbe nell’aver vincolato “la richiesta di cittadinanza ad una condizione professionale”; il contingentamento del Quarto Stato (il proletariato moderno), teorizzato da Marx e Engels, poggerebbe invece sull’aver limitato “la lotta politica alla lotta economica”. La richiesta di un nuovo patto sociale, calibrato su una cittadinanza massimamente inclusiva, è quindi l’urlo e il furore dell’umanità tutta, e non più solo di una parte di essa. In questo passaggio, a nostro giudizio, è rintracciabile una filantropia quasi feuerbachiana da parte degli autori.

Stuzzicato dalle domande del pubblico Giuseppe Allegri illustra anche delle proposte pratiche: dalla sostituzione degli attuali ammortizzatori sociali con forme di reddito garantito per certe figure professionali all’introduzione di un welfare metropolitano, da garanzie di protezione sociale a livello europeo a nuove forme di mutualismo. Rimangono idee in libertà. La Repubblica del Quinto Stato è infatti un progetto in fieri, in divenire, che non può essere attuato sotto dettatura perché ancora non nitido, perché sarà il Quinto Stato attraverso l’auto-organizzazione a scrivere il proprio futuro. Autonomia, cooperazione, indipendenza: questa è la triade che gli autori assegnano alla politica che verrà. Noi, molto più semplicemente, presentiamo il loro testo come interessante, illuminante, insolito. Proprio come l’incontro che ci hanno regalato a Palazzo Vecchio.

venerdì 18 novembre 2011

FUGA DEI CERVELLI: LA VERSIONE DEL GOVERNO INTESA-SAN PAOLO


L'anno scorso, l'istituto bancario Intesa-San Paolo ha diffuso una serie di spot sulla fuga dei cervelli. 

Rivisto nei giorni in cui Corrado Passera, eChief Executive Officer di Intesa Sanpaolo, e Francesco Profumo (rettore del Politecnico di Torino, ex presidente del Cnr, siede nel consiglio di sorveglianza della stessa banca) sono diventati, rispettivamente, ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti e ministro dell'Università e ricerca del governo Monti, il senso di questo spot cambia radicalmente.

Lo spot è un disastro comunicativo. Non controlla il sotto-testo, cioè i contenuti ideologici e l'immagine dei protagonisti, la loro identità e la divisione del lavoro sessuale che ne consegue. E manda un messaggio ideologico: non dice cioè che le banche finanziano il SINGOLO, non come ricercatore bensì come titolare di garanzie (paterne?). Lascia intendere che il governo italiano ha scelto di non finanziare più TUTTA la ricerca. E quindi non dice che la banca NON finanzia Claudio, 33 anni, che viene dall'America (ma Intesa San Paolo non dice che lo stato federale finanzia anche le università private di ricerca nella quasi integralità), ma semmai il suo "barone" di riferimento.

Anche nel caso in cui Claudio, 33 anni, sia "capofila" di un progetto europeo, o di un progetto finanziato dalla Fiat o da General Motors, i soldi di Banca Intesa non sono stati gestiti da lui. 

Qui si dà per certo che il governo italiano non finanzierà mai più la ricerca e che i soldi vengono erogati dall'impresa (o meglio, da Intesa-San Paolo). Coincidenza vuole che personalità di primo piano che appartengono a Intesa-San Paolo oggi siano al governo. 

E veniamo all'elemento più interessante dello spot: la divisione del lavoro sessuale tra i protagonisti. La "compagna" americana di Claudio, 33 anni, si dimette dalla sua vita colorata e agiata negli States, lo raggiunge nel Bel Paese ma su di lei Intesa-San Paolo non si sofferma. In quanto donna, è un soggetto passivo, semplicemente innamorato del suo Claudio di 33 anni, che ha trovato un finanziamento bancario (ma NON un lavoro da ricercatore). Sarà destinata ad un futuro da casalinga, cioè al lavoro meramente riproduttivo? 

Il messaggio dello spot non è però così sessista. Tra le pieghe emerge un dubbio più concreto: andrà a lavorare in un call-center preparandosi a tempi grami, quando il progetto finanziato da Intesa-San Paolo finirà e Claudio, 33 anni, dovrà scegliere se guidare felice la sua lambretta oppure andare a ripararla in un'autofficina dove lavorerà in nero a 500 euro al mese, senza contributi. Interessanti sono i commenti su questo sito.

La "discontinuità" invocata dal governo Monti è dunque fondata su solide certezze. Non conta se i suoi ministri siano tecnici, politici, esperti o manager. L'inconscio mediatico, e la potenza della retorica sulla "fuga dei cervelli", oppure sul suo analogo rovesciato del "ritorno dei cervelli", dice molto di più rispetto a quello che viene dichiarato nelle aule parlamentari. 

In rete esiste, infine, un video che interpreta il sotto-testo dello spot governativo sulla "fuga dei cervelli". Potrebbe essere definito la versione di "sinistra", e quindi necessariamente sfigata, triste e malinconica rispetto allo standard creato da Intesa-San Paolo. Vedi qui

Bentornati nel paese della normalità.

giovedì 10 novembre 2011

E Marchen disse: il problema non è la fuga dei cervelli, ma la loro furia

Roberto Ciccarelli

Domenica scorsa ero a pranzo con la giornalista danese Marchen Gjertsen, 26 anni, già brillantissima inviata del quotidiano Information, (il giornale della sinistra danese in stile Libération) che oggi scrive per Jyllandsposten, il Corriere della Sera di Copenhagen.
Marchen è diventata una celebrità nel giornalismo danese dopo avere scritto ”Travestito da Nazi”, il racconto di una ragazza ventenne campionessa di nuoto infiltrata nel movimento nazista in Danimarca, dopo che un gruppo di fascisti avevano picchiato un suo amico. Il discorso, dopo che le ho mostrato il nostro libro “La furia dei cervelli“, è scivolato sulla italica “fuga dei cervelli”.

Per chi è stato all’estero per più di due giorni negli ultimi 10 anni, avrà senz’altro notato che questo è il discorso prevalente non solo, e non tanto tra gli italiani espatriati (quelli che se ne sono fatti una ragione e quelli che soffrono di malinconia per il paese del turismo più bello del mondo), ma soprattutto con gli stranieri, radicali e di sinistra. Dell’Italia queste persone conosco il meglio, e cioè la sua cultura filosofica, e i suoi migliori romanzi, spesso leggono e si esprimono in una lingua perfetta, alcuni hanno studiato a lungo nel nostro paese.

Per la prima volta in Italia, incuriosità dai racconti del suo compagno Nikolaj Heltoft, già attivista di Neurogreen e corrispondente del Manifesto da Copenhagen, Marchen mi ha detto che in Danimarca il problema è invece quello del “brain gain”. Sono troppo pochi gli informatici, i medici, i biologi, gli ingegneri e il paese di sua maestà, governato per la prima volta da una donna, ha deciso di avviare un’imponente operazione di importazione di cervelli da almeno tre continenti.

Mi sono chiesto se, in fondo, la fuga dei cervelli rappresenti la realtà materiale del Quinto Stato in Italia, oppure se ne solo uno dei suoi molteplici effetti. Ho dato un’occhiata alle statistiche. E ho scoperto qualcosa che non va. Con questa espressione, presa dall’anglismo “brain drain”, si è inteso negli ultimi 10 anni l’espatrio dei ricercatori universitari e, ultimamente, dei laureati. Secondo i dati ufficiali Anagrafe Residenti Italiani Estero: “Gli iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti Estero (Aire) di età compresa tra i 20 e i 40 anni hanno registrato un incremento (dovuto a un flusso in uscita dall’Italia) pari a 316 mila e 572 unità tra il 2000 e il 2010, con un ritmo di oltre 30 mila espatri l’anno.

A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, diciamo anche 30 mila, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. Almalaurea, infatti, che è il data base più attendibile su questi temi, non offre alcuna chiarificazione.

La “fuga” c’è, e si vede tra i laureati e tra i loro fratelli maggiori, e non viene compensata in maniera significativa dall’altro polo dell’equazione, stabilita dalla sociologia britannica in questi casi: non c’è il “ritorno” dei cervelli – che pure l’ex ministro dell’istruzione cercò di praticare con un’apposita legge dagli esiti ridicoli – e nemmeno l’acquisizione di”nuovi” cervelli stranieri, l’importazione dei quali è ridotta al minimo. Il “brain gain” italiano, ammesso che esista, è l’ultimo nella classifica dei paesi Ocse.

La mancanza dei dati o meglio, il loro uso parziale ed artificioso, ha autorizzato ogni forma di speculazione a sfondo politico. C’è chi, come la sinistra e i ricercatori precari, la usa per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito. E c’è chi l’ormai dimissionario ministro della salute Ferruccio Fazio il quale sostiene, a ragione, che la “fuga dei cervelli” in atto è “fisiologica” e quindi non esiste. E’ solo un altro tentativo per nascondere il fatto che i tantissimi che partono fuggono alla tagliola del precariato che ha distrutto il lavoro della conoscenza in Italia.

E chi resta?

Non c’è risposta a questa domanda, oggi, in Italia. Il Quinto Stato è un corpo morto, che non parla e non è nemmeno meritevole di una citazione. Resta in silenzio, se ne parla con compatimento per i 2,2 milioni di “giovani” inattivi (i Neet: quelli che non studiano nè lavorano), oppure con le storia strappalacrime dei ricercatori che non hanno una ricerca pagata (centinaia di migliaia). O più in generale con la retorica desolante, e fondamentalmente ipocrita, sul precariato. Una vita nuda destinata all’estinzione o all’implosione.

Alla fine del pranzo, nel suo inglese forbito, Marchen mi ha chiesto: e se il problema non fosse la fuga dei cervelli, ma la loro furia?

martedì 8 novembre 2011

Fazio: "La fuga dei cervelli non esiste"

Per il ministro della Salute Ferruccio Fazio la "fuga dei cervelli" non esiste. E ha ragione. Ma lo dice per cancellare la liquidazione dell’università e della ricerca in Italia.


Roberto Ciccarelli



La fuga dei cervelli? In italia non esiste. Parola del ministro della Salute Ferruccio Fazio ieri a Cernobbio, nel corso della seconda conferenza sulla ricerca sanitaria. 


«Non è un'emorragia di intelligenze italiane – ha detto il ministro - ma si tratta delle normale mobilità nell'ambito della ricerca, che ha caratteristiche diverse da quelle di altri lavori, come i metalmeccanici, che non prevedono mobilità».

Abituati da anni di disinformazione governativa sulla ricerca questa uscita potrebbe suonare falsa, dopo anni spesi a dimostrare il contrario. Dall'Italia, per colpa della riforma Gelmini, i ricercatori – in particolare i medici, i fisici e gli informatici – fuggono per trovare l'eden all'estero. È così, ma anche no. Stupirà infatti sapere che su questo punto il ministro Fazio ha ragione.

Nel 2010 un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, soprattutto nella ricerca medica che per sua natura è internazionalizzata e conta su canali di comunicazione privilegiati rispetto ad altre discipline, in particolare quelle umanistiche.


Il tentativo di Fazio è tuttavia maldestro perché vuole negare l'esistenza del precariato tra i ricercatori italiani.


“È figlio – ha detto il ministro - di promesse mancate, fatte ai ricercatori, di ruoli che non c'erano”. Ma l'età media di un ricercatore è di 7 anni, è una professione che non si può fare per tutta la vita”. 


Questo significa una sola cosa: il suo governo ha deciso di eliminare almeno 30 mila precari della ricerca (ma forse sono di più), età media 35 anni. Di loro il ministro non parla, preferendo invece parlare dei “ragazzi”, avvertendoli di cambiare mestiere.



Anche nelle sue ultime settimane di vita, il governo Berlusconi si ostina a nascondere la realtà più dolente: l'avere cioè deciso di accelerare il processo di de-alfabetizzazione dell'intera popolazione che vanta anche un altro primato: essere l'ultima tra i paesi Ocse nel numero di laureati. Ciò che in fondo esso vuole negare è la crisi provocata dal taglio di 1,3 miliardi al fondo di finanziamento degli atenei e dal progetto di diminuire gli investimenti in ricerca e sviluppo dall'attuale 4,2% sul Pil al 3,2% del 2030. LItalia, con il suo 2,4% investe solo in ricerca al di sotto del 4,9% della media Ocse.



Quella in atto non è né un'emorragia né un dato fisiologico. Rispetto alle poche migliaia di ricercatori che partono, esistono centinaia di migliaia che restano e sopravvivono nelle reti del lavoro precario. Allo stesso tempo, migliaia di ricercatori fuggono (e non sono solo medici), perché in Italia non esistono le condizioni minime dal punto di vista remunerativo e scientifico per garantire una carriera dignitosa. Per comprendere questo doppio fenomeno, la formula del “brain drain”, cioè la “fuga dei cervelli” in inglese, è inadeguata. Usarla non basta per cancellare il sospetto che la “fuga dei cervelli” sia ormai diventato lo strumento per cancellare la liquidazione dell’università e della ricerca in Italia.

giovedì 22 settembre 2011

INTRODUZIONE

Non ho tentato e fallito,
nient'altro che questo
per tutta la vita...
eppure non basta...
occorre tentare farlo
di nuovo...e meglio
Samuel Beckett




Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane. Il verso di Majakovskij è una ragione sufficiente per non parlare di intellettuali, di talenti e della fuga dei cervelli in questo libro. Perché nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della «fuga dei cervelli» si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni.

L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Nel 2010 un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. È chiaro che l’espressione anglosassone «brain drain» è diventata l’occasione per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito.

In realtà, questa retorica è il risultato della sistematica rimozione delle potenzialità politiche, intellettuali e affettive di tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, dipendenti, precari o autonomi, laureati o diplomati nel nostro paese. Ed è anche il risultato di una manipolazione delle analisi sulla produzione immateriale basata sui saperi, la conoscenza e le relazioni, centrata solo su alcuni ambiti della ricerca universitaria (preferibilmente quella medica e quella informatica), a dispetto della più ampia ed articolata economia del «terziario avanzato», del lavoro indipendente e dell’intelligenza diffusa.

Il «cervello» universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più «civile», può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario.

Questo libro propone una genealogia antica e contemporanea del Quinto Stato, un concetto che riteniamo sia molto più ampio del lavoro della conoscenza, che ne costituisce una parte importante. La sua andatura evoca cortocircuiti temporali alla ricerca di un nuovo immaginario e azzarda fughe in avanti e ritorni su precedenti sentieri interrotti.

Soprattutto questo libro parla del furore. In primo luogo contro noi stessi. Perché è il furore l’unica matrice del cambiamento, l’inizio dell’autotrasformazione, la liberazione dai peccati degli altri. Il furore non si presenta però solo in una forma intimistica, e tantomeno in una religiosa, come accade nel dionisismo. La sua originaria espressione si oppone ai culti ufficiali, rappresenta l’affrancamento da quell’ordine mostruosamente civile che ha creato il nuovo genocidio italiano.

Noi sappiamo chi sono i responsabili. Noi conosciamo i colpevoli. In questo libro non troverete i loro nomi, perché li conosciamo tutti, uno per uno, ma ne riconoscerete le figure e le loro indegne funzioni. Il furore è l’espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della perdita di tutto. Ma è anche l’espressione del furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio, che per noi è quella del contatto con la vita in comune e delle sue potenzialità. La furia dei cervelli è infine l’espressione di una potenza femminile che non è quella distruttrice di Medea, ma quella della creazione di una nuova conoscenza e di una nuova vita.

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