Roberto Ciccarelli
Pietro, 37 anni, ricercatore precario alla Sapienza di Roma in neurobiologia. "So fare solo molecole" dice di se stesso. Ha perso tutto. Il suo professore non gli ha fatto avere il calcio in culo per vincere una nuova, l'ennesina, borsa di studio (su fondi europei, perché il Miur figurati?) per la sua "ricerca da nobel".
Allora si ingegna e si dà allo spaccio. Con un suo amico chimico computazionale realizza una molecola che sta alla base di una pasticca potentissima. Brividi, gaudio e allucinazioni.
La pasticca "spacca" e tutti la vogliono. La piccola banda di ricercatori precari che hanno fatto la stessa fine di Pietro diventa una micro-Magliana con tanto di loft con terrazza nell'albergo più costoso della Capitale dove organizzano feste che ricordano - l'immaginario è comune, soldi droga sesso a pagamento - quelle viste nel Lupo di Wall Street (ma c'è molto, molto meno sballo e un senso di colpo un milione di volte più pesante).
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giovedì 6 marzo 2014
domenica 22 dicembre 2013
LA (S)VALUTAZIONE DELLA RICERCA
Nel XIX secolo, in Inghilterra, negli
Stati Uniti e in Germania la ricerca e l’educazione
tecnico-scientifica hanno iniziato lentamente a prevalere su quella
umanistica. E tuttavia il modello humboldtiano sarebbe rimasto per
molto tempo l’ideale globale di università. Ancora negli anni
sessanta del Novecento, un rapporto indipendente avrebbe stabilito
come obiettivo del sistema universitario inglese “la promozione
delle funzioni generali della mente, per produrre non solo
specialisti, ma anche donne e uomini colti”. Questa idea di
università è stata ampiamente criticata, nel corso
dell’ultimo secolo, per la sua impostazione umanistica, rivolta
soprattutto alla tradizione e agli studi classici.
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giovedì 11 luglio 2013
SCUOLA: QUANDO UN TAGLIO AGLI ADDETTI DELLE PULIZIE VALE 3 MILA RICERCATORI
Anna abita con la madre a Ragusa, ha 52 anni, una figlia di 24 che
studia lettere a Catania. Nella sua vita è stata una «lavoratrice
socialmente utile». Quando lo Stato ha deciso di eliminare questa figura
ha iniziato a lavorare per il comune e poi per le scuole della sua
città come addetta alle pulizie. È arrivata a Roma dopo 19 ore di
viaggio in pulmann insieme a Giuseppe. Lui di anni ne ha 53, ha un
diploma da geometra. Con uno stipendio medio da 850 euro mantiene la
moglie e una figlia. «Mi sono adattato per portare avanti la vita»,
dice.
Cristina ha 58 anni, vive a Agrigento, ha una casa di proprietà e un marito che lavora, «per fortuna» dice. Ha due figli, il primo a 27 anni e studia da infermiere. La seconda ne ha 22 e studia lettere. Vivono entrambi a Ferrara. «Si danno da fare, lavorano anche - dice - ma ci costa molto mantenerli. Sono tanto cari». Anna, Giuseppe e Cristina lavorano per una ditta subappaltatrice della romana Miles, uno dei quattro consorzi nazionali che gestiscono le pulizie delle scuole e in altri enti o ministeri.
Cristina ha 58 anni, vive a Agrigento, ha una casa di proprietà e un marito che lavora, «per fortuna» dice. Ha due figli, il primo a 27 anni e studia da infermiere. La seconda ne ha 22 e studia lettere. Vivono entrambi a Ferrara. «Si danno da fare, lavorano anche - dice - ma ci costa molto mantenerli. Sono tanto cari». Anna, Giuseppe e Cristina lavorano per una ditta subappaltatrice della romana Miles, uno dei quattro consorzi nazionali che gestiscono le pulizie delle scuole e in altri enti o ministeri.
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lunedì 14 gennaio 2013
A PAVIA L'UNIVERSITA' NON RICONOSCE LA MATERNITA' DELLE ASSEGNISTE
Lucia Vergano, 36 anni, è un'economista che si occupa di questioni ambientali. Ha lavorato per la Commissione Europea a Siviglia e, da mercoledì prossimo, ricomincerà a lavorare in un centro di ricerca a Ispra in provincia di Varese. Come molti precari della ricerca, anche lei conduce una vita nomade. Dopo il dottorato in finanza pubblica a Pavia, ha ricevuto due assegni di ricerca più una serie di contratti di collaborazione dall'università di Padova.
Casualmente, nel 2007 ha incrociato il destino che l'accomuna a circa 1,5 milioni di lavoratori indipendenti iscritti alla Gestione separata dell'Inps e, da quel momento, la sua vita è cambiata. Lucia chiese l'estratto conto contributivo all'Inps di Padova, rendendosi conto che la sua posizione previdenziale aveva più buchi di un gruviera svizzero.
Casualmente, nel 2007 ha incrociato il destino che l'accomuna a circa 1,5 milioni di lavoratori indipendenti iscritti alla Gestione separata dell'Inps e, da quel momento, la sua vita è cambiata. Lucia chiese l'estratto conto contributivo all'Inps di Padova, rendendosi conto che la sua posizione previdenziale aveva più buchi di un gruviera svizzero.
venerdì 28 dicembre 2012
A FIRENZE L'UNIVERSITA' RICONOSCE IL DIRITTO DI ESSERE MADRI
A un anno di distanza dalla nostra denuncia – affiancata dalle pressioni del Coordinamento nazionale Precari Università (Cpu), dell’ex Comitato Pari Opportunità, delle rappresentanze sindacali Flc-Cgil – il Senato Accademico dell'università di Firenze ha abrogato la norma discriminatoria sulla sospensione degli assegni di ricerca in caso di maternità delle ricercatrici.
Per gli assegni di ricerca “cofinanziati” (oggi i più diffusi), il regolamento prevedeva che l’integrazione dell’indenità Inps per la sospensione obbligatoria per maternità fosse a carico del dipartimento, ovvero del docente responsabile della ricerca. Si veniva così a creare, nel migliore dei casi, il diretto controllo del (o della) docente sulla vita biologica della assegnista, sempre che la scelta del prof – per evitare noie – non ricadesse direttamente su un ricercatore uomo che non crea problemi nella continuità dell’iter di ricerca, tantomeno ulteriori aggravi monetari.
martedì 27 marzo 2012
VUOI FARE IL RICERCATORE? PAGA!
- Il lavoro intellettuale in Italia lo pagano i ricercatori, di tasca propria. Leggere il rapporto presentato oggi nella sala Nassirya al Senato dall’Associazione dei dottorandi Italiani (Adi) è una discesa nella realtà del paradosso italiano: la ricerca, già oggi, la si fa solo pagando le tasse sui dottorati senza borsa (almeno 2 mila euro all’anno, da moltiplicare per tre).Questa anomalia è esplosa tra il 2009 e il 2012, tanto che oggi un posto bandito su tre è privo di reddito. La scomparsa del 25,9% delle borse è solo l’anticipazione del futuro. Durante il prossimo ciclo triennale di dottorato, i dati aumenteranno, complice il progressivo, e inesorabile, definaziamento del sistema universitario. Nei 23 atenei più rappresentativi del paese (quelli che bandiscono almeno 100 borse), fra il 2009 e il 2012 il numero dei dottorati è sceso da 5701 a 4112, crescono i finanziamenti privati.
Per il fisico Francesco Vitucci, segretario nazionale Adi, i dati «mostrano chiaramente come il sistema universitario si stia ridimensionando nel suo complesso: diminuiscono i posti di dottorato, diminuisce anche il personale strutturato ma soprattutto decine di migliaia di precari vengono espulsi ogni anno a cause del blocco del turn-over». «Per far fronte a questa vera e propria ecatombe - ha spiegato - alcune università hanno cominciato ad aumentare il numero di dottorati senza borsa e i dipartimenti che possono attingere a fondi esterni si rifugiano nell'utilizzo di contratti precari della peggior specie, che erano e rimarranno esclusi da qualsiasi tutela di welfare (ASPI, mini ASPI ecc.)»
martedì 24 gennaio 2012
LA "LAUREA "CARTA STRACCIA", FANTASMA DEI LIBERALIZZATORI
La laurea “carta straccia”, fantasma dei liberalizzatori
Sul valore legale del titolo di
laurea il governo non si è espresso nel dl semplificazioni, ma deciderà dopo una consultazione pubblica sul tema. In attesa, un'inchiesta sul progetto che mescola tarde suggestioni liberiste e prevedibili ricadute corporative.
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lunedì 28 novembre 2011
mercoledì 23 novembre 2011
Diritto alla maternità? Lo decide il barone
Medioevo italiano e selezione biopolitica. Accade all'università di Firenze dove le ricercatrici precarie avranno diritto alla tutela della maternità solo se il docente di riferimento troverà i fondi necessari.Roberto CiccarelliNel medioevo italiano non è, forse, più tempo del detto biblico: “Partorirai con dolore”, ma le donne che lavorano precariamente all'università dovranno affrontare una maledizione più sottile. Se hanno deciso di avere un figlio, dovranno attendere che il loro barone trovi i soldi per finanziare l'indennità che il diritto del lavoro prevede per tutte le lavoratrici dipendenti, ma non per quelle indipendenti o freelance. Solo la buona volontà del maschio, professore ordinario, la sua disponibilità finanziaria, o ancora i contatti che ha nel mondo delle imprese o con qualche collega disposto a stornare migliaia di euro, garantirà alle ricercatrici la tutela della loro maternità. È quello che accade nell'ateneo di Firenze dove le donne che lavorano con un assegno di ricerca cofinanziato dovranno aspettare che il loro “tutor” - di solito maschio e professore ordinario – individui le risorse per finanziare l’integrazione dell’indennità corrisposta dall’Inps in caso di congedo di maternità. Un assegno di ricerca costa al dipartimento (ossia al professore che reperisce i fondi) da un minimo di 22.816,91 euro a un massimo di 25.177 euro lordi (soglia arbitrariamente fissata dal regolamento adottato dall'ateneo fiorentino, ma assente nella legge Gelmini).Nella circolare dell'ateneo fiorentino – si legge in un comunicato del Coordinamento dei Precari dell'Università (Cpu) e della Flc-Cgil Firenze - non viene specificato se l'indennità varierà a seconda dell’anzianità contributiva della titolare dell’assegno o se corrisponderà a due o cinque mensilità (come stabilito dall'Inps per le indipendenti). Quello che è certo è che i costi del welfare, anziché gravare sulle casse di Ateneo sono rimessi al singolo responsabile della ricerca, alla sua capacità di procacciare fondi, cioè al “maschio” . In questo modo si intende far pagare alla donna che decide di fare un figlio un rischio che invece dovrebbe essere un diritto tutelato.Le ricercatrici fiorentine affrontano così lo stesso destino riservato alle professioniste autonome, a partita Iva, alle contrattiste e alle donne che lavorano in nero o sottopagate. In realtà I congedi parentali per le collaboratrici sono stati introdotti dalla legge, ma non ancora applicati. In ogni caso sono largamente inferiori a quelli contemplati per le dipendenti: 3 mesi nel primo anno di vita del bambino, contro i 6 mesi entro il terzo anno di vita del bambino previsti per le dipendenti (o ancor di più se il reddito del richiedente non superi di due volte e mezzo l’importo del trattamento minimo pensionistico). Nel sistema biopolitico del welfare italiano non è prevista alcuna copertura previdenziale per i congedi parentali delle "collaboratrici", delle "assegniste" o, più in generale, di tutte le donne che non hanno un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.Questo problema era stato chiaramente affrontato dalla riforma Gelmini che aveva straordinariamente inserito il diritto alla continuità di reddito nel periodo di astensione obbligatoria per maternità delle assegniste (comma 6 dell’art. 22, legge n. 240/2010). La si potrebbe definire una conquista visto che mai dal 1997 ad oggi, anno in cui è stato istituito l'assegno di ricerca, utile cuscinetto per assorbire i ricercatori eccedenti, disoccupati, intermittenti o impossibilitati a rientrare nel circuito accademico "ufficiale", l'università italiana si è posta questo problema.L'orientamento dell'ateneo fiorentino, oltre a rivelare l'ampia discrezionalità che la legge Gelmini affida ai dipartimenti, e in particolare ai baroni nella scelta dei criteri della selezione, conferma la realtà della società della conoscenza italiana: possono fare ricerca solo gli uomini, ma non le donne in età fertile. Nessuno dei due sarà comunque titolare di un diritto alla maternità o alla paternità. Salvo nei casi in cui il loro barone troverà qualche spicciolo.
venerdì 18 novembre 2011
LA FURIA DEI CERVELLI FRA RICERCA E PRECARIATO
Secondo appuntamento del ciclo di incontri "Europa tossica: crisi del capitalismo, crisi del debito e crisi della politica" organizzato da perUnaltracittà - lista di cittadinanza e Democrazia Km Zero. Domani, sabato 19 novembre, alle ore 16.00, nella Sala della Miniatura a Palazzo Vecchio Ilaria Agostini intervista Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, autori del libro "La furia dei cervelli", edito da Manifestolibri.
Partendo da un noto verso di Majakovskij, "Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane", gli autori spiegano che al centro della loro analisi non c'è la figura dell'intellettuale, né la questione della fuga dei talenti fuori dai confini nazionali. Difatti, come scrivono nell'introduzione, è proprio "nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della "fuga dei cervelli" che si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni". Una retorica, proseguono gli autori, che alimenta polemicamente un fenomeno che è ritenuto minoritario, e che si pone come il risultato della sistematica rimozione delle potenzialità politiche, intellettuali e affettive di tutti i lavoratori.
Il libro racconta del "furore" contro il sistema: "è l'unica matrice del cambiamento, l'inizio dell'autotrasformazione [...] il furore è l'espressione della rabbia degna e dell'odio contro un mondo organizzatosul principio della disperazione e della perdita di tutto. Ma è anche l'espressione del furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio, che per noi è quella del contatto con la vita in comune e delle sue potenzialità. La furia dei cervelli è infine l'espressione di una potenza femminile che non è quella distruttrice di Medea, ma quella della creazione di una nuova conoscenza e di una nuova vita.".
(18 novembre 2011)
FUGA DEI CERVELLI: LA VERSIONE DEL GOVERNO INTESA-SAN PAOLO
L'anno scorso, l'istituto bancario Intesa-San Paolo ha diffuso una serie di spot sulla fuga dei cervelli.
Rivisto nei giorni in cui Corrado Passera, ex Chief Executive Officer di Intesa Sanpaolo, e Francesco Profumo (rettore del Politecnico di Torino, ex presidente del Cnr, siede nel consiglio di sorveglianza della stessa banca) sono diventati, rispettivamente, ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture e Trasporti e ministro dell'Università e ricerca del governo Monti, il senso di questo spot cambia radicalmente.
Lo spot è un disastro comunicativo. Non controlla il sotto-testo, cioè i contenuti ideologici e l'immagine dei protagonisti, la loro identità e la divisione del lavoro sessuale che ne consegue. E manda un messaggio ideologico: non dice cioè che le banche finanziano il SINGOLO, non come ricercatore bensì come titolare di garanzie (paterne?). Lascia intendere che il governo italiano ha scelto di non finanziare più TUTTA la ricerca. E quindi non dice che la banca NON finanzia Claudio, 33 anni, che viene dall'America (ma Intesa San Paolo non dice che lo stato federale finanzia anche le università private di ricerca nella quasi integralità), ma semmai il suo "barone" di riferimento.
Anche nel caso in cui Claudio, 33 anni, sia "capofila" di un progetto europeo, o di un progetto finanziato dalla Fiat o da General Motors, i soldi di Banca Intesa non sono stati gestiti da lui.
Qui si dà per certo che il governo italiano non finanzierà mai più la ricerca e che i soldi vengono erogati dall'impresa (o meglio, da Intesa-San Paolo). Coincidenza vuole che personalità di primo piano che appartengono a Intesa-San Paolo oggi siano al governo.
E veniamo all'elemento più interessante dello spot: la divisione del lavoro sessuale tra i protagonisti. La "compagna" americana di Claudio, 33 anni, si dimette dalla sua vita colorata e agiata negli States, lo raggiunge nel Bel Paese ma su di lei Intesa-San Paolo non si sofferma. In quanto donna, è un soggetto passivo, semplicemente innamorato del suo Claudio di 33 anni, che ha trovato un finanziamento bancario (ma NON un lavoro da ricercatore). Sarà destinata ad un futuro da casalinga, cioè al lavoro meramente riproduttivo?
Il messaggio dello spot non è però così sessista. Tra le pieghe emerge un dubbio più concreto: andrà a lavorare in un call-center preparandosi a tempi grami, quando il progetto finanziato da Intesa-San Paolo finirà e Claudio, 33 anni, dovrà scegliere se guidare felice la sua lambretta oppure andare a ripararla in un'autofficina dove lavorerà in nero a 500 euro al mese, senza contributi. Interessanti sono i commenti su questo sito.
La "discontinuità" invocata dal governo Monti è dunque fondata su solide certezze. Non conta se i suoi ministri siano tecnici, politici, esperti o manager. L'inconscio mediatico, e la potenza della retorica sulla "fuga dei cervelli", oppure sul suo analogo rovesciato del "ritorno dei cervelli", dice molto di più rispetto a quello che viene dichiarato nelle aule parlamentari.
In rete esiste, infine, un video che interpreta il sotto-testo dello spot governativo sulla "fuga dei cervelli". Potrebbe essere definito la versione di "sinistra", e quindi necessariamente sfigata, triste e malinconica rispetto allo standard creato da Intesa-San Paolo. Vedi qui
Bentornati nel paese della normalità.
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giovedì 10 novembre 2011
E Marchen disse: il problema non è la fuga dei cervelli, ma la loro furia
Roberto Ciccarelli
Domenica scorsa ero a pranzo con la giornalista danese Marchen Gjertsen, 26 anni, già brillantissima inviata del quotidiano Information, (il giornale della sinistra danese in stile Libération) che oggi scrive per Jyllandsposten, il Corriere della Sera di Copenhagen.
Marchen è diventata una celebrità nel giornalismo danese dopo avere scritto ”Travestito da Nazi”, il racconto di una ragazza ventenne campionessa di nuoto infiltrata nel movimento nazista in Danimarca, dopo che un gruppo di fascisti avevano picchiato un suo amico. Il discorso, dopo che le ho mostrato il nostro libro “La furia dei cervelli“, è scivolato sulla italica “fuga dei cervelli”.
Per chi è stato all’estero per più di due giorni negli ultimi 10 anni, avrà senz’altro notato che questo è il discorso prevalente non solo, e non tanto tra gli italiani espatriati (quelli che se ne sono fatti una ragione e quelli che soffrono di malinconia per il paese del turismo più bello del mondo), ma soprattutto con gli stranieri, radicali e di sinistra. Dell’Italia queste persone conosco il meglio, e cioè la sua cultura filosofica, e i suoi migliori romanzi, spesso leggono e si esprimono in una lingua perfetta, alcuni hanno studiato a lungo nel nostro paese.
Per la prima volta in Italia, incuriosità dai racconti del suo compagno Nikolaj Heltoft, già attivista di Neurogreen e corrispondente del Manifesto da Copenhagen, Marchen mi ha detto che in Danimarca il problema è invece quello del “brain gain”. Sono troppo pochi gli informatici, i medici, i biologi, gli ingegneri e il paese di sua maestà, governato per la prima volta da una donna, ha deciso di avviare un’imponente operazione di importazione di cervelli da almeno tre continenti.
Mi sono chiesto se, in fondo, la fuga dei cervelli rappresenti la realtà materiale del Quinto Stato in Italia, oppure se ne solo uno dei suoi molteplici effetti. Ho dato un’occhiata alle statistiche. E ho scoperto qualcosa che non va. Con questa espressione, presa dall’anglismo “brain drain”, si è inteso negli ultimi 10 anni l’espatrio dei ricercatori universitari e, ultimamente, dei laureati. Secondo i dati ufficiali Anagrafe Residenti Italiani Estero: “Gli iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti Estero (Aire) di età compresa tra i 20 e i 40 anni hanno registrato un incremento (dovuto a un flusso in uscita dall’Italia) pari a 316 mila e 572 unità tra il 2000 e il 2010, con un ritmo di oltre 30 mila espatri l’anno.
A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.
Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, diciamo anche 30 mila, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. Almalaurea, infatti, che è il data base più attendibile su questi temi, non offre alcuna chiarificazione.
La “fuga” c’è, e si vede tra i laureati e tra i loro fratelli maggiori, e non viene compensata in maniera significativa dall’altro polo dell’equazione, stabilita dalla sociologia britannica in questi casi: non c’è il “ritorno” dei cervelli – che pure l’ex ministro dell’istruzione cercò di praticare con un’apposita legge dagli esiti ridicoli – e nemmeno l’acquisizione di”nuovi” cervelli stranieri, l’importazione dei quali è ridotta al minimo. Il “brain gain” italiano, ammesso che esista, è l’ultimo nella classifica dei paesi Ocse.
La mancanza dei dati o meglio, il loro uso parziale ed artificioso, ha autorizzato ogni forma di speculazione a sfondo politico. C’è chi, come la sinistra e i ricercatori precari, la usa per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito. E c’è chi l’ormai dimissionario ministro della salute Ferruccio Fazio il quale sostiene, a ragione, che la “fuga dei cervelli” in atto è “fisiologica” e quindi non esiste. E’ solo un altro tentativo per nascondere il fatto che i tantissimi che partono fuggono alla tagliola del precariato che ha distrutto il lavoro della conoscenza in Italia.
E chi resta?
Non c’è risposta a questa domanda, oggi, in Italia. Il Quinto Stato è un corpo morto, che non parla e non è nemmeno meritevole di una citazione. Resta in silenzio, se ne parla con compatimento per i 2,2 milioni di “giovani” inattivi (i Neet: quelli che non studiano nè lavorano), oppure con le storia strappalacrime dei ricercatori che non hanno una ricerca pagata (centinaia di migliaia). O più in generale con la retorica desolante, e fondamentalmente ipocrita, sul precariato. Una vita nuda destinata all’estinzione o all’implosione.
Alla fine del pranzo, nel suo inglese forbito, Marchen mi ha chiesto: e se il problema non fosse la fuga dei cervelli, ma la loro furia?
Domenica scorsa ero a pranzo con la giornalista danese Marchen Gjertsen, 26 anni, già brillantissima inviata del quotidiano Information, (il giornale della sinistra danese in stile Libération) che oggi scrive per Jyllandsposten, il Corriere della Sera di Copenhagen.
Marchen è diventata una celebrità nel giornalismo danese dopo avere scritto ”Travestito da Nazi”, il racconto di una ragazza ventenne campionessa di nuoto infiltrata nel movimento nazista in Danimarca, dopo che un gruppo di fascisti avevano picchiato un suo amico. Il discorso, dopo che le ho mostrato il nostro libro “La furia dei cervelli“, è scivolato sulla italica “fuga dei cervelli”.
Per chi è stato all’estero per più di due giorni negli ultimi 10 anni, avrà senz’altro notato che questo è il discorso prevalente non solo, e non tanto tra gli italiani espatriati (quelli che se ne sono fatti una ragione e quelli che soffrono di malinconia per il paese del turismo più bello del mondo), ma soprattutto con gli stranieri, radicali e di sinistra. Dell’Italia queste persone conosco il meglio, e cioè la sua cultura filosofica, e i suoi migliori romanzi, spesso leggono e si esprimono in una lingua perfetta, alcuni hanno studiato a lungo nel nostro paese.
Per la prima volta in Italia, incuriosità dai racconti del suo compagno Nikolaj Heltoft, già attivista di Neurogreen e corrispondente del Manifesto da Copenhagen, Marchen mi ha detto che in Danimarca il problema è invece quello del “brain gain”. Sono troppo pochi gli informatici, i medici, i biologi, gli ingegneri e il paese di sua maestà, governato per la prima volta da una donna, ha deciso di avviare un’imponente operazione di importazione di cervelli da almeno tre continenti.
Mi sono chiesto se, in fondo, la fuga dei cervelli rappresenti la realtà materiale del Quinto Stato in Italia, oppure se ne solo uno dei suoi molteplici effetti. Ho dato un’occhiata alle statistiche. E ho scoperto qualcosa che non va. Con questa espressione, presa dall’anglismo “brain drain”, si è inteso negli ultimi 10 anni l’espatrio dei ricercatori universitari e, ultimamente, dei laureati. Secondo i dati ufficiali Anagrafe Residenti Italiani Estero: “Gli iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti Estero (Aire) di età compresa tra i 20 e i 40 anni hanno registrato un incremento (dovuto a un flusso in uscita dall’Italia) pari a 316 mila e 572 unità tra il 2000 e il 2010, con un ritmo di oltre 30 mila espatri l’anno.
A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.
Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, diciamo anche 30 mila, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. Almalaurea, infatti, che è il data base più attendibile su questi temi, non offre alcuna chiarificazione.
La “fuga” c’è, e si vede tra i laureati e tra i loro fratelli maggiori, e non viene compensata in maniera significativa dall’altro polo dell’equazione, stabilita dalla sociologia britannica in questi casi: non c’è il “ritorno” dei cervelli – che pure l’ex ministro dell’istruzione cercò di praticare con un’apposita legge dagli esiti ridicoli – e nemmeno l’acquisizione di”nuovi” cervelli stranieri, l’importazione dei quali è ridotta al minimo. Il “brain gain” italiano, ammesso che esista, è l’ultimo nella classifica dei paesi Ocse.
La mancanza dei dati o meglio, il loro uso parziale ed artificioso, ha autorizzato ogni forma di speculazione a sfondo politico. C’è chi, come la sinistra e i ricercatori precari, la usa per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito. E c’è chi l’ormai dimissionario ministro della salute Ferruccio Fazio il quale sostiene, a ragione, che la “fuga dei cervelli” in atto è “fisiologica” e quindi non esiste. E’ solo un altro tentativo per nascondere il fatto che i tantissimi che partono fuggono alla tagliola del precariato che ha distrutto il lavoro della conoscenza in Italia.
E chi resta?
Non c’è risposta a questa domanda, oggi, in Italia. Il Quinto Stato è un corpo morto, che non parla e non è nemmeno meritevole di una citazione. Resta in silenzio, se ne parla con compatimento per i 2,2 milioni di “giovani” inattivi (i Neet: quelli che non studiano nè lavorano), oppure con le storia strappalacrime dei ricercatori che non hanno una ricerca pagata (centinaia di migliaia). O più in generale con la retorica desolante, e fondamentalmente ipocrita, sul precariato. Una vita nuda destinata all’estinzione o all’implosione.
Alla fine del pranzo, nel suo inglese forbito, Marchen mi ha chiesto: e se il problema non fosse la fuga dei cervelli, ma la loro furia?
martedì 8 novembre 2011
Fazio: "La fuga dei cervelli non esiste"
Per il ministro della Salute Ferruccio Fazio la "fuga dei cervelli" non esiste. E ha ragione. Ma lo dice per cancellare la liquidazione dell’università e della ricerca in Italia.
Roberto Ciccarelli
La fuga dei cervelli? In italia non esiste. Parola del ministro della Salute Ferruccio Fazio ieri a Cernobbio, nel corso della seconda conferenza sulla ricerca sanitaria.
«Non è un'emorragia di intelligenze italiane – ha detto il ministro - ma si tratta delle normale mobilità nell'ambito della ricerca, che ha caratteristiche diverse da quelle di altri lavori, come i metalmeccanici, che non prevedono mobilità».
Abituati da anni di disinformazione governativa sulla ricerca questa uscita potrebbe suonare falsa, dopo anni spesi a dimostrare il contrario. Dall'Italia, per colpa della riforma Gelmini, i ricercatori – in particolare i medici, i fisici e gli informatici – fuggono per trovare l'eden all'estero. È così, ma anche no. Stupirà infatti sapere che su questo punto il ministro Fazio ha ragione.
Nel 2010 un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.
Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, soprattutto nella ricerca medica che per sua natura è internazionalizzata e conta su canali di comunicazione privilegiati rispetto ad altre discipline, in particolare quelle umanistiche.
Il tentativo di Fazio è tuttavia maldestro perché vuole negare l'esistenza del precariato tra i ricercatori italiani.
Questo significa una sola cosa: il suo governo ha deciso di eliminare almeno 30 mila precari della ricerca (ma forse sono di più), età media 35 anni. Di loro il ministro non parla, preferendo invece parlare dei “ragazzi”, avvertendoli di cambiare mestiere.
Il tentativo di Fazio è tuttavia maldestro perché vuole negare l'esistenza del precariato tra i ricercatori italiani.
“È figlio – ha detto il ministro - di promesse mancate, fatte ai ricercatori, di ruoli che non c'erano”. Ma l'età media di un ricercatore è di 7 anni, è una professione che non si può fare per tutta la vita”.
Questo significa una sola cosa: il suo governo ha deciso di eliminare almeno 30 mila precari della ricerca (ma forse sono di più), età media 35 anni. Di loro il ministro non parla, preferendo invece parlare dei “ragazzi”, avvertendoli di cambiare mestiere.
Anche nelle sue ultime settimane di vita, il governo Berlusconi si ostina a nascondere la realtà più dolente: l'avere cioè deciso di accelerare il processo di de-alfabetizzazione dell'intera popolazione che vanta anche un altro primato: essere l'ultima tra i paesi Ocse nel numero di laureati. Ciò che in fondo esso vuole negare è la crisi provocata dal taglio di 1,3 miliardi al fondo di finanziamento degli atenei e dal progetto di diminuire gli investimenti in ricerca e sviluppo dall'attuale 4,2% sul Pil al 3,2% del 2030. LItalia, con il suo 2,4% investe solo in ricerca al di sotto del 4,9% della media Ocse.
Quella in atto non è né un'emorragia né un dato fisiologico. Rispetto alle poche migliaia di ricercatori che partono, esistono centinaia di migliaia che restano e sopravvivono nelle reti del lavoro precario. Allo stesso tempo, migliaia di ricercatori fuggono (e non sono solo medici), perché in Italia non esistono le condizioni minime dal punto di vista remunerativo e scientifico per garantire una carriera dignitosa. Per comprendere questo doppio fenomeno, la formula del “brain drain”, cioè la “fuga dei cervelli” in inglese, è inadeguata. Usarla non basta per cancellare il sospetto che la “fuga dei cervelli” sia ormai diventato lo strumento per cancellare la liquidazione dell’università e della ricerca in Italia.
giovedì 22 settembre 2011
INTRODUZIONE
nient'altro che questo
per tutta la vita...
eppure non basta...
occorre tentare farlo
di nuovo...e meglio
Samuel Beckett
Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane. Il verso di Majakovskij è una ragione sufficiente per non parlare di intellettuali, di talenti e della fuga dei cervelli in questo libro. Perché nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della «fuga dei cervelli» si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni.
L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Nel 2010 un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.
Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. È chiaro che l’espressione anglosassone «brain drain» è diventata l’occasione per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito.
In realtà, questa retorica è il risultato della sistematica rimozione delle potenzialità politiche, intellettuali e affettive di tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, dipendenti, precari o autonomi, laureati o diplomati nel nostro paese. Ed è anche il risultato di una manipolazione delle analisi sulla produzione immateriale basata sui saperi, la conoscenza e le relazioni, centrata solo su alcuni ambiti della ricerca universitaria (preferibilmente quella medica e quella informatica), a dispetto della più ampia ed articolata economia del «terziario avanzato», del lavoro indipendente e dell’intelligenza diffusa.
Il «cervello» universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più «civile», può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario.
Questo libro propone una genealogia antica e contemporanea del Quinto Stato, un concetto che riteniamo sia molto più ampio del lavoro della conoscenza, che ne costituisce una parte importante. La sua andatura evoca cortocircuiti temporali alla ricerca di un nuovo immaginario e azzarda fughe in avanti e ritorni su precedenti sentieri interrotti.
Soprattutto questo libro parla del furore. In primo luogo contro noi stessi. Perché è il furore l’unica matrice del cambiamento, l’inizio dell’autotrasformazione, la liberazione dai peccati degli altri. Il furore non si presenta però solo in una forma intimistica, e tantomeno in una religiosa, come accade nel dionisismo. La sua originaria espressione si oppone ai culti ufficiali, rappresenta l’affrancamento da quell’ordine mostruosamente civile che ha creato il nuovo genocidio italiano.
Noi sappiamo chi sono i responsabili. Noi conosciamo i colpevoli. In questo libro non troverete i loro nomi, perché li conosciamo tutti, uno per uno, ma ne riconoscerete le figure e le loro indegne funzioni. Il furore è l’espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della perdita di tutto. Ma è anche l’espressione del furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio, che per noi è quella del contatto con la vita in comune e delle sue potenzialità. La furia dei cervelli è infine l’espressione di una potenza femminile che non è quella distruttrice di Medea, ma quella della creazione di una nuova conoscenza e di una nuova vita.
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