Cresce la richiesta di consulenze e prestazioni gratuite ai professionisti che lavorano a partita Iva con le imprese private e con il settore pubblico. È uno degli aspetti più significativi dell'analisi condotta dall'Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (Acta) condotta su un campione di 744 persone (il 52,7% sono donne), residenti al Nord (62,9%), nate tra gli anni Sessanta e Settanta (rispettivamente il 29,8% e il 35,6%). Un lavoratore autonomo su due ha ricevuto nell'ultimo anno una richiesta di lavoro extra e gratuito. Nel 15,9% dei casi emerge una realtà sconcertante, ma sotto gli occhi di tutti: per i committenti, soprattutto enti di ricerca, università, enti pubblici e locali questa richiesta rientra nella normalità. Tra le partite Iva che lavorano nel campo dell'editoria, dell'archeologia e dell'architettura chi non accetta di lavorare gratis, soprattutto per un committente privato, è costretto a fare i conti con la concorrenza del lavoro gratuito.
«È un processo in atto da anni - sostiene Anna Soru, presidente di Acta - ma ora sta emergendo in maniera così forte da imporre l'adozione di misure che tutelino i lavoratori, ma anche il mercato. Penso al salario minimo proposto da Juncker, ma rifiutato dalla Cgil, all'equo compenso per i giornalisti. So di essere controcorrente, ma penso che nelle professioni dovrebbero essere ristabilite le tariffe minime eliminate dalle liberalizzazioni negli ordini professionali. Oggi c'è una concorrenza al ribasso così forte da determinare redditi sulla soglia di povertà. Rispetto al reddito minimo, non ho obiezioni ideologiche. In un paese come il nostro dove c'è tanto lavoro nero,prima di istituirlo bisogna vincere la guerra contro l'evasione fiscale, altrimenti si rischia di finire come nell'agricoltura dove tutti hanno la disoccupazione».
I ritardi dei pagamenti sono un'altra iattura per gli autonomi. Il 76% degli interlocutori di Acta dichiara di non ricevere mai anticipi, mentre il 18% li riceve raramente e solo il 6% con una certa regolarità. Questa situazione ha provocato un'inflessione dei redditi così netta da rendere difficile anche il sostentamento. Le bollette, l'affitto di un appartamento, di un ufficio o di una postazione in uno studio, il cibo e anche i mezzi di trasporto sono voci importanti nel bilancio di una partita Iva. Il 47,7% denuncia un reddito appena sufficiente rispetto ai parametri medi. I professionisti che subiscono i contraccolpi della crisi sono quelli che lavorano nelle aree creative come la pubblicità, l'editoria e il design.
Sicuramente migliore è la situazione di chi svolge attività più tecniche e specializzate nel settore dell'Information technology (Itc), nell'ingegneria oppure nel campo della consulenza di direzione e strategica. Nel 27% dei casi l'apporto di altri redditi familiari è determinante per sostenere un momento di grande difficoltà. Il 12,8% si affida al sostegno della famiglia di origine. Molto più raro è il ricorso ad altri redditi da lavoro o a rendite finanziarie (solo il 3,7%).
Questo aspetto dimostra che le partite iva, a lungo considerate a sinistra come a destra una figura intermedia tra l'imprenditore e l'evasore fiscale, sono in realtà donne e uomini che vivono del proprio lavoro. Un lavoro che, come e più di quello dipendente o salariato, è soggetto alle paurose oscillazioni della domanda. Cresce anche la pressione sui prezzi, mentre la contrattazione diventa sempre più lunga e sfiancante per il 67,2% degli intervistati i quali, per tutelare la propria professionalità, non accetta i lavori sottopagati.
Altri sono stati costretti ad accettarli per timore di essere sostituiti, perdendo clienti. Per mantenere le posizioni, in attesa di periodi migliori, è fondamentale rafforzare il rapporto di fiducia con i clienti, anche se ormai è molto difficile fidarsi dei rapporti verbali. Il 57% dei clienti non si vergogna di «prendere per il collo» i professionisti che non hanno altra scelta che cedere ai ricatti. Una scelta difficile, ma necessaria imposta dalla riduzione dell'acquisto dei servizi o alla cancellazione di attività.
Acta si occupa anche del problema delle «false partite Iva». Dall'entrata in vigore della riforma Fornero nello scorso luglio, i committenti hanno inaugurato stratagemmi e vere e proprie astuzie per aggirare le norme stabilite dalla legge. Oltre il 35% prende tempo per rinnovare il contratto, e spesso rinviano i contratti perché non conoscono le conseguenze delle loro decisioni, sempre più spesso chiedono al professionista consigli su come procedere. Per i contratti che prima coprivano 12 mesi e oggi sono concentrati su 8 mesi è stata eliminata la postazione fissa che obbliga all'assunzione. Il campione analizzato da Acta rivela che il lavoro autonomo non risponde necessariamente ai parametri adottati dalla riforma
La monocommittenza non è il criterio che distingue una «finta» partita Iva da una «vera». La stragrande maggioranza degli intervistati conferma che il lavoro viene pagato sulla prestazione, non sul tempo dell'impiego. Ai singoli viene lasciata l'autonomia nel decidere se, come e quando lavorare.
In un'intervista a Barbara Imbergamo, Anna Soru ha appronfondito il problema delle tariffe minime alla luce di un'analisi dell'impresa in Italia:
Le imprese italiane sono piccole, tra quelle medie poi molte hanno un’impostazione a “conduzione familiare” e tendono a non comprare servizi qualificati, anche perché sono presenti soprattutto in settori tradizionali, non innovativi. Se si considera poi che quelle molto grandi si rivolgono principalmente ad un’offerta estera si vede che il mercato è “piccolo” e il lavoro qualificato è scarsamente riconosciuto come un valore aggiunto. E dunque poco pagato. Le pubbliche amministrazioni infine hanno sempre meno soldi e, spesso, una limitata capacità di scegliere su quali servizi pregiati investirli.
In questo tessuto produttivo, dove l'impresa è piccola, risente del definanziamento del pubblico, o della crisi del mercato, la proposta di un minimo tariffario per le prestazioni o di un salario minimo assume un rilievo tutto particolare, sicuramente lontano dall'intenzione protezionistica o corporativa che ha spinto a liquidare queste misure:
Il discorso sui minimi tariffari é un discorso molto controcorrente - conferma Anna Soru - visto che i minimi tariffari sono sempre stati visti come l’emblema del protezionismo e da poco sono stati aboliti anche per gli ordinisti. Ma in mercati iperaffollati in cui le posizioni oligopolistiche di certo non esistono più e in cui invece il problema principale è una competizione spasmodica che spinge al ribasso dei prezzi, la definizione di tariffe minime sarebbe il contraltare della contrattazione collettiva per il lavoro dipendente. Certo sarebbe difficile renderli vincolanti, ma servirebbero comunque a fornire dei criteri sia ai professionisti, sia ai committenti.
In questo contesto si spiega la proposta del salario minimo:
Il salario minimo (da non confondere con il reddito minimo garantito) è una misura che esiste in moltissimi altri paesi avanzati ed è appunto un minimo orario, uguale per tutti, al di sotto del quale non si può andare. Recentemente è stato proposto dal presidente dell’Eurogruppo Juncker per tutti i paesi dell’area Euro, ma i sindacati italiani hanno respinto tale proposta, come sempre preoccupati di difendere il proprio territorio. Invece sarebbe una misura fondamentale per eliminare il lavoro gratuito o semi-gratuito, quello svolto da stagisti, praticanti, ma anche da tanti altri non occupati che si adattano ad accettare lavori non pagati o quasi nella speranza o nell’illusione di un’occupazione “normale”.
Roberto Ciccarelli
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