giovedì 12 dicembre 2019

ANDARE A SCUOLA E IMPARARE IL LAVORO DI CHI CERCA UN LAVORO


Edoardo Puglielli

Pubblichiamo il testo che Edoardo Puglielli sta usando per le sue conferenze e incontri  sulle ideologie contemporanee dei sistemi formativi e dell'insegnamento. L'autore dice che è ispirato alla lettura dei libri di Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri) e Forza lavoro. II lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi. Lo ringraziamo per la generosità. Non si tratta di avere paura, bisogna trovare nuovi strumenti. Co-spiriamo, respiriamo insieme.


***



1.
Istituzioni e agenzie formative esortano oggi insistentemente studenti e lavoratori a considerare la vita un eterno apprendistato: studenti e lavoratori devono trasformarsi in «imprenditori di se stessi» e in «venditori di competenze»; devono essere permanentemente «occupabili», non occupati; e devono prepararsi a competere per tutta la vita su un mercato del lavoro totalmente deregolamentato come «merci» più attraenti e più desiderabili della altre. Studenti e lavoratori sono oggi invitati a imparare e svolgere un’attività peculiare: il «lavoro di cercare lavori»: precari, intermittenti, sottopagati, stagizzati, gratuitizzati.

2.
Il «lavoro di cercare lavori» sembra essere diventata la vita nella «società della conoscenza e delle competenze». È un’attività che tende a sostituire progressivamente il lavoro a tempo indeterminato con il lavoro precario e casuale. La «grande sostituzione» in atto non è quella delle macchine, dei robot, ma la trasformazione del lavoro esistente in lavoro occasionale, demansionabile e povero. Studenti e lavoratori sono così continuamente sollecitati ad attivarsi in stage, tirocini, apprendistati, master, volontariato, etc. Un addestramento che inizia fin dalla scuola con l’«alternanza scuola-lavoro» (oggi ribattezzata PCTO) e con la «didattica per competenze»: la prima impone ai più giovani l’impresa addirittura come «contesto di apprendimento»; la seconda, invece, sostituisce alle culture disciplinari pacchetti di nozioni miste, flessibili e trasversali richiesti dall’organizzazione flessibile del lavoro precario. Anche la scuola viene così ad adattarsi ad un mercato del lavoro che ha sostituito la sicurezza e la stabilità con l’insicurezza della precarietà e la qualificazione professionale con le competenze: l’obiettivo, per studenti e lavoratori, è l’«occupabilità», non l’apprendimento di un lavoro.

3.
In ambito scolastico, la didattica per competenze è stata presentata come metodo in grado di rafforzare il pensiero critico. Essa, in realtà, realizza la situazione inversa. Il pilastro fondamentale su cui si regge la didattica per competenze, infatti, è che l’allievo debba procedere per risoluzione di problemi. Esattamente il contrario del pensiero critico, il cui pilastro è che è compito dell’allievo suscitare problemi, associato alla convinzione che le soluzioni ai problemi possono anche essere diverse. La «criticità» del pensiero consiste nell’educazione a sollevare dubbi e a porre problemi. Nella didattica per competenze, al contrario, l’allievo risulta espropriato di questa facoltà, perché il problema viene posto dall’alto, con la conseguenza che per ogni problema prospettato esiste una sola soluzione: gli allievi non risultano più suscitatori di domande, bensì risolutori di problemi posti da terzi.

4.
Il modello formativo oggi dominante è, per conseguenza, quello incardinato sul paradigma dell’«imparare a imparare». In teoria, il paradigma dell’«imparare ad imparare» dovrebbe rimandare allo sviluppo della capacità metacognitiva del saper riflettere sulle conoscenze e sui processi ad esse collegati (analisi, sintesi, metodi attraverso cui cogliere le strutture del pensare letterario, storico, scientifico, matematico, artistico ecc.); tale capacità è dunque abilitata solo dalla conoscenza, che in contatto con nuove sollecitazioni affina le proprie strutture ed apre ad altre conoscenze, ad altri modi di investigare via via più complessi, più sofisticati, qualitativamente superiori. Oggi, invece, il paradigma dominante dell’«imparare a imparare» si è banalmente capovolto in riflesso ideologico di un’organizzazione della produzione che obbliga il lavoratore ad acquisire competenze in continuazione per adeguarsi permanentemente a mansioni diverse e prive di sicurezze esclusivamente in vista di scopi eteronomi che trasformano la sua stessa esistenza in strumento per perfezionare i meccanismi dell’accumulazione flessibile.

5.
L’interminabile percorso formativo, lavorativo ed esistenziale incardinato sull’alternarsi di acquisizione di competenze, stage, disoccupazione, lavoro in nero, lavoro casuale e sottopagato etc., è governato da una «economia della promessa» dove la promessa è il salario del lavoro svolto gratuitamente. Studenti e lavoratori sono obbligati a credere alla promessa di un lavoro soddisfacente e di una retribuzione dignitosa; anche se si tratta di una promessa che viene sistematicamente tradita, perché il lavoro, nella società della precarietà a tempo pieno, se ci sarà, sarà lavoro sempre più casuale e desalarizzato; perché il lavoro, se ci sarà, non porterà a nessuna realizzazione personale e lavorativa ma a lavori sempre meno sicuri e meno retribuiti. Studenti e lavoratori precari vivono così una condizione materiale ed esistenziale governata da un meccanismo che promette mentre tradisce, che afferma mentre nega, che colloca il benessere e la realizzazione di sé in un futuro inaccessibile. Se ancora negli anni Novanta i lavoratori precari potevano considerare il tempo indeterminato come uno dei possibili orizzonti, le nuove generazioni vedono all’orizzonte solo l’iper-lavoro e il sotto-salario senza nessuna tutela e nessuna garanzia di ottenere, prima o poi, la sicurezza economica (stabilità dell’occupazione, sicurezza del reddito, sicurezza previdenziale, ecc.) e un lavoro dignitoso.

6.
Per studenti e lavoratori, inoltre, sono sempre più richieste: 1) l’adesione incondizionata al principio di competitività globale (piena disponibilità ad adeguarsi permanentemente a mansioni sempre diverse, prive di direzionalità e di sicurezze; piena disponibilità a prolungare oltre i limiti l’orario di lavoro giornaliero, a lavorare anche nei giorni festivi, sui treni, nelle sale d’attesa, ecc., a trasferirsi in altra sede pur avendo da diversi anni una vita relazionale in un altro luogo, ecc.) e, 2) l’interiorizzazione di una morale che vuole convincere gli individui che la creazione di posti di lavoro dipenda dalla decisione dei disoccupati e dei precari di acquisire continuamente competenze e di attivarsi permanentemente per cercare un lavoro; una morale che colloca i fallimenti individuali non in una organizzazione riproduttiva incapace di garantire occupazione, stabilità e sviluppo personale per tutti, ma nell’individuo non sufficientemente «formato» o «meritevole» di accedere ad una qualche forma di sicurezza occupazionale ed economica (di qui l’ideologia della «meritocrazia»), scaricando così direttamente sulle spalle dei precari e dei disoccupati il peso (la «colpa») della loro condizione di disoccupazione e di precarietà.

7.
Anche il sistema scolastico, dunque, come le agenzie per la formazione degli adulti, si va ristrutturando sulla base del paradigma dell’«occupabilità». L’obiettivo è l’apprendimento continuo di competenze ad uso e smaltimento temporaneo, non l’apprendimento di un lavoro, specifico o generale. Studenti e lavoratori, in questa prospettiva, devono essere permanentemente «occupabili», non occupati. Anche se la loro formazione continua e la loro continua e affannosa attivazione per rendersi occupabili non porta a nessuna stabilità e a nessuna realizzazione lavorativa e personale; anche se tale formazione e tale attivazione porta, il più delle volte, ad impieghi ancor più precari e ancor meno retribuiti. Così, mentre rinviano giorno dopo giorno le aspirazioni e i progetti dell’esistenza, studenti e lavoratori scoprono progressivamente che le promesse di autonomia, di indipendenza e di realizzazione di sé – propagandate dalle istituzioni e dalle agenzie formative, dalla comunicazione politica, dal sistema di comunicazione di massa, ecc… – finiscono solo per trasformarsi in auto-sfruttamento, in altro lavoro precario e casuale, in nuove forme di povertà. Ciò contribuisce inevitabilmente a generare e diffondere sentimenti di frustrazione e di solitudine, senso di inadeguatezza, reazioni di scoraggiamento e di sfiducia nei confronti dell’impegno politico e dello stesso futuro. E non solo. È nella trasformazione delle istituzioni formative in «cinghia di trasmissione» ideologica del lavoro flessibile e precario che vanno individuate le ragioni degli abbandoni e della dispersione scolastica (ragioni erroneamente cercate in una “scuola non all’altezza dei tempi”), nella misura in cui la formazione erogata da quelle istituzioni non è più fattore principale e decisivo per la formazione culturale e professionale, non è più garanzia di mobilità sociale, e non è più strumento valido per contrastare la crisi del senso della vita individuale e sociale tipica di questi tempi.

Nessun commento:

Posta un commento