giovedì 10 novembre 2011

E Marchen disse: il problema non è la fuga dei cervelli, ma la loro furia

Roberto Ciccarelli

Domenica scorsa ero a pranzo con la giornalista danese Marchen Gjertsen, 26 anni, già brillantissima inviata del quotidiano Information, (il giornale della sinistra danese in stile Libération) che oggi scrive per Jyllandsposten, il Corriere della Sera di Copenhagen.
Marchen è diventata una celebrità nel giornalismo danese dopo avere scritto ”Travestito da Nazi”, il racconto di una ragazza ventenne campionessa di nuoto infiltrata nel movimento nazista in Danimarca, dopo che un gruppo di fascisti avevano picchiato un suo amico. Il discorso, dopo che le ho mostrato il nostro libro “La furia dei cervelli“, è scivolato sulla italica “fuga dei cervelli”.

Per chi è stato all’estero per più di due giorni negli ultimi 10 anni, avrà senz’altro notato che questo è il discorso prevalente non solo, e non tanto tra gli italiani espatriati (quelli che se ne sono fatti una ragione e quelli che soffrono di malinconia per il paese del turismo più bello del mondo), ma soprattutto con gli stranieri, radicali e di sinistra. Dell’Italia queste persone conosco il meglio, e cioè la sua cultura filosofica, e i suoi migliori romanzi, spesso leggono e si esprimono in una lingua perfetta, alcuni hanno studiato a lungo nel nostro paese.

Per la prima volta in Italia, incuriosità dai racconti del suo compagno Nikolaj Heltoft, già attivista di Neurogreen e corrispondente del Manifesto da Copenhagen, Marchen mi ha detto che in Danimarca il problema è invece quello del “brain gain”. Sono troppo pochi gli informatici, i medici, i biologi, gli ingegneri e il paese di sua maestà, governato per la prima volta da una donna, ha deciso di avviare un’imponente operazione di importazione di cervelli da almeno tre continenti.

Mi sono chiesto se, in fondo, la fuga dei cervelli rappresenti la realtà materiale del Quinto Stato in Italia, oppure se ne solo uno dei suoi molteplici effetti. Ho dato un’occhiata alle statistiche. E ho scoperto qualcosa che non va. Con questa espressione, presa dall’anglismo “brain drain”, si è inteso negli ultimi 10 anni l’espatrio dei ricercatori universitari e, ultimamente, dei laureati. Secondo i dati ufficiali Anagrafe Residenti Italiani Estero: “Gli iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti Estero (Aire) di età compresa tra i 20 e i 40 anni hanno registrato un incremento (dovuto a un flusso in uscita dall’Italia) pari a 316 mila e 572 unità tra il 2000 e il 2010, con un ritmo di oltre 30 mila espatri l’anno.

A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, diciamo anche 30 mila, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. Almalaurea, infatti, che è il data base più attendibile su questi temi, non offre alcuna chiarificazione.

La “fuga” c’è, e si vede tra i laureati e tra i loro fratelli maggiori, e non viene compensata in maniera significativa dall’altro polo dell’equazione, stabilita dalla sociologia britannica in questi casi: non c’è il “ritorno” dei cervelli – che pure l’ex ministro dell’istruzione cercò di praticare con un’apposita legge dagli esiti ridicoli – e nemmeno l’acquisizione di”nuovi” cervelli stranieri, l’importazione dei quali è ridotta al minimo. Il “brain gain” italiano, ammesso che esista, è l’ultimo nella classifica dei paesi Ocse.

La mancanza dei dati o meglio, il loro uso parziale ed artificioso, ha autorizzato ogni forma di speculazione a sfondo politico. C’è chi, come la sinistra e i ricercatori precari, la usa per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito. E c’è chi l’ormai dimissionario ministro della salute Ferruccio Fazio il quale sostiene, a ragione, che la “fuga dei cervelli” in atto è “fisiologica” e quindi non esiste. E’ solo un altro tentativo per nascondere il fatto che i tantissimi che partono fuggono alla tagliola del precariato che ha distrutto il lavoro della conoscenza in Italia.

E chi resta?

Non c’è risposta a questa domanda, oggi, in Italia. Il Quinto Stato è un corpo morto, che non parla e non è nemmeno meritevole di una citazione. Resta in silenzio, se ne parla con compatimento per i 2,2 milioni di “giovani” inattivi (i Neet: quelli che non studiano nè lavorano), oppure con le storia strappalacrime dei ricercatori che non hanno una ricerca pagata (centinaia di migliaia). O più in generale con la retorica desolante, e fondamentalmente ipocrita, sul precariato. Una vita nuda destinata all’estinzione o all’implosione.

Alla fine del pranzo, nel suo inglese forbito, Marchen mi ha chiesto: e se il problema non fosse la fuga dei cervelli, ma la loro furia?

1 commento:

  1. Magari il problema fosse la furia, direi piuttosto che è l'esatto contrario. Magari la rabbia e la frustrazione si facessero furia, di quella bella, tosta, reale che sbatacchia le finestre e rovescia i cieli. Magari.

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