sabato 5 marzo 2022

Pasolini contro il potere. Il potere contro Pasolini

Roberto Ciccarelli

Un ritratto politico in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini


La catastrofe non è che tutto continui come prima, ma che non ci sia più un prima a cui tornare per sottrarsi ad essa. Era verso questo prima che avrebbe voluto dirigersi Pier Paolo Pasolini per opporsi alla dittatura del presente, racconta Pasquale Voza. Quel prima Pasolini non lo ha mai trovato, se non nei pochi anni felici della sua giovinezza friulana, sconvolta dalla morte del fratello in guerra, dalla cacciata dal Pci e dallo scandalo prodotto dalla sua omosessualità nella piccola Casarsa del Friuli.

Quel prima lo avrebbe potuto trovare a Rebibbia, lungo la Tiburtina che percorreva da povero tra i poveri nei fatiscenti autobus che caracollavano tra le borgate romane dei primi anni Cinquanta. La stessa che Giorgio Caproni, più tardi suo vicino a Monteverde, descrisse in un reportage sul Politecnico, parlando di Pietralata: “Malinconici agglomerati di piccole abitazioni hanno tutta l’aria di moderni lazzaretti”.

Tornare al prima


Pasolini cercava una “nuova preistoria”, ma trovò il destino di una solitudine disperata, arida e nevrotica. E incrociò la morte a cui portava la “disperata vitalità” di quelle presenze preistoriche: quella di Accattone, Ettore di Mamma Roma che spira sul letto di contenzione.



Il prima Pasolini non lo trovò in Africa o in Yemen, nel mito di Medea o di Edipo Re e nemmeno in quello di un mondo contadino, di cui a suo avviso faceva parte il sottoproletariato urbano, e della cultura popolare, di cui faceva parte la classe operaia. Un mito esiguo, in realtà, dettato dalla reinvenzione di un passato che non passa e resta sospeso nel tempo, abita i suoi involontari interpreti e si incarna in loro davanti agli occhi del poeta. Da questo prima popolato da oggetti del desiderio, non soggetti viventi Pasolini abiurò nel 1974 quando concluse la sua “trilogia della vita”: un'apologia letteraria della vita, e della sessualità, fuori dalla storia che non avrebbe più trovato spazio, nemmeno sotto forma di rappresentazione. La morte del prima Pasolini l'intese come fine della storia. Ma la storia continuava su un altro binario.


Il potere tollerante


La dittatura del presente, di cui parla Voza nel suo libro, è il presente senza uscita, il capitalismo nella sua attuale declinazione neoliberista. Questa è la catastrofe: il tempo dove, apparentemente, non esistono alternative in questa vita. Pasolini lo definì in vari modi: “l'ideologia reale del potere”, l'“edonismo del potere consumistico”. Nulla esiste al di fuori di questo potere, tutto è dentro il capitale. E chi ne è prigioniero, non ha salvezza. È soggiogato, sin dall'infanzia, alla volontà del potere totalitario. Assunto già disperante sul quale ha pesato una lettura acritica della scuola di Francoforte che lo portò a una concezione unilaterale dell'Edipo, del rapporto inestricabile di odio-amore con il padre fascista. Una visione paranoica del potere che lo indusse a parlare di un nuovo totalitarismo. Nel 1974 il “potere più totalitario che esista” aveva preso le sembianze della tolleranza. Scriveva:


“Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”.


Pasolini intuì il passaggio dal regime politico della “statalizzazione del biologico” a quello dell’imprenditorializzazione della vita. Nel primo regime la vita era considerata un supporto passivo a disposizione della produzione industriale, il contenitore di un valore prodotto dal lavoro ripetitivo e alienato e governato attraverso un rapporto di subordinazione; nel secondo la vita è considerata come un valore in sé - un capitale umano - e il suo titolare si impegna ad aumentare la ricchezza del suo patrimonio personale con un comportamento coerente con una scala di indicatori morali di natura performativa e produttiva. Ciò che negli stessi anni Michel Foucault definì nel 1976 la “biopolitica” della “governamentalità neoliberale”.


La “tolleranza” del potere, ovvero lasciar essere il soggetto da parte di un potere che addomestica e promuove, e non solo sorveglia e punisce, è un aspetto decisivo di questa “governamentalità”. Descriverlo come un “totalitarismo” è improprio. Un totalitarismo tollerante, o una tolleranza fascista, è una contraddizione in termini. Pasolini non considera la discontinuità tra il potere fascista e quello democratico dello stato di diritto costituzionale, né la differenza tra la “tanatopolitica” e la “biopolitica”. La sua tesi era giustificata dalle stragi di Stato, dalla commistione tra il potere democristiano e la manovalanza fascista, e non c’è dubbio che il “potere neoliberale” abbia fatto ricorso a una politica stragista. Ma in Italia non c’era la dittatura, semmai una politica dell’emergenza che fu usata anche contro i movimenti della sinistra. Questo errore di prospettiva dipende dall’interpretazione morale del potere che Pasolini considerava come un Grande Fratello che tutto conosce, e riduce a cosa, con la sua repressione. Ciò non toglie che egli avesse compreso la trasformazione della repressione: non più, solo, militare, ma culturale.



Anomalia 68


Pasolini parla in maniera ossessiva del movimento studentesco, cogliendone alcuni spunti, criticandone gli aspetti più infantili e ideologici, equivocandone grossolanamente gli obiettivi e l’ispirazione. Rimase del tutto estraneo al 69 operaio e sottovalutò le velleità di unificazione con gli studenti. Non coglie la rivolta di Corso Traiano a Torino, raccontata da Nanni Balestrini in Vogliamo Tutto. Al di là della mitologia della “classe operaia”, come parte di un “popolo” autentico, egli non è mai andato. Visse, ma non comprese, l'anomalia del 68 italiano che durò dieci anni.


In questo video emerge una singolare sottovalutazione dei movimenti sociali verso la fine degli anni Sessanta e un'analisi piuttosto schematica, mitologizzante e moralistica ricavata dal concetto impolitico di "rabbia". Concetto, quest'ultimo, tratto dalla cronaca del tempo quando si parlava di "arrabbiati" (nel teatro inglese con Osborne) o di "beatnik". Personaggi piuttosto diversi che Pasolini sublima in Socrate. Il Socrate è lui, non gli studenti o i "giovani" che sarebbero "borghesi" travestiti, o assoggettati a una tradizione rivoluzionaria tratta dalle memorie della resistenza definita un "concentrato di rabbia".



Queste analisi non sono la parte migliore del pensiero di Pasolini. Nella loro icasticità emerge un tratto moralistico e risentito usato dall'opinione pubblica più reazinaria quando si vogliono sanzionare i movimenti e i "giovani", categoria da sottoporre a una critica radicale in quanto concetto sociologico, e prodotto di mercato, non realtà o identità presupposta e ontologica come sostiene Pasolini.


Questi problemi emergono in maniera grandiosa nella poesia dello scandalo: Il Pci ai giovani! È un prodotto del suo populismo anni cinquanta e frutto di una pedagogia paternalista e tardo-illuminista che si manifesterà nella sua stagione “luterana” sul Corriere della Sera. Una “brutta” poesia l’ha definita lo stesso autore. È ricordata per l'“infame mantra” recitato da destre e benpensanti conformisti e pseudo-democratici ogniqualvolta la polizia picchia studenti e oppositori.


Poco più sotto del passaggio che destò le ire giustificate di Franco Fortini, quello dei poliziotti “proletari” contro studenti “figli di papà”, Pasolini consigliava ai giovani di occupare le sedi del Pci, ha ricordato WuMing1. Un'anticipazione del movimento del 77 quando era già avvenuta la rottura insanabile tra quel partito, e il sindacato, con quello strano movimento inclassificabile rispetto ai grotteschi canoni marxisti-leninisti del 68. Pasolini considerò solo la “mostruosità”, l'“infelicità”, del loro aspetto fisico, l'inespressività dei loro slogan, l'afasia dei ragionamenti politici. Perse qualcosa di molto più grande delle osservazioni da semiologo e corsivista provocatorio sui “capelloni” o sulle pubblicità dei mini-jeans per ragazza.


Femminismo e la nuova soggettività


Pasolini non capì il femminismo, ricorda Voza nel suo libro. L’articolo del 1974 contro l’aborto, considerato un omicidio, è una sassata contro il movimento, un attacco reazionario travestito da critica provocatoria al “laicismo consumistico”. Sono parole gravi che risuonano ancora oggi nella battaglia contro la libertà delle donne negli ospedali e nei consultori. Parole che rispecchiavano un’intolleranza di Pasolini rispetto alla disseminazione incontrollabile, individuale e collettiva, delle resistenze e delle eccedenze che ancora si ricordano – abbaglianti, potenti, quarant'anni dopo – di quel decennio. Il poeta aveva davanti agli occhi solo il Potere, con la maiuscola. Non vide la “disperata vitalità” di quelle generazioni che si opponevano ai poteri (della famiglia, del lavoro, del sindacato, dell'impresa fordista) e soprattutto il cambiamento decisivo del modo in cui si costituisce una soggettività: quella che parte dalla politicizzazione della vita quotidiana, attraversa la critica della separazione tra pubblico e privato, lotta contro la sussunzione della “personalità vivente” nella vita capitalistica.


Questa è l'eredità politica anti-capitalista di quei movimenti che oggi può essere giocata contro un potere che rovescia la libertà nel suo opposto, pur formalmente usandone il nome e le pratiche. La solitudine, anche culturale, in cui Pasolini si era rifugiato gli impedì di uscire dal suo marxismo ingenuo, prigioniero della maledizione di Croce e della separatezza dell'intellettuale-profeta rispetto alla classe e ai movimenti. Non percepì la presenza di una svolta etico-politica in quei movimenti di cui vedeva dall’alto solo gli aspetti massificati e anomici. E ancora non era arrivata la stagione delle armi, dell'auto-distruzione con l'eroina, delle prigioni e del riflusso.



Molte valutazioni di Pasolini sono state usate dal pensiero reazionario che condanna il 68 – epitome di tutti i movimenti sociali del Dopoguerra – a “falsa rivoluzione della borghesia”. La definizione si trova in un'intervista del 1973 a Gideon Bachmnann. L'estraneità di Pasolini al decennio di fuoco è scandalosamente palese. Mentre lui girava in Africa o in Medioriente Medea o Edipo Re, e poi la sua “trilogia della vita”, in Italia si registrava la più imponente avanzata della classe operaia. Se l'incontro tra la “nuova sinistra” e la classe è stato un fallimento, non si può dire che le soggettività operaie non risentissero dell'aria del tempo. Pasolini non comprese la svolta etico-politica che modificò a fondo la figura stessa dell'operaio, oltre che di quella più ampia che al tempo era definita “proletariato urbano”. Egli parla di corpi, non di soggettività. Il suo materialismo grezzo non coglie la dialettica dell'astrazione, né quella dell'individuazione della forza lavoro.


Il tratto reazionario


Uno dei motivi della popolarità di questa figura unica deriva dall'avere ridotto la dialettica tra astrazione e individuazione ai rapporti di filiazione padre-figlio. In tempi in cui il conflitto di classe è inteso come uno scontro tra generazioni, apartheid tra garantiti e non garantiti, scontro tra ricchi e poveri, il teatro edipico di Pasolini è quanto di più ricercato, ancora oggi. Questo approccio è un riflesso della resistenza che Pasolini oppose alla rivolta anti-edipica della sua stessa generazione. Il rapporto ossimorico di odio-amore con il padre, e il suo cattolicesimo preistorico, sublimato in un'antropologia insuperabile, gli impedirono di accedere al versante più critico del post-strutturalismo in psicoanalisi (Lacan e il discorso sui poteri). Nulla comprese della rottura di Deleuze e Guattari con il post-strutturalismo. Da filologo si attestò sulla linguistica strutturale e la praticò assecondando la moda dell'analisi semiotica. Il divenire era una questione linguistica. La vita era un fonema o un significante. Non potenza, istituzione, norme, conflitto.


Perso l'unico livello possibile per spiegare la rottura politica, oltre che epistemologica, avvenuta in quegli anni, per Pasolini i “giovani del 68” finirono per diventare “borghesi” protagonisti di una “rivoluzione “generazionale” che “serve al Moloch per avere più consumisti”. È la stessa posizione del marxismo-leninismo più becero dell'epoca, combattuto nei movimenti a cui si aggiunse l'inimicizia dei comunisti come Lama o Berlinguer che occultarono il senso di una rivolta sociale più ampia definendola “diciannovismo”. Borghesi e per di più fascisti “inconsapevoli”: erano i “giovani”, anche operai, e non solo ceto medio, per la cultura social-comunista. Pasolini è l'archetipo di questa incomprensione che continua quando, ancora da sinistra, come da destra, si intende il decennio 68-77 come il trionfo di una rivoluzione capitalistica, non come l'ultima linea del fronte di una resistenza che ha saputo anche creare una forma di vita.


Una censura, avvenuta per ragioni diverse, che portò il Pci, e la sinistra storica, alla tragedia e alla separazione definitiva dalla società presa da una crisi senza uscita. Quella stessa cultura social-comunista che, dopo il 1989, passò armi e bagagli al “nemico”: diventando più liberista dei liberisti di altre origini. Oggi si può dire che quel movimento fu l’unico ad avere ragione. Ma rimase solo e inascoltato.


“Lo scandalo del contraddirmi”


Già nel 1957, nelle “Ceneri di Gramsci”, Pasolini parlava dello “scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro di te”. E proprio quel Gramsci, opportunamente declinato, ma certo ancora del tutto incompreso dal togliattismo allora dominante, lo avrebbe portato a comprendere diversamente la sua contraddizione. Il Pasolini omosessuale, colui che portava lo scandalo nel suo corpo e nella sua sessualità, era molto più vicino alla critica della società etero-normata e patriarcale. La stessa critica della razionalità del dominio che portò Franco Basaglia a tracciare il processo di una rivoluzione, quella dell'auto-determinazione dei “matti”, e alla liberazione del governo della mente e del corpo, era l'altro volto della sua critica del potere.


Pasolini scelse di restare solo, non credeva né nelle riforme, né nelle rivoluzioni: “Detesto il mondo moderno – disse nel 1972 - l'unica cosa che può contestare globalmente la realtà attuale è il passato”. Pasolini era “connesso”, sia sentimentalmente che razionalmente, a quel “popolo”. Ne era un'espressione politicamente organica. Mancava il “principe”, e questo fu uno dei gravi problemi politici di quell’insorgenza. Avrebbe potuto “gettare il suo corpo nella lotta” molecolare che si affermava nella società italiana, e non solo. Lui stesso ne era il prodotto e la premessa. Avrebbe potuto trovare alleati, ma si sentiva “una forza del passato”. Quel mancato incontro fu una tragedia politica e culturale in una tragedia più grande.


Eppure lui c'era, pur senza capire. Sentiva, istintivamente, di essere parte di una parte:


“Una visione apocalittica, certamente, la mia – disse nel 1974 - Ma se accanto ad essa e all'angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare”.


Postura resistente

È, soprattutto, la postura di resistente di Pasolini, nonostante tutto e tutti, ad attrarre ancora oggi. Idealizzarla porta all'impotenza, perché il suo unico contenuto è il corpo del poeta e la sua disperazione. Bisogna però andare al di là del Pasolini-feticcio per comprendere come questa vita può essere usata per resistere. Resistenza a quel potere che egli intese, in modo schematico, nei termini di un potere disciplinare, ma di cui intuì la natura “biopolitica”. Doveva imporre la libertà, quel potere, attraverso la televisione, i consumi, l'uso ripetitivo della sessualità, la droga. In realtà, quella “tolleranza” non era un'imposizione: il soggetto sceglieva liberamente di essere libero di consumare e diventare prigioniero di se stesso, nella forma dell'“imprenditore di se stesso”, sosteneva Foucault nel 1977.


Foucault conosceva Pasolini e scrisse di lui già nel 1963 in un articolo sul film-documentario Comizi d'amore. Fondamentale per entrambi è stato il nesso tra potere e sessualità. Di questo nesso Pasolini aveva una cognizione “intuitiva”, lo concepiva attraverso il suo corpo, e lo restituiva in versi e immagini sempre più soffocanti fino al nichilismo omicida di Salò. Foucault aveva invece un pensiero sinuoso, critico e razionale. Tra il 1975, quando uscì Sorvegliare e punire, e il 1984 con La volontà di sapere, modificò la sua idea di potere: non più normalizzante (“totalitario” con la lingua di Pasolini), ma costituente. Pasolini cercava la verità del potere – e in esso vedeva la sua “anarchia”, ovvero la fine della distinzione tra legalità e crimine – Foucault ne vedeva gli effetti creatori: la sua “verità” non passa solo per categorie negative (follia, delinquenza, repressione), ma anche per categorie positive. La sessualità è una di queste. La libertà, un’altra.



L'aspetto distruttivo che Pasolini vedeva nel potere, al contrario per Foucault era “produttivo”. Per Pasolini il potere uccide. Per Foucault produce norme, relazioni. In Salò l'unica resistenza al potere-Moloch è quella del giovane Ezio, sorpreso a letto con una domestica nera, che alza il pugno mentre viene straziato dalla mitraglia dei fascisti. Per Foucault, la resistenza nasce dall'ostinata, e indocile, critica del soggetto, a partire da se stesso e dai ruoli di potere ricoperti. Una critica capace di formulare un'“ontologia critica di se stessi” il cui obiettivo è creare un'auto-determinazione del soggetto. La resistenza è un processo, non è un simbolo. Il suo obiettivo è “essere governata il meno possibile”.


Il confine del potere

Esiste una frase ne La vita degli uomini infami dove Foucault avverte un limite nella propria concezione del potere e propone un rimedio: “Qualcuno obietterà – scrive – rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta di collocarsi dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire”.

Superare la linea del potere significa raggiungere un terreno dove l’esistenza è già data, ma non il modo in cui essa è determinabile. Non lo può essere dal potere che non tutto può catturare. Bisogna, al contrario, parlare del potere partendo da un terreno che non è di nessuno, ma è di tutti. Con la storia della sessualità e quella della verità in Grecia, a Roma e nel primo Cristianesimo, Foucault cambiò impostazione e, invece del potere in quanto tale, iniziò a interrogare l’etica e il suo rapporto con la politica. Questo è tanto più vero nelle società neo-liberali dove il potere coltiva la libertà, mentre i soggetti possono sviluppare un’autonomia che è anche il luogo di una contestazione possibile.


Più che profeta, testimone o sociologico Pasolini andrebbe considerato un poeta con intuizioni politiche profonde, nate da una capacità fuori dal comune di comprendere le relazioni e le loro prospettive. La sua poetica intrisa di malinconia per le origini e l'autentico contempla anche la possibilità di considerare la vita come mezzo di se stessa e, non oggetto di un potere. Per questa ragione, diventa il modo di una contestazione possibile. Senza referenti trascendentali, né morali. Pronta a essere investita, con la violenza che ha connotato la vita scandalosa di questo uomo, solo disperatamente con il suo corpo. Questa vita è comune, molto di più di quanto si creda.


*** Pubblicato su Lavoro Culturale il 27 febbraio 2017, recensione al libro di Pasquale Voza: Pasolini e la dittatura del presente (Manni).

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