giovedì 25 marzo 2021

Per Gianni Ferrara, “europeo scontento”, in Memoriam


Peppe Allegri

È oramai oltre un mese che il Professor Ferrara, Gianni Ferrara (1929-2021), tra i grandi maestri del diritto pubblico e costituzionale del lungo secondo Novecento italiano ed europeo (non devo certo dirlo io), ci ha lasciati, ed è ancora faticoso pensare che non sentiremo più la sua voce profonda, il suo sorridere spesso caustico, il suo rimbrotto continuo contro le ingiustizie del tempo presente, seppure fosse già da un po’ che non riuscivo ad incrociarlo personalmente. Per questo, un poco a fatica e in ritardo, vorrei ricordarlo, sicuramente in modo troppo egoistico, lo premetto, per non lasciar sfuggire dalla mia memoria quella sua presenza “irrequieta”, come l’ha giustamente definita Gaetano Azzariti nelle poche parole che siamo riusciti a scambiarci alla notizia della morte del Professore. 



Perché per me l’incontro con Gianni Ferrara avviene nel periodo forse più bello di ciascuna formazione, a ridosso tra università e dottorato, nel trambusto dei miei venti e passa anni e dello scorcio dei secondi anni Novanta del Novecento, da provinciale da poco giunto a Roma. In quegli anni era uscito Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (SugarCo, 1992), forse uno dei più bei libri di Antonio Negri (per lo meno insieme a Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Leopardi, SugarCo, 1987, stesso editore e sottotitolo simile), che avevo avidamente letto e commentato con l’altro grande maestro Angel Antonio Cervati. 


E in uno dei molteplici incontri nei corridoi dell’allora Istituto di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza di Sapienza di Roma incrociai il Professor Ferrara che alla vista del libro, che portavo sempre sottobraccio tipo breviario – o “catechismo per un costituzionalista (sedicente, anche rivoluzionario, sempre sedicente) in erba”, una sorta di ossimoro vivente – mi fermò e mi persi, io imbranato, impreparato epperò entusiasta, nel suo racconto dell’incontro e del confronto con Negri, a partire dal loro comune concorso sassarese, «bandito nel 1965 e conclusosi nel 1967 per la Dottrina dello Stato con l’individuazione della terna Antonio Negri, Gianni Ferrara, Antonio Pigliaru [la commissione era composta da Giorgio Balladore Pallieri (1905-1980), Giuseppe Cuomo, Giuseppe Ferrari (1912-1999), Giuseppe Guarino, Enrico Opocher (1914-2004)]», come ha sapientemente ricostruito Fulco Lanchester nel suo coinvolgente Ricordo di un “partigiano” della Costituzione, Forum di Quaderni Costituzionali Rassegna, 1/2021. E ritornavano anche qui i Maestri: Enrico Opocher per Negri, Giuseppe Guarino (1922-2020) per loro due, Ferrara e anche Negri direi, come ho provato a raccontare in Giuseppe Guarino riformatore radicale e disincantato. 


Diritto costituzionale vivente e materialismo costituzionale?


Fu quello l’inizio di continui consigli, mòniti e spesso rimbrotti che cominciarono con il tenere un po’ a freno “il giovane negriano” (così mi definiva) che in parte ero e che poi culmineranno nel re-incontro comune con Negri che avemmo nell’allora libreria de il manifesto, nella sede storica di via Tomacelli (un tempo di Mondo Operaio, come ricordavano entrambi nella comune formazione socialista), quando lo stesso Professore padovano, dopo il ritorno in Italia, in carcere per scontare la pena rimanente frutto amaro del celebre e contestato processo denominato 7 aprile, poté cominciare ad uscire durante il giorno e un pomeriggio del passaggio di Millennio ci raggiunse in una presentazione lì organizzata, con scambi di ricordi tra chi non si vedeva da oltre un ventennio. Perché l’altro punto di contatto con il Professor Ferrara fu proprio il manifesto dove anche lì si formò una sorta di gioco delle parti, soprattutto intorno all’evoluzione della questione europea, del processo di integrazione continentale e dell’evolversi – per me – dei nuovi movimenti sociali globali, in particolare in Europa, a fronte dell’involuzione – per il Professor Ferrara – di un’effervescenza sociale che riteneva si perdesse dietro a interpretazioni e “derive post-moderne” e troppo attente alla giurisprudenza invece che alla sacrosanta “lotta per il diritto e per la Costituzione”. 


Così, con la voce roca e spesso oltremodo sarcastica, ecco il Professor Ferrara con quell’«e tu Allegri mi stai diventando europeista, con questa esaltazione degli spazi dei movimenti in Europa: ma quali spazi, quali movimenti e, soprattutto, quale Europa?». Effettivamente una cesura che mai fui in grado di recuperare e che comportò molti mancati dialoghi, ripensandoci anche ora, a vent’anni dall’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (dicembre 2000, a Nizza), forse troppo semplicisticamente polarizzati in una ricostruzione non del tutto veritiera tra “euroentusiasti” ed “europessimisti”, quando avrei dovuto meglio intendere l’esistenza di storici conflitti costituzionali e democratici nei diversi livelli di governo che avrebbero dovuto spingerci a contrastare insieme la lettura dello spazio continentale solo nella sua svilente dimensione economicistica, come veniva proposto dal dibattito pubblico dominante. Il diritto costituzionale vivente contro la dismal science, la scienza triste? Un interrogativo tuttora aperto. 


E qui emerge uno dei grandi insegnamenti del Professor Ferrara, quello di porre le sue riflessioni nella prospettiva storica, piuttosto che appiattendole sulla cronaca, rendendole perciò “inattuali” – come ha giustamente osservato Gaetano Azzariti (L’appassionato avversario della letteratura rosa dei colleghi giuristi, in il manifesto, 23.02.2021) – quindi anche estremamente potenti nella capacità di fondare, a partire dal passato, un materialismo costituzionale, ammesso sia possibile definirlo così, dirompente sul presente. Così questo ci portò a una discussione intorno al formidabile Michael Kohlhaas (1810) di Heinrich von Kleist, riletto sempre sotto il consiglio di Cervati e da poco visto in una magistrale rilettura teatrale di Marco Baliani, e poi a proposito del classico libro di Rudolf Jehring, La lotta per il diritto (1872), nella versione Laterza sempre con l’avvertenza di Benedetto Croce (del 1935, che io avevo nella splendida edizione del 1960, introdotta da Pietro Piovani), che cita il Kohlaas, quindi il caveat crociano datato nei tremendi tempi del 1934, «abbiamo pensato di ripresentare ai lettori italiani lo scritto di Jhering, sembrandoci utilissimo a rinvigorire la coscienza del diritto, assai sconvolta e depressa generalmente nel mondo odierno», e il passaggio che mi permise di aprire con il Professore, purtroppo solo parzialmente, il capitolo su Napoli, città nella quale si era formato, tra il liceo e l’università. 


Le lotte per il diritto, i diritti, la Costituzione  


Quel capitolo fu condiviso da me con Gianluca Bascherini, con il quale venivamo apostrofati dal Professor Ferrara come «quei due nemici del popolo in combutta» (toh, Ibsen!), per un nostro misto di sconclusionato movimentismo diffuso, una certa approssimativa propensione al passeggio nei corridoi dell’Istituto e nelle viuzze della città universitaria, quindi una permanente occupazione della saletta fotocopiatrice del già ricordato Istituto di diritto pubblico, nostra casamatta, “fortezza Bastiani”, finestra sul mondo del costituzionalismo, prospicente alle scale dove fumare e vaneggiare sulle fotocopie appena fatte di testi ingialliti, polverosi epperò scintillanti di Romagnosi, Compagnoni, Casanova, Palma, Brunialti e la sua Biblioteca di scienze politiche, quindi Vincenzo Cuoco e i “giacobini napoletani”, Vincenzio Russo, Mario Pagano e la nostra amata Eleonora de Fonseca Pimentel. 


E proprio studiando e leggendo Cuoco, cosa che avevamo intrapreso sotto la sapiente guida del Professor Cervati, scrivemmo con Gianluca l’articolo che dedicammo al Professor Ferrara negli Scritti in suo onore, per esplicitare quel suo insegnamento a intendere la storia costituzionale e del costituzionalismo come una bussola insostituibile per orientarsi nelle trasformazioni istituzionali, politiche e sociali che viviamo. Per stare nei conflitti, appunto, nelle lotte per il diritto, i diritti e la Costituzione, come spesso mi è capitato di ricordare anche a occasionali studenti e studentesse, proprio citando gli insegnamenti di Gianni Ferrara.


Napoli 1799 e Campania Felix


E l’altra cosa, l’ultima, che in quegli anni rimase sospesa con il Professore, fu intorno agli effetti successivi al 1799 napoletano, a quell’esperienza al contempo entusiasmante di sperimentazione istituzionale e di brutale repressione di un’intera generazione da parte della reazione sanfedista, e alle poche parole che ci scambiammo intorno a L’armonia perduta (1986) di Raffaele La Capria che in realtà io scoprivo in quegli anni entusiasmandomi (nella versione Rizzoli del 1999) e che mi sembrava toccasse un tema forse troppo caro a Gianni Ferrara, intorno a Napoli, dove arrivò dalla provincia e dalla quale andò via già a metà degli anni Cinquanta. 


Epperò questa frase che La Capria riferiva a sé stesso, in L’armonia perduta, nell’interrogare il modo per guardare la realtà, a partire da quella napoletana, ho sempre pensato che avrei voluto leggerla e commentarla con il Professore, a proposito del Professor Ferrara, “europeo scontento”, ironico e critico, certo non borghese napoletano, ma di origini provinciali (la dura Terra di lavoro, che però fu Campania felix), come il meglio di questo Belpaese, anche nelle città, e alla cui memoria trascrivo qui, con molto rammarico da parte mia per non aver approfittato di una condivisione in vita: 


«per afferrarla [la realtà ndr] ci voleva un altro sguardo, che partisse dal basso e non dall’alto, decentrato e non paternalistico, ironico e non scettico, critico e non patetico: lo sguardo di un borghese napoletano, che fosse anche un “europeo scontento” (e tale mi ritenevo), a quel livello di coscienza e di cultura, insomma, e con quelle esigenze».

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