domenica 1 maggio 2022

1 MAGGIO: GENEALOGIA DI UNA FESTA CONTRO IL LAVORO



Il quarto stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo è in mostra nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze dal primo al 30 giugno 2022. Acquisito dal Comune di Milano nel 1920, grazie a una raccolta fondi promossa dal sindaco socialista Emilio Caldara, Il quarto stato è stato esposto a Palazzo Marino, alla Galleria di Arte Moderna e dal 2010 è custodito al Museo del Novecento di Milano.  «Il quarto stato ritrae i lavoratori come un nuovo soggetto politico che con la rivoluzione industriale si affaccia potentemente e che inizia a richiedere una dimensione di futuro. Se dovessimo dipingere quel quadro oggi dovremmo farlo in modo molto diverso, con vestiti diversi, con colore di pelle diversi ma le ragioni per dipingere quel quadro ci sarebbero ancora. Credo che ci siano molte ragioni per dipingere quel quadro ma oggi è molto più difficile dipingerlo. Ma ci sono ragioni profondissime per ridipingere un quadro come quello» ha detto il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, intervenendo all'inaugurazione della mostra. 




L’idea di creare una nuova immagine generale della forza lavoro nel XXI secolo non è nuova. Dal punto di vista iconografico i risultati sono stati più che deludenti. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che si cerca di riprodurre il populismo di Pellizza di Volpedo sostituendo i contadini del dipinto originario

con le figure idealtipiche più attuali di una forza lavoro atomizzata, anomizzata e povera. Si sono viste anche installazioni che hanno rappresentato un quarto stato con tute di metalmeccanici vuote, nel senso che erano rimaste solo le tute e non le persone che le indossano. Non più dunque la fine della classe, ma persino la fine degli individui che sono scomparsi.


In questo desolante immaginario, frutto di una cultura dei dominanti che legittima la riflessione sull’impotenza generalizzata condivisa peraltro da gran parte degli osservatori, si sono registrati diversi tentativi di descrivere la nuova realtà della forza lavoro come l’esito di una sommatoria di identità preformate, perlopiù ricavate dalla cronaca e dalla sua rappresentazione, e di strati sociali che  formano insieme lo stato generale degli esclusi dal contratto di lavoro a tempo indeterminato e dei subalterni nel rapporto di lavoro salariato.


Questa idea ha replicato antiche incomprensioni e i limiti sempre attuali della sociologia della stratificazione sociale che ha sempre confuso l’idea della classe sociale con la sommatoria dei soggetti che la comporrebbero in un dato momento. Così facendo, ieri come oggi, si tende a spoliticizzare il principale significato di “classe”, sia nel suo antico significato di alleanza tra lavoratori dell’industria e quelli dei campi, che in quello più attuale sollevato da un amplissimo dibattito internazionale, perlopiù sconosciuto in Italia e comunque sottovalutato a causa del classico argomento neoliberale prevalente: non esistono più le classi sociali, il lavoro è destinato a finire e ad essere sostituito dall’automazione digitale e robotica, la lotta di classe è finita con la fine della storia (cioè l’avvento della globalizzazione neoliberale dopo il crollo del Muro di Berlino). 


Una volta negata la possibilità di una politica di classe che emerge da una società presentata come una totalità chiusa in se stessa, e per di più priva di soggettività e annientata politicamente, i tentativi di riattualizzare il quarto stato si sono concentrati su una sua evoluzione in un “quinto stato” che sarebbe il risultato della somma di tutti precari esistenti. L’ultimo ad avere cercato di realizzare tale operazione è stato, ad esempio, Maurizio Ferrera in un libro intitolato Quinto stato. 

In questo caso il quinto stato come «precariato» è stato considerato equivalente a uno «strato sociale» che si aggiunge a quelli già definiti del clero, borghesia, lavoratori e rendita. Il «quinto stato» non raccoglie giovani precari, partite Iva e immigrati. È difficile che soggetti così eterogenei condividano in maggioranza l’appartenenza a un gruppo («strato sociale») prodotto dalla mancanza di un contratto di lavoro subordinato (il «precariato»). In realtà, il precariato attraversa tanto il terzo stato della borghesia, quanto il quarto stato dei lavoratori. Tra gli immigrati possono esistere lavoratori a tempo indeterminato e persone che accedono molto difficilmente a un lavoro, sia pure precario. È anche difficile definire il lavoro autonomo delle partite Iva proletarizzate negli stessi termini del lavoro dei precari privi di un contratto di lavoro. Svolgendo attività diverse, i freelance non hanno un contratto di lavoro. Non perché non gli sia riconosciuto, ma perché hanno la partita Iva.


È possibile immaginare che un precario diventi autonomo, e viceversa, senza trascurare la possibilità che la stessa persona possa svolgere lavori di tipologie diverse allo stesso tempo, nel corso della sua vita. Ma se restiamo alla divisione del lavoro attuale è difficile che un lavoratore autonomo possa identificarsi in un contratto di lavoro che non lo riguarda, né preoccuparsi del fatto che non lo possiede. Semmai può maledire una società costruita, almeno idealmente, su un modello di cittadinanza che lo esclude perché non rientra tra i formalmente «garantiti».


C’è il rischio di considerare tutti gli autonomi come «false partite Iva», lavoratori subordinati mascherati da partita Iva. La questione esiste ma, va detto una volta per tutte, anche a sinistra, che questo non è il problema principale del lavoro autonomo non imprenditoriale. Parliamo dei bassi compensi, di un sistema previdenziale che penalizza all'inverosimile lavoratori precari e poveri o le partite Iva "Non affluenti", dell’inesistenza di garanzie e di un welfare, dei problemi della formazione o dell’accesso alle professioni. Una volta affrontati si capirebbe come il problema del reddito, della previdenza e delle tutele universali della persona, siano comuni a tutti, al di là del lavoro svolto.


L'impostazione derivante dalla sociologia della stratificazione sociale, e dalla rappresentazione di una società risultato della somma degli esclusi, va sottoposta a un profondo ripensamento storico. E' quello che abbiamo iniziato a fare in un libro del 2013, anch'esso intitolato Il quinto stato, che fa parte del percorso collettivo che ha dato vita anche a questo blog. Qui riproponiamo uno dei capitoli che hanno composto una prima genealogia i cui esiti sono molto diversi dall'impostazione fino a qui descritta.

(R. C.)

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Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli

La posizione del quinto stato un tempo era occupata esclusivamente dal lavoro domestico delle donne, fenomeno rimasto invisibile fino all’ascesa del femminismo e alla trasformazione postfordista della produzione capitalistica. Questa situazione è presente, in maniera evidente eppure marginale, nel dipinto di Pellizza da Volpedo, oltre che in buona parte dell’iconografia sul movimento operaio prodotta in Europa negli stessi anni. Nella prima fila dei contadini spunta una donna che regge un bambino tra le braccia. La singolarità dell’azione della donna rappresentata da Pellizza allude alla sua solitudine rispetto alla classe lavoratrice che procede compatta, mentre lei segue una traiettoria indipendente. Arriva nel corteo dall’esterno, si unisce ad esso. Al termine della manifestazione, si separerà dagli uomini che torneranno nei campi o nelle officine, mentre lei riprenderà ad accudire il bambino o a preparare la cena per il marito. La donna incarna il quinto stato, una condizione singolare che attraversa quella del quarto stato che nel quadro di Pellizza viene rappresentato come un tutto omogeneo.



Questa potrebbe essere una delle storie raccontate in un quadro ispirato all’umanesimo socialista, capace di riconoscere la dignità della donna come persona, ma non ancora la sua libertà dal destino assegnatole dalla società patriarcale: svolgere una serie di attività non retribuite (lavoro di cura, gestione della casa, dedizione alla famiglia), «naturali» come la procreazione, alle quali la donna è stata tradizionalmente destinata da tutte le società, non solo da quella del lavoro salariato. Pellizza denunciava anche un altro aspetto della condizione femminile, il suo sfruttamento selvaggio nelle fabbriche e nei campi. Sempre nel 1902, la legge 242 cercò di regolare questi abusi con esiti a dir poco contestabili: alle puerpere veniva risparmiata la schiavitù di lavorare fino a quindici ore al giorno, ma si disponeva che tornassero al la- voro dopo il periodo di maternità e allattamento.


Il quinto stato è un concetto ricorrente sin dall’unità d’Italia. Tra i primi ad averlo usato, il deputato socialista Salvatore Morelli. Per lui il quinto stato esprimeva la necessità dell’emancipazione delle donne dal punto di vista intellettuale, lavorativo e sociale. Lo stesso concetto oggi permette di sottolineare come la mobilità e la polivalenza, la multiattività e l’impegno che non ha confini di tempo e dedizione nel lavoro femminile siano diventate le caratteristiche strutturali del lavoro indipendente. Le attività dei precari, come degli autonomi, rispecchiano molto spesso la logica sacrificale che è un portato culturale del lavoro femminile sin dai tempi di Morelli o di Pellizza. Nel frattempo, il lavoro affettivo, di cura, così come tutte le attività legate alla sfera della riproduzione sociale, ha conquistato un ruolo di primo piano nella nostra società anche se continua a non figurare tra le attività produttive, o al limite a essere considerato un’operazione marginale degna solo di una ricompensa simbolica.



A questo proposito si parla di «domesticazione» (domestication) del lavoro. Se il quarto atato distingueva lo spazio del lavoro (la fabbrica, l’ufficio) dalla vita privata del lavoratore, il quinto stato fa l’opposto: la distinzione tra vita privata e produttiva sfuma progressivamente e mette la vita al lavoro in modo permanente e indiscriminato. Non esiste più un orario di lavoro perché il lavoratore indipendente è sempre al lavoro. Ogni istante del suo ciclo vitale può essere utile per ottenere un guadagno, un contatto, una prospettiva, una commissione o un nuovo contratto, oppure per curare gli affetti o crescere i figli.


Il passaggio dal quarto al quinto stato non andrebbe inteso come una successione meramente cronologica, bensì come un processo puntuale che avviene su differenti piani e permette la coesistenza di diverse condizioni nella stessa forma di vita operosa.


Essa dovrebbe essere valorizzata in base alle relazioni, ancora prima che all’appartenenza professionale. Questo avviene solo in via formale, perché, nell’economia postfordista, al lavoro delle relazioni non sono quasi mai riconosciuti un reddito dignitoso, una tutela sociale o una garanzia istituzionale.


L’enorme dispendio di energia da parte dei singoli non prevede nemmeno una restituzione simbolica se non quella ottenuta nella negoziazione privata con il committente, pubblico o privato. Questa situazione è particolarmente sentita nei settori principali del «terziario avanzato» (istruzione, sanità, assistenza), lì dove oggi si concentra la parte più qualificata del lavoro femminile, e ricorre anche in molti altri settori produttivi. Si parla di «femminilizzazione del lavoro» perché i lavoratori nomadi, precari, autonomi si ritrovano nella condizione in cui le donne operano nelle società più tradizionali, compresa quella del lavoro salariato. La femminilizzazione non ha cambiato affatto la condizione materiale delle donne. Sono loro a essere maggiormente colpite dalla crisi, insieme ai più giovani. Il tasso dell’occupazione femminile regolare non raggiunge in Italia il cinquanta per cento ed è di dodici punti percentuali sotto la media UE, mentre al Sud è di ventuno punti inferiore.


Tanto più dunque il lavoro indipendente si fa adattativo e oblativo, risponde cioè alle caratteristiche storicamente attribuite o imposte al lavoro femminile, tanto meno esso è valorizzato. Un caso è il ricorso al volontariato nel lavoro sui social media (blog, Twitter o Facebook), alle attività degli stagisti o dei tirocinanti da parte delle aziende.


Non parliamo di un’eccezione relegata a un genere o a un’età anagrafica, ma della regola nella produzione culturale, nei servizi, nel lavoro affettivo, o di cura, valida per tutti coloro che sono impegnati in questi settori. Il lavoro gratuito, e la coazione ad accettarlo in mille forme diverse, oggi purtroppo costituisce una costante.





Il quinto stato non è solo il risultato di uno sviluppo storico che ha generalizzato quanto di peggio ha prodotto il lavoro salariato. Il fatto che sia stato identificato da più di un secolo nella condizione delle donne, e che oggi esprima le principali caratteristiche del lavoro indipendente, rivela un altro aspetto del processo in corso: ciò che conta non è il lavoro inteso come prestazione esclusiva a favore di un datore di lavoro, ma l’esperienza di un’attività, la singolarità dei vissuti dei lavoratori, la capacità di rivendicarli, il virtuosismo nelle relazioni, l’autonomia individuale. Anche se raramente ciò viene ammesso, salvo nei casi in cui queste caratteristiche tornino utili all’immagine di un’azienda o per una campagna pubblicitaria, questa è un’altra caratteristica che accomuna il lavoro delle donne a tutto il lavoro indipendente.

Ne è consapevole una branca del marketing aziendale, il diversity management, che valorizza la «diversità» del personale gay o lesbico, il «valore aggiunto» rappresentato dalle donne, dalle persone «diversamente abili», talvolta anche dai migranti, per rendere più accattivante il logo di un’impresa o di un’opera di volontariato. Le qualità di una persona, il suo orientamento sessuale, le sue esperienze personali e competenze di lavoro accumulate sono determinazioni della vita dei lavoratori indipendenti. Vengono considerate «capitale umano», cioè una misura astratta e calcolabile per stabilire il valore di un lavoro e quindi quello di una persona. Vendere la propria singolarità, sottolineare quanto la differenza sia redditizia e convenga tanto a chi lavora quanto a chi investe, questo è il dispositivo in cui si vive oggi.

Bisogna invece individuare una nuova forma universalistica di protezione che non imponga la misura astratta di un contratto unico alla forza lavoro, né una differenziazione in- controllabile tra le tipologie e le prestazioni lavorative. Il reddito di base è senz’altro una di queste soluzioni, e molte altre misure garantiste potrebbero seguirlo, a condizione di non introdurre un nuovo obbligo che costringa il singolo ad accettare un lavoro qualsiasi, una formazione o una riqualificazione professionale in cambio di un sussidio. Lì dove è accaduto, come in Germania con la legge Hartz IV, lo Stato ha guadagnato un nuovo strumento di ricatto su un esercito di precari, sottopagati e schiavi di un workfare moralistico e padronale.


Immaginiamo, invece, un sistema che accetti l’idea per cui ogni attività operosa sia l’espressione di una singolarità umana non riproducibile. Questo è uno dei portati più significativi delle lotte delle donne: è necessario valorizzare quanto di più virtuoso esiste oggi nel lavoro, le potenzialità di ciascuno, in altre parole la condizione universale operosa degli esseri umani che non può essere limitata alla mera esecuzione di una mansione lavorativa, come accadeva nel quarto stato, o al possesso di uno specifico contratto di lavoro, come invece accade nell’epoca della precarietà.


La condizione del quinto stato non può essere circoscritta all’appartenenza a un ordine o albo professionale, a un ceto professionale-manageriale, oppure a una classe di esperti o di imprenditori. Il quinto stato è l’espressione di una condizione presente tanto nel lavoro operaio, intellettuale, artigiano o creativo, quanto in altre appartenenze di genere o sessuali, familiari o individuali. Per questo il quinto stato non può essere considerato l’evoluzione storica di un’identità come il movimento operaio, bensì il divenire dell’esperienza dei singoli che oggi condividono la stessa condizione. Una donna, un uomo, un gay o una lesbica, un migrante oppure un italiano, un operaio o un impiegato, una lavoratrice autonoma o precaria, sono l’espressione di una vita attiva che percorre condizioni lavorative o produttive, scelte individuali, status o appartenenze a classi sociali diverse. Il suo obiettivo è tutelare e promuovere l’autonomia dei singoli e dei molti.

Dall’esperienza delle donne apprendiamo che il quinto stato ha attraversato – in maniera a volte tacita, altre volte esplosiva – tutti gli stati precedenti. Esso ha segnato irreversibilmente le attività operose degli esseri umani spinti a scegliere la strada dell’autogoverno o dell’autogestione per resistere all’esclusione provocata ieri dalla società del lavoro salariato, e oggi dalla società della precarietà. Questa consapevolezza non basta a fermare i conflitti tra i membri del quinto stato, né a far maturare la coscienza di una condizione comune.

Il quinto stato si inserisce dunque in un dibattito più che secolare. Questa condizione non è identificabile nel «precariato» considerato equivalente a uno «strato sociale» che si aggiunge a quelli già definiti del clero, borghesia, lavoratori e rendita. Il «quinto stato» non raccoglie giovani precari, partite Iva e immigrati. È difficile che soggetti così eterogenei condividano in maggioranza l’appartenenza a un gruppo («strato sociale») prodotto dalla mancanza di un contratto di lavoro subordinato (il «precariato»). In realtà, il precariato attraversa tanto il terzo stato della borghesia, quanto il quarto stato dei lavoratori. Tra gli immigrati possono esistere lavoratori a tempo indeterminato e persone che accedono molto difficilmente a un lavoro, sia pure precario. È anche difficile definire il lavoro autonomo delle partite Iva proletarizzate negli stessi termini del lavoro dei precari privi di un contratto di lavoro. Svolgendo attività diverse, i freelance non hanno un contratto di lavoro. Non perché non gli sia riconosciuto, ma perché hanno la partita Iva.

Il problema dell’identificazione del quinto stato, e della confusione con uno dei suoi aspetti, riscontrato in questo libro di Ferrera non è nuovo. È emerso nel 1960 quando Salvatore Valitutti identificò il quinto stato in una categoria della stratificazione sociale: i giovani. Ferdinando Camon scrisse un romanzo omonimo sui contadini, mentre nel 1968 Wolfgang Kraus lo identificò con i lavoratori dei servizi del terziario avanzato. Poi fu il turno dei lavoratori della conoscenza (il «cognitariato») e dei freelance a partita Iva.


Il quinto stato è la forma assunta dalla crisi dagli stati precedenti, non è un altro gruppo che si aggiunge alla piramide sociale esistente. Questa condizione attraversa le categorie, ma non è assimilabile a uno dei loro strati. È incollocabile nelle gerarchie, anche se è presente tra le loro parti. Accomuna i cittadini apolidi in patria e gli stranieri extraterritoriali in uno Stato. Insieme formano la comunità dei senza comunità, quella che possiede solo la sua forza lavoro: la facoltà di creare tutti i valori d’uso della vita, prima ancora del capitale.

Parlare oggi di quinto stato significa riscoprire una storia del concetto di «classe». La genealogia realizzata già nel 2011 nella Furia dei cervelli, e nel 2013 nel quinto stato (e la ricerca continua), può riservare sorprese a chi, marxianamente, ha seguito il consiglio dello storico inglese Edward Thompson il quale, in Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, scrisse: «la classe operaia è plurale». All’origine si parla di classi operaie. Oggi, più che mai, parlare di quinto stato significa evidenziare la molteplicità della forza lavoro e la sua irriducibilità alle categorie del lavoro produttivo del capitale.

Questa storia inizia con l’epica rivolta delle «classi pericolose» contro le servitù del capitalismo industriale. Erano i lavoratori salariati e indipendenti, insubordinati al lavoro sotto padrone, che non si rassegnavano alla vita della borghesia emergente e immaginavano il mondo alla rovescia, come già fecero i movimenti rivoluzionari del Seicento inglese, gli irriducibili della Rivoluzione francese e dei proletari dell’Ottocento raccontati da Jacques Rancière nel libro La nuit des prolétaires. Questa è la storia dell’altro movimento operaio raccontata da Karl-Heinz Roth, e da Sergio Bologna. Non va dimenticato che il quinto stato è stato associato all’emancipazione delle donne e alla lotta contro il patriarcato, la violenza maschile e il capitalismo già nel 1880. Lo scrisse il deputato socialista Salvatore Morelli che anticipò, con i suoi strumenti, la potenza dei movimenti femministi.

Il quinto stato è una categoria della liberazione dove il lavoro non è anteposto ai conflitti sulla razza, il sesso o l’ambiente. Usarla significa prospettare un «divenire co-rivoluzionario» (David Harvey) dei differenti soggetti dell’oppressione.


Sulla strada
di questa rivoluzione delle mentalità sono già avviati i femminismi intersezionali, l’ecologia politica, il marxismo. Ciò che a questo dibattito può dare la ricerca sul quinto stato è l’idea che la storia della «classe» non è il prodotto della condivisione della precarietà, non è la somma delle categorie del lavoro subordinato atipico o la conseguenza del possesso di un contratto di lavoro. La «classe» emerge quando la forza lavoro conquista un’autonomia politica dalla divisione del lavoro e dai rapporti di potere che dividono la società in governati e governanti, proprietari e non proprietari.

Può non riuscirci, com’è evidente al momento, ma ciò non toglie che il problema di chi lavora e non lavora non è quello di chiedere di integrarsi in un mondo dove non ha spazio, ma quello di rovesciare questo mondo in cui viviamo in esilio. Da cosa? Dalla vita.

***Leggi Il Quinto Stato

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