sabato 19 novembre 2011

UNA FINESTRA SU TQ

Silvia Jop per il lavoro culturale


Negli ultimi mesi il dibattito attorno allo stato di salute del lavoro culturale in Italia sta producendo importanti spazi di incontro tra realtà molto differenti. Siamo entrati in una stagione caratterizzata dal paradigma “corpo-rete-corpo” dove i punti di incontro e confronto tra diverse soggettività diventano gli epicentri delle nuove relazioni. Se infatti uno degli aspetti più significativi di queste reti è l’eterogeneità delle formazioni, delle professioni e delle condotte di chi vi partecipa, va anche osservato che l’origine di questi contatti sta in un insieme di comuni necessità e volontà che finiscono per costruire nuove piazze. In questo senso la battaglia per i Beni Comuni, cominciata con il referendum sull’acqua e continuata per molti con l’occupazione del Teatro Valle, ne è testimonianza lampante. Si è quindi prodotto un nuovo vocabolario dal quale, in tanti e differenti, si sta ripartendo allo scopo di ridefinire semantica e sostanza del quotidiano. Pensiamo dunque che sia importante creare uno spazio di dialogo critico e periodico con alcune delle realtà che stiamo incontrando tra la rete e il corpo attorno a comuni ambiti di riflessione pur non condividendone sempre le posizioni.

Apriamo oggi una finestra su TQ, il movimento dei lavoratori della conoscenza dell'industria editoriale, affidata all’intervista di Roberto Ciccarelli, giornalista collaboratore del Manifesto e membro TQ. Ripercorrendo il momento fondativo del Movimento di lavoratori e lavoratrici della conoscenza Trenta-Quarantenni, si approda alla lettura critica di alcune delle sue parole chiave e delle relazioni politiche che ne caratterizzano la struttura.


Intervista a Roberto Ciccarelli


In che modo il tuo percorso personale si è intrecciato con quello collettivo di TQ?
Mi aveva incuriosito l’appello dei cinque promotori di TQ, Giorgio Vasta, Nicola Lagioia, Mario Desiati, Alessandro Grazioli e Giuseppe Antonelli e l’intenso dibattito che si era sviluppato sui maggiori quotidiani, oltre che, le aspirazioni rivelate da quell’appello. Mi chiedevo come si ponesse un gruppo anche rilevante – sia numericamente che qualitativamente – di giovani o meno giovani scrittori italiani rispetto alla questione sociale del lavoro della conoscenza che, a mio avviso, è il problema più drammatico che esiste in Italia da vent’anni a questa parte. L’appello era chiaro: l’intellettuale-letterato italiano vuole tornare all’impegno etico, civile e politico dopo un ventennio di spoliticizzazione, di retoriche sulla competizione e sul talento, uniche attitudini apprezzate fino ad oggi e peraltro utili a conquistarsi se non una quota di mercato, almeno uno status riconoscibile da spendere nell’industria culturale: case editrici, quotidiani e, possibilmente, televisione.


Che cosa ti ha colpito in quell’assemblea?
Diverse cose. All’inizio, una frase: «In questa stanza ci sono più 200 persone ed è radunata una parte della classe dirigente per quanto riguarda il lavoro culturale in Italia». Era una considerazione pertinente. C’erano parecchie persone che avevano firmato contratti e pubblicano con i maggiori editori italiani, molto spesso ci lavorano come editor o consulenti di livello, parlano nelle radio e scrivono sui maggiori inserti culturali dei quotidiani nazionali. Però, allo stesso tempo, mi è venuto un dubbio su come si potesse coniugare il ritorno all’impegno dell’intellettuale, in particolar modo il “letterato”, con il pensiero, la coscienza, la presunzione di ritenersi “classe dirigente”. Non che questo non sia possibile, anzi su questo punto sono laico. Ma credo che prima di aspirare ad un simile ruolo, in un momento in cui non è facile capire chi e cosa bisogna “dirigere”, forse sarebbe il caso di comprendere la ragione per cui esistono 200 persone che s’incontrano partendo dalla considerazione di non essere “classe dirigente”.


Cosa c’è che non va in questa idea di classe dirigente?
In Italia c’è sempre troppa gente che aspira a dirigere qualcosa, o qualcuno, ma pochissimi ammettono che il problema è quello di farsi dirigere il meno possibile e, semmai, di strappare spazi sempre maggiori di autonomia di pensiero, sociale o economica. Chi riesce a dirigere se stesso in maniera appena accettabile, cioè strappando tutele e garanzie sociali, oltre che l’indispensabile libertà di espressione, riuscirà ad affermare alla fine un’idea diversa di governo. Sta qui, a mio avviso, il senso di TQ. Si inserisce in un movimento di rivolta contro le modalità di lavoro umilianti e fuori da ogni civiltà del lavoro presenti nelle redazioni e nella Tv, nella scuola, nell’università o nel giornalismo dove il lavoro gratuito è una piaga indicibile. Del resto questa è l’esigenza che sta maturando a partire dalla denuncia della disintegrazione della dignità del lavoro. Nell’incontro da Laterza questa situazione emerse in maniera anche veemente, rivelando un’indignazione rispetto ad una condizione semi-schiavistica, che è poi la condizione in cui versa il lavoro sans phrase nel postfordismo. Molti condividevano l’idea che la conoscenza, e la sua espressione letteraria, critica, scientifica o giornalistica, fosse certamente un “bene comune”, come si dice oggi, ma le sue attuali condizioni non rispettavano minimamente lo status che di solito viene attribuito all’esercizio di quelle che sono anche delle professioni. Chi lavora nell’industria culturale, come nella formazione o nella ricerca, è imbrigliato in un sistema basato, da un lato, sullo sfruttamento e la dequalificazione e, dall’altro lato, sul privilegio delle raccomandazioni o della cooptazione. Che poi, se vuoi, è lo stesso problema che i lavoratori dello spettacolo hanno sollevato, occupando il teatro Valle di Roma, ma anche prima con il movimento degli intermittenti dello spettacolo in Francia alla metà degli anni Novanta. La condizione è unica, solo che viene declinata in vari linguaggi. Si tratta di capire come coalizzare posizioni che al momento restano isolate.
Quindi TQ: chi sono o che cos’è?
È un movimento dei lavoratori della conoscenza. Avere compreso questo, tra persone che in passato non avevano l’abitudine a percepirsi in un movimento, è stato decisivo. L’incontro con il Valle ha permesso questa trasformazione. Ha influito anche il confronto con il nodo romano dell’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (ACTA), un’associazione nata a Milano diversi anni fa e guidata da Anna Soru che è una ricercatrice sociale. Il suo ispiratore politico e culturale è lo storico del movimento operaio Sergio Bologna, che da tempo studia e organizza il lavoro della conoscenza. Alcuni membri di TQ, Christian Raimo per esempio, hanno partecipato da spettatori interessati al lancio romano di questa associazione avvenuta l’11 maggio 2011 al Macro. Il suo principale obiettivo è il riconoscimento della dignità del lavoro indipendente, cioè non soggetto alle tutele e alle garanzie concesse al lavoro subordinato a tempo indeterminato, e poi anche del lavoratore autonomo in quanto lavoratore della conoscenza. Per lavoratori della conoscenza intendo coloro che erogano servizi come consulenti e traduttori, producono senso come scrittori e sceneggiatori, o informazioni come i giornalisti. Oltre a loro ci sono anche persone che si dedicano all’espressione artistica di, testi e di partiture di azioni come la famiglia degli attori. E poi tutti quelli che svolgono professioni socio-sanitarie, anche loro erogano servizi, si occupano della cura delle persone, producono un saper fare spesso mescolato con l’attività medica, preventiva, assicurativa. Questa è la macro-categoria dei lavoratori della conoscenza che sono una parte fondamentale del così detto lavoro indipendente che per l’ISTAT sono più di sei milioni (i dati sono del 2010). Grazie ad ACTA abbiamo avuto la possibilità di percepire l’esistenza e la possibilità di legare il nostro status di lavoratori della conoscenza o di precari, di scrittori e operatori dell’editoria o dell’informazione a questo scenario più ampio.


Da quello che dici pare che il punto d’unione di questi singoli sia costituito da un’area professionale e dalle condizioni che oggi la riguardano. Quindi: si parla dei lavoratori della conoscenza in Italia e della vita che sono costretti a fare. Ma allora perché avete deciso di fondare la vostra identità sull’appartenenza generazionale?
La cornice discorsiva dalla quale emerge TQ, mi sembra essere stata influenzata inizialmente dalla retorica diffusa sui media mainstream che hanno puntato sul dramma familiare dei padri contro i figli, dei vecchi contro i giovani, e poi sul preteso diritto naturale che i figli dovrebbero rivendicare per accedere alle professioni, in particolare quelle dirigenziali, sulla concorrenza e la meritocrazia che non a caso sono state imposte dall’alto e in maniera burocratica con la riforma Gelmini dell’università. È una retorica virulenta, trasversale, convincente e, come tutte le retoriche, viene usata come un linguaggio universale, neutro per depotenziare il conflitto sociale e nascondere il tema più generale dell’esclusione di milioni di persone dalla cittadinanza attiva e dai diritti del lavoro. Di “generazione” se ne discute nella CGIL nella LUISS, nei partiti o in Confindustria. Con la sua falsa immediatezza, questa battaglia crede di spiegare un problema che deriva invece da ragioni gravissime, e del tutto inesplorate. Il sistema sociale, economico e politico ha escluso sistematicamente tutti i nati dal 1970 (e anche prima) dalla vita sociale di questo paese. È in corso un vero genocidio. Questa situazione non esiste nel resto d’Europa. La crisi renderà l’Europa un po’ più simile all’Italia, ma le condizioni di vero e proprio schiavismo che esistono in questo paese non sono paragonabili con nessun altro paese occidentale.


Come avete affrontato questa contraddizione?
Mi sembra che Vincenzo Ostuni abbia lavorato per equilibrare il problema generazionale (eccome se esiste!) con quello della dignità del lavoro. Più in generale quella tra identità professionale e questione generazionale è una delle contraddizioni fondative del Quinto Stato, la categoria che usiamo nel libro La furia dei cervelli che ho scritto con Giuseppe Allegri per spiegare la composizione sociale, professionale e generazionale di quello che non può essere definito più un “blocco sociale”, nei termini gramsciani classici, né solo come “ceto medio”, visto che nelle diverse condizioni dei precari o dei lavoratori autonomi – che sono degli apolidi integrati in questo paese – si trovano anche milioni di migranti. Le situazioni sono opposte: i primi sono cittadini di questo paese, i secondi la cittadinanza non l’otterranno mai. Eppure, entrambi sono extra-territoriali, cioè lavorano in un paese che non gli riconosce il diritto al reddito, i diritti sociali, quelli della maternità, una pensione. Pensa allo scandalo della gestione separata dell’Inps: i contributi versato dagli indipendenti in questa cassa finanziano un’assurda riforma pensionistica, la famigerata “Dini” che a partire dal 2035 non garantirà a nessuno dei “precari” di oggi una pensione. Problemi di enorme portata storica che non è possibile legare ad appartenenze corporative o professionali. Parlare di Quinto Stato significa disegnare una condizione universale all’interno della quale affermare una composizione sociale ampia e precisa, che ha il suo punto di forza (ma anche di debolezza) nella mobilità, in una “coalizione” sociale che procede a sciame e non costituisce “blocchi”, influendo però sull’opinione pubblica. Esperienze come TQ o, in maniera significativa, il Valle occupato, sono interessanti perché rappresentano la manifestazione di una presa di coscienza di una condizione comune al di là dello status dei “giovani”, degli operai, degli autonomi o dei precari.


Tracciando dei confini che scorrono sulla linea di un profilo professionale specifico (anche se ampio) più che sulle criticità di una condizione materiale sempre più svilente e diffusa tra la maggior parte dei lavoratori di questo paese, non si corre forse il rischio di contribuire alla costruzione di una lotta di categoria e autoreferenziale?

Tutti i movimenti del “Quinto Stato”, come li abbiamo conosciuti almeno dalla Pantera nel 1990 ad oggi, non sono mai l’espressione di un’essenza precisa, di “classe” si sarebbe detto in altri tempi, né sono l’applicazione di criteri ispirati all’autenticità o alla purezza. L’Onda aveva nel suo Dna il giustizialismo ed era subalterna all’ideologia della meritocrazia. Il suo eroe era Roberto Saviano, lo stesso che, dopo il tumulto del 14 dicembre contro il governo Berlusconi, chiamò “teppisti” gli studenti che lo avevano applaudito in una conferenza tenuta a Roma Tre nel 2008. Credo che si sia pentito amaramente di quella uscita sconclusionata, gli studenti continuano a ricoprirlo di improperi da allora. Nel 2010 le loro rivendicazioni sono cambiate radicalmente e gli studenti si sono mossi come un maturo movimento per la riforma del Welfare, unica condizione per cancellare la precarietà. Insomma, questi movimenti si affermano sempre in termini spuri, lungo percorsi ambivalenti e purtroppo ancora troppo incompleti. TQ, come gli intermittenti dello spettacolo, i lavoratori autonomi, gli studenti e i ricercatori dell’università, -mi riferisco in particolar modo all’esperienza della “rete 29 aprile”- stanno in un campo politico molto particolare che, da un lato, vede il rischio della rivendicazione corporativa e, dall’altro lato, la possibilità di identificarsi in una condizione universale. Molto spesso, o almeno fino a questo momento, l’oscillazione si è risolta facendo rimbalzare le mobilitazioni del lavoro della conoscenza sul polo della rivendicazione corporativa, ma ciò non toglie che già per il fatto che esistano queste mobilitazioni siano l’espressione di una condizione generale che si sta facendo strada. Nella Furia dei cervelli usiamo una formula per descrivere il loro interesse politico generale: la capacità, cioè, di coniugare la ricerca di una migliore espressione delle proprie capacità professionali, intellettuali, artistiche o personali con un’idea della cittadinanza fondata sull’autonomia, e non sul lavoro sulla meritocrazia o sulla famiglia. Nel mezzo c’è la capacità di interpretare l’interesse generale attraverso una politica che rilanci i commons, cioè i “beni comuni”: come l’ecologia, la cultura, la conoscenza o il Welfare. Questa politica è l’unica alternativa esistente contro la crisi.


Nei vostri manifesti ricorre la parola “qualità” come principio da rivendicare e ristabilire. Molti di noi leggono questa rivendicazione con perplessità e diffidenza. Chi decide cos’è di qualità e cosa no? Quali sono i criteri per riconoscere i vari gradi di questa auspicata “qualità”? Insomma: non pensi sia rischioso intavolare una riflessione su questo presupposto?
Chi parla di qualità, nell’editoria o più in generale nell’economia della conoscenza, va spesso incontro a fraintendimenti. Da un lato, rischia di porsi in un atteggiamento moralistico rispetto al mercato che vincola il prodotto editoriale alla sua commerciabilità e, dall’altro lato, rischia di cedere al cinismo che vincola il valore di un autore, o di un’opera, al mercato. Sono convito che però, al fondo, questa non sia l’alternativa che interessa TQ. Se è vero che il suo manifesto sull’editoria è criticabile poiché sembra candidarsi ad un ruolo di giudice della qualità, è altrettanto vero che questa richiesta allude ad un rapporto diverso con il mercato. Al di là dei toni usati, questo è da sempre uno dei cavalli di battaglia dell’editoria indipendente: rivedere le regole della distribuzione oggi sempre più monopolistica; garantire una bibliodiversità allargata alle opere che il mercato chiama “sperimentali” solo perché le considera invendibili; tutelare forme di espressione che non hanno un impatto commerciale su grande scala, ma spesso hanno un grande significato intellettuale, penso alla filosofia o alla saggistica in generale. E il ragionamento potrebbe essere allargato ai quotidiani e al fondo per l’editoria, che il governo Berlusconi ha cancellato mettendo a rischio centinaia di testate. Anche qui il problema è scottante: è un’editoria assistita e quindi sono preferibili solo quelle realtà che riescono a finanziarsi completamente (penso al Fatto o a “Servizio pubblico” di Santoro)? E, in base a quale criterio politico (cioè la «qualità» di cui stiamo parlando) dovrebbero essere finanziate imprese come il Manifesto, il Riformista o Radio Radicale? Basta invocare la loro tradizione, anche se non vendono come dovrebbero? Come vedi il discorso è molto più ampio rispetto alle polemiche su Tq.

Da mesi si parla di un manifesto TQ sull’università che a breve dovreste presentare e pubblicare. Di cosa di tratta?
Come parte del movimento del lavoro della conoscenza, TQ ha scelto per necessità di occuparsi di università, come anche di scuola, sulla quale si sta preparando un manifesto analogo. Il manifesto è stato scritto da persone che insegnano all’università, insieme a chi – pur avendo 10 anni di ricerca a testa – ne è stato espulso da precario, come accade in questo paese ignobile. Si vuole così dare una prospettiva che vada oltre l’identità moderata, corporativa e individualistica diffuse tra i ricercatori, come tra gli stessi precari. Anzi si può dire che l’università italiana familistica e corrotta è l’espressione più pura e autentica del corporativismo del lavoro della conoscenza e dei suoi peggiori istinti e paure. La riforma Gelmini, al contrario di quanto sostiene l’avvocato che le ha prestato il nome, ha rafforzato queste condizioni oltre ogni limite immaginabile. In questo manifesto c’è anche l’impegno di TQ a promuovere ’una cento mille coalizioni’ con le mille categorie che esistono dentro e fuori dell’università, e che ci saranno forse ancora per poco - perché l’università italiana hanno scelto di suicidarla.

TQ si presenta fino ad oggi prevalentemente come una realtà online tra le cui righe però non mancano riferimenti alla creazione di momenti politici pratici. A cosa si fa riferimento?
A quello che è successo alla biblioteca nazionale di Roma l’11 ottobre scorso, ad esempio. Con il Valle occupato e la rete romana del lavoro della conoscenza (grafici, traduttori, informatici, archeologi e ricercatori) si voleva realizzare una grande assemblea pubblica in difesa delle biblioteche pubbliche. Il direttore della biblioteca, probabilmente pressato dal ministero e dalle forze dell’ordine, ha chiamato la polizia, impedendo così l’assemblea. Un’assurdità. Ha detto bene Marino Sinibaldi davanti ai cancelli chiusi: si proteggono i libri da chi li vorrebbe proteggere. A questo è ridotto un paese impaurito dalla crisi e dall’abbandono di ogni considerazione sulla cura dei beni comuni. Nel manifesto sugli “spazi pubblici” di TQ si dice chiaramente che, nello spirito della campagna Occupy everything che il Valle e gli “indignati” di Wall Street o di Oakland rappresentano al meglio, anche TQ si impegna in pratiche di occupazione, di riqualificazione di luoghi particolarmente simbolici nella produzione e nella distribuzione della cultura in Italia. L’obiettivo è il riuso degli edifici, dei servizi e di tutti i luoghi pubblici dedicati alla cultura, alla conoscenza, alla formazione, secondo il diritto comune.

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