venerdì 28 dicembre 2012

A FIRENZE L'UNIVERSITA' RICONOSCE IL DIRITTO DI ESSERE MADRI


A un anno di distanza dalla nostra denuncia  – affiancata dalle pressioni del Coordinamento nazionale Precari Università (Cpu), dell’ex Comitato Pari Opportunità, delle rappresentanze sindacali Flc-Cgil – il Senato Accademico dell'università di Firenze ha abrogato la norma discriminatoria sulla sospensione degli assegni di ricerca in caso di maternità delle ricercatrici. 

Per gli assegni di ricerca “cofinanziati” (oggi i più diffusi), il regolamento prevedeva che l’integrazione dell’indenità Inps per la sospensione obbligatoria per maternità fosse a carico del dipartimento, ovvero del docente responsabile della ricerca. Si veniva così a creare, nel migliore dei casi, il diretto controllo del (o della) docente sulla vita biologica della assegnista, sempre che la scelta del prof – per evitare noie – non ricadesse direttamente su un ricercatore uomo che non crea problemi nella continuità dell’iter di ricerca, tantomeno ulteriori aggravi monetari. 


L'importanza di questa vittoria delle ricercatrici precarie dev'essere valutata anche da un altro punto di vista. Nell’era post-Gelmini, gli assegni di ricerca costituiscono l’unica possibilità di lavoro per l’esercito dei ricercatori non strutturati. A causa dei tagli e del blocco del turnover che hanno cancellato dagli atenei la maggior parte delle borse di studio e dei contratti di collaborazione, gli assegni di ricerca restano gli unici, esigui, strumenti per garantire una copertura giuridica al lavoro gratuito, volontario o al nero che normalmente si svolge negli atenei. Questa situazione produce anche un paradosso ben conosciuto da chi oggi vive in una comunità accademica. 

L'assegno di ricerca viene usato per inquadrare per uno o più anni i lavori un tempo ascrivibili alla sfera delle mansioni tecniche. Il tipico esempio, ma non l’unico, è la costruzione o gestione dei siti web degli atenei o dei dipartimenti. La riforma Gelmini, nella parte che regola gli assegni di ricerca, espone le donne al controllo biopolitico del corpo, e del tempo di vita, da parte della gerarchia universitaria e sottomette la biologia ai tempi del "mercato del lavoro". 

In questa situazione vivono tutte le lavoratrici autonome, freelance, precarie o indipendenti che, come le assegniste di ricerca, sono iscritte alla gestione separata dell'Inps. Il diritto di astenersi dalle attività, a causa della gravidanza, viene riconosciuto solo alle donne che riescono a dimostrare di avere versato tre mesi di contributi nell'anno precedente all'inizio dell'assegno (o del contratto). Molto spesso questa condizione non può essere dimostrata e le donne perdono il diritto alla maternità. In Italia una mamma su quattro (il 23%) non riceve nessuna indennità. 

Per questa ragione le università italiane devono riconoscere il diritto universale alla maternità, così come il legislatore che, nella riforma Fornero, ha omesso di considerare la richiesta di numerosi comitati e associazioni del lavoro autonomo: un assegno universale di maternità per tutte le madri, indipendentemente dal lavoro che fanno, pari al 150% della pensione sociale (al 2012 circa 700 euro mensili, per 5 mesi), a carico della fiscalità generale, con contributi a carico dell’Inps.

Ilaria Agostini (Università di Bologna)
Roberto Ciccarelli


(Pubblicato su Il Manifesto)

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