E’ un’istantanea sui 18 mesi successivi raccontati dagli occupanti del Ricreatorio Marinoni e del S.a.l.e. Docks di Venezia, del Teatro Coppola di Catania e del Teatro Garibaldi di Palermo, dell’ex Asilo Filangieri di Napoli e di Macao a Milano, del Teatro Rossi Aperto di Pisa. All’appello mancano il Teatro Pinelli di Messina e il cinema America di Roma, ma solo perché sono stati occupati da poco. E vengono considerati l’Angelo Mai e il Teatro del Lido di Ostia, esperienze anticipatrici del “contagio” a venire.
L'imprudenza, una virtù politica
L’imprudenza che dà il titolo al libro è l’intuizione di una virtù politica inedita. Rovesciamento dello slogan “Com’è triste la prudenza” che il Valle ha tratto dal drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, l’imprudenza allude ad una virtù anti-aristotelica che non mira alla moderazione politica e alla compatibilità tra l’oligarchia dei pochi e la democrazia dei molti, ma alla creazione di una democrazia basata “sulla funzione sociale della proprietà, pubblica e privata”. Una pratica capace di strappare un teatro o un cinema, come qualsiasi altro spazio pubblico abbandonato, alla rendita immobiliare, o alle speculazioni politiche, trasformandoli in beni comuni accessibili alla cittadinanza. La virtù sta dunque nello stimolare tra i molti che vivono in una democrazia la capacità di generare istituzioni con l’obiettivo di “creare un’altra res publica basata sulla cooperazione, sull’autonomia e sull’indipendenza”.
Il Quinto Stato: una res publica
Cooperazione, autonomia, indipendenza. Questa “triade rivoluzionaria” è la condizione di possibilità del “Quinto Stato”, un’espressione ricorrente nell’ebook. Il Quinto Stato svolge sia una funzione ricompositiva della “nuova classe di lavoratori che sta prendendo coscienza delle sue condizioni” nell’economia postfordista, e del terziario avanzato, che una funzione costituente. Il suo referente è una soggettività capace di auto-governare le istituzioni che occupa e le economie di condivisione che produce. Il Quinto Stato qui indica la pratica performativa attraverso la quale una cittadinanza attiva, ma invisibile, afferma il diritto al reddito e alle tutele fondamentali del lavoro culturale e, in generale, del lavoro autonomo o precario.
C’è anche da considerare un altro elemento dell’imprudenza. La capacità di far cooperare i saperi e le professioni in un’ottica mutualistica. Il libro raccoglie l’appello al coworking, al lavoro condiviso in spazi comuni, perché la cooperazione tra lavoratori è un elemento fondamentale nella produzione immateriale divisa tra appartenenze professionali e status contrattuali diversi, dalla partita Iva ai cocopro al lavoro dipendente. Di solito la cooperazione viene segmentata, e il suo valore saccheggiato, dallo sfruttamento intensivo dello Stato e del mercato. Nel Quinto Stato c’è invece l’imprudenza di chi crede che la cooperazione tra i saperi sia l’antefatto di una nuova coalizione sociale.
"Far cooperare le discipline"
La cooperazione è un' altra espressione che ritorna nel volume. L'ho ascoltato per la prima volta nel luglio 2011 al teatro Valle dalla regista Manuela Cherubini. Sosteneva che questa "cooperazione" favorisce il superamento di una cultura artistica, e politica, dominata dal pensiero binario, fatta di opposizioni manichee che rimuovono ogni contraddizione. I tecnici, il lavoro esecutivo, da un lato e gli artisti "creativi", a contatto con l'Assoluto, dall'altro lato. Le arti meccaniche contro le arti liberali. L'artigianato contro il lavoro astratto della conoscenza, o l'"Arte". Anche la cultura dei teatranti è organica a questa partizione generale che aumenta a dismisura la specializzazione e la frammentazione tra saperi. A danno della sperimentazione, che è la radice del teatro. E solo di quello.
Pensare, invece, alla cooperazione tra saperi nell'atto di una creazione scenica significa prendere posizione contro l'organizzazione del lavoro dello spettacolo, e la distribuzione dei fondi pubblici, in Italia. L'iper-specializzazione, e la conseguente frammentazione dei saperi e delle discipline, hanno giustificato la distinzione tra teatri stabili (finanziati dallo Stato) e teatro di ricerca (auto-finanziato). E poi, a cascata, tutto quello che ne consegue: divisione di ruoli tra direttore artistico e compagnie; tra tipologie di teatri (finanziati o meno); tra culture "alte" e "basse", quelle che hanno accesso alla politica e quelle che sopravvivono ai margini.
Che cos'è il Quinto Stato?
Le esperienze raccontate in "Com'è bella l'imprudenza" riflettono sulle possibili conseguenze della cooperazione sul piano politico. La prima potrebbe essere una coalizione tra i mestieri del palcoscenico e quelli della drammaturgia, l'organizzazione e la logistica, la creazione con l'esecuzione. Distinzioni che sono state abbattute più volte nel corso del Novecento, da geniali sperimentatori e possenti avanguardie. Oggi è pratica quotidiana per chi fa, veramente, teatro.
Il senso della coalizione è anche un altro. Nel libro il Valle, Macao e l'Asilo della Conoscenza di Napoli insistono sulla virtù costituente della cooperazione: di fare rete, e trovare relazioni e legami nuovi tra il lavoro materiale e immateriale, intellettuale e artigiano. Le attività operose che si svolgono in un'economia postfordista sono da tempo superate nelle pratiche, ma rigorosamente separate dal punto di vista giuridico, sindacale e naturalmente politico.
E il Quinto Stato, oggi, è il riflesso di questa contraddizione tra le pratiche produttive, creative, relazionali e lo status delle lavoratrici e dei lavoratori divisi per corporazioni, caste, micro-rappresentanze create dall'uso opaco dei fondi pubblici, e dello spoil system degli enti locali che gestiscono l'economia culturale e immateriale in Italia.
La pratica della cooperazione (artistica, produttiva e relazionale) è essenziale per ricomporre i rapporti tra
Questa è l'idea politica che emerge da 18 mesi di occupazione, e il vero conflitto profondo agito da queste esperienze contro un ordinamento dei saperi, l'organizzazione della formazione e dell'istruzione, la politica. Il Quinto Stato dei teatri e degli atelier occupati ha sviluppato un punto di vista immanente sulla propria contraddizione, e sulle sue potenzialità. Non si pone come "blocco sociale" già formato - questo è piuttosto lo stile della sinistra residuale che, dall'alto, cala una prospettiva di rappresentanza politica sul magma informe della società che non conosce, e da cui è stata espulsa.
Uno, o più "blocchi sociali", si creano a partire dalle pratiche sociali, economiche e creative, si verificano passo dopo passo. Per essere imprudenti, non bisogna avere la fretta nè tradire l'angoscia di chi fa politica con la rappresentanza. La costruzione è lenta, perché è efficace. La politica come virtù dell'imprudenza ha un obiettivo, quello dell'efficacia.
Il sapere cinese dell'attore
Il punto di vista immanente dell'attore sulla politica, e sul Quinto Stato, ricorda da vicino il sapere del saggio cinese. Così lo riassume il filosofo francese François Jullien nel suo "Trattato dell'efficacia":
E' l'ispirazione virtuosa, storica, imprudente del Quinto Stato. Il riferimento al sapere strategico cinese non appaia stravagante. Nel dibattito epistemologico, al quale fanno riferimento le aspirazioni dei lavoratori dello spettacolo ad una nuova cooperazione, questa opzione è stata da tempo discussa e inglobata. Una cultura, una serie di intuizioni, potenzialità da proteggere e rilanciare oggi che si riscopre la retorica della "società civile", da Monti a Ingroia. La prospettiva del Quinto Stato offre una chiave assai diversa. E molto imprudente.
La società civile è il Quinto Stato?
Sono giorni, settimane di vampate elettorali. Nelle assemblee di liste elettorali costituende (gli "arancioni", "cambiare si può") raramente, quasi mai, è risuonata l'eco di quanto si muove nella società italiana, e di queste pratiche nemmeno l'ombra. Non raggiungono la soglia della dicibilità, sebbene esista una coalizione di centrosinistra autonominatasi "Italia Bene Comune", che fa il verso alla battaglia referendaria sull'acqua e alle lotte dei teatri per i "beni comuni". E' presumibile immaginare che nessuno dei movimenti che hanno fatto i "beni comuni" in Italia parteciperà a questa esperienza.
In un'incontro pre-natalizio al teatro Quirino di "Cambiare si può" solo un paio di interventi si sono soffermati sul problema del "lavoro" e della "precarietà", intese come essenze generali, raramente come questioni specifiche, incarnate in singolarità. Solo una volta sono stati citati i "beni comuni" e quello che significano le nuove occupazioni. Di cosa sono la spia, di quale società sono l'espressione. Anche qui i movimenti, i teatri non c'erano e, se c'erano, erano a disagio, con tutta evidenza. L'età media era ben superiore ai 45 anni. Non c'era il lavoro indipendente, autonomo, i freelance, i precari, gli studenti che hanno alimentato negli ultimi 5 anni l'opposizione al governo Berlusconi prima, a quello di Monti poi.
Di fatto, al momento, la "società civile" a cui si rivolgono queste liste elettorali, o le coalizioni che l'hanno eletta a loro referente, non contempla il Quinto Stato. Come si spiega questa latenza in un momento topico della vita politica nazionale? La riottosità del Quinto Stato a farsi rappresentare in qualità di "società civile", per non parlare di altri referenti reali o fantasmatici, da parte di chi si candida a fare politica parlamentare si spiega con le parole del giovane Marx nella "Questione ebraica":
Chi oggi si richiama alla società civile si schiera dal punto di vista dello Stato e cancella il significato profondo della lotta per i "beni comuni": aprire un varco tra il "pubblico" e il "privato", cioè tra due forme di proprietà e istituire una nuova idea di governo, senz'altro distinta (ma non opposta) alla vecchia democrazia costituzionale, ma di certo nemica della "governamentalità" neo-liberale.
Il Quinto Stato fa tutt'altro movimento e afferma, con le parole di Marx, la differenza politica tra la propria condizione (di working poor, ma anche di creatore di nuove istituzioni) rispetto agli algidi custodi dell'autenticità della società civile, oltre che del suo essere "incensurata", verrebbe da dire alla luce dei populismi consolidati e di quelli nascenti a sinistra.
Imprudente è chi, davanti all'espropriazione mediatica e culturale delle pratiche, continuerà a fare valere il senso della propria virtù politica.
La cooperazione è un' altra espressione che ritorna nel volume. L'ho ascoltato per la prima volta nel luglio 2011 al teatro Valle dalla regista Manuela Cherubini. Sosteneva che questa "cooperazione" favorisce il superamento di una cultura artistica, e politica, dominata dal pensiero binario, fatta di opposizioni manichee che rimuovono ogni contraddizione. I tecnici, il lavoro esecutivo, da un lato e gli artisti "creativi", a contatto con l'Assoluto, dall'altro lato. Le arti meccaniche contro le arti liberali. L'artigianato contro il lavoro astratto della conoscenza, o l'"Arte". Anche la cultura dei teatranti è organica a questa partizione generale che aumenta a dismisura la specializzazione e la frammentazione tra saperi. A danno della sperimentazione, che è la radice del teatro. E solo di quello.
Pensare, invece, alla cooperazione tra saperi nell'atto di una creazione scenica significa prendere posizione contro l'organizzazione del lavoro dello spettacolo, e la distribuzione dei fondi pubblici, in Italia. L'iper-specializzazione, e la conseguente frammentazione dei saperi e delle discipline, hanno giustificato la distinzione tra teatri stabili (finanziati dallo Stato) e teatro di ricerca (auto-finanziato). E poi, a cascata, tutto quello che ne consegue: divisione di ruoli tra direttore artistico e compagnie; tra tipologie di teatri (finanziati o meno); tra culture "alte" e "basse", quelle che hanno accesso alla politica e quelle che sopravvivono ai margini.
La prudenza e la sapienza nel loro rapporto con la politica, secondo Kant |
Le esperienze raccontate in "Com'è bella l'imprudenza" riflettono sulle possibili conseguenze della cooperazione sul piano politico. La prima potrebbe essere una coalizione tra i mestieri del palcoscenico e quelli della drammaturgia, l'organizzazione e la logistica, la creazione con l'esecuzione. Distinzioni che sono state abbattute più volte nel corso del Novecento, da geniali sperimentatori e possenti avanguardie. Oggi è pratica quotidiana per chi fa, veramente, teatro.
Il senso della coalizione è anche un altro. Nel libro il Valle, Macao e l'Asilo della Conoscenza di Napoli insistono sulla virtù costituente della cooperazione: di fare rete, e trovare relazioni e legami nuovi tra il lavoro materiale e immateriale, intellettuale e artigiano. Le attività operose che si svolgono in un'economia postfordista sono da tempo superate nelle pratiche, ma rigorosamente separate dal punto di vista giuridico, sindacale e naturalmente politico.
E il Quinto Stato, oggi, è il riflesso di questa contraddizione tra le pratiche produttive, creative, relazionali e lo status delle lavoratrici e dei lavoratori divisi per corporazioni, caste, micro-rappresentanze create dall'uso opaco dei fondi pubblici, e dello spoil system degli enti locali che gestiscono l'economia culturale e immateriale in Italia.
La pratica della cooperazione (artistica, produttiva e relazionale) è essenziale per ricomporre i rapporti tra
il lavoro tecnico e quello propriamente artistico con tutte le tonalità intermedie dell’artigianato creativo; tra svolgere il lavoro materiale e quello immateriale, autoriale, di pura scrittura; tra essere lavoratore dipendente o intermittente, precario, autonomo, free lance, a progetto, in nero, partita iva e spesso più cose allo stesso tempo; tra autoprodurre i propri lavori e lavorare a scrittura; tra essere ancora in formazione e vivere la precarietà del mondo del lavoro e sentire la necessità di una formazione permanente.
Questa è l'idea politica che emerge da 18 mesi di occupazione, e il vero conflitto profondo agito da queste esperienze contro un ordinamento dei saperi, l'organizzazione della formazione e dell'istruzione, la politica. Il Quinto Stato dei teatri e degli atelier occupati ha sviluppato un punto di vista immanente sulla propria contraddizione, e sulle sue potenzialità. Non si pone come "blocco sociale" già formato - questo è piuttosto lo stile della sinistra residuale che, dall'alto, cala una prospettiva di rappresentanza politica sul magma informe della società che non conosce, e da cui è stata espulsa.
Uno, o più "blocchi sociali", si creano a partire dalle pratiche sociali, economiche e creative, si verificano passo dopo passo. Per essere imprudenti, non bisogna avere la fretta nè tradire l'angoscia di chi fa politica con la rappresentanza. La costruzione è lenta, perché è efficace. La politica come virtù dell'imprudenza ha un obiettivo, quello dell'efficacia.
Il sapere cinese dell'attore
Il punto di vista immanente dell'attore sulla politica, e sul Quinto Stato, ricorda da vicino il sapere del saggio cinese. Così lo riassume il filosofo francese François Jullien nel suo "Trattato dell'efficacia":
Il saggio cinese, piuttosto che erigere un modello che gli serva da norma all’azione, è portato a concentrare l’attenzione sul corso delle cose nel quale si trova coinvolto, per coglierne la coerenza e trarre profitto dalla loro evoluzione. Invece di costruire una forma ideale che si proietta sulle cose, dedicarsi a rintracciare i fattori favorevoli operanti nella loro configurazione, invece di fissare uno scopo alla propria azione, far leva sul potenziale della situazione.
E' l'ispirazione virtuosa, storica, imprudente del Quinto Stato. Il riferimento al sapere strategico cinese non appaia stravagante. Nel dibattito epistemologico, al quale fanno riferimento le aspirazioni dei lavoratori dello spettacolo ad una nuova cooperazione, questa opzione è stata da tempo discussa e inglobata. Una cultura, una serie di intuizioni, potenzialità da proteggere e rilanciare oggi che si riscopre la retorica della "società civile", da Monti a Ingroia. La prospettiva del Quinto Stato offre una chiave assai diversa. E molto imprudente.
Mario Ceroli, cartone preparatorio per "Il Quinto Stato" (1938) |
Sono giorni, settimane di vampate elettorali. Nelle assemblee di liste elettorali costituende (gli "arancioni", "cambiare si può") raramente, quasi mai, è risuonata l'eco di quanto si muove nella società italiana, e di queste pratiche nemmeno l'ombra. Non raggiungono la soglia della dicibilità, sebbene esista una coalizione di centrosinistra autonominatasi "Italia Bene Comune", che fa il verso alla battaglia referendaria sull'acqua e alle lotte dei teatri per i "beni comuni". E' presumibile immaginare che nessuno dei movimenti che hanno fatto i "beni comuni" in Italia parteciperà a questa esperienza.
In un'incontro pre-natalizio al teatro Quirino di "Cambiare si può" solo un paio di interventi si sono soffermati sul problema del "lavoro" e della "precarietà", intese come essenze generali, raramente come questioni specifiche, incarnate in singolarità. Solo una volta sono stati citati i "beni comuni" e quello che significano le nuove occupazioni. Di cosa sono la spia, di quale società sono l'espressione. Anche qui i movimenti, i teatri non c'erano e, se c'erano, erano a disagio, con tutta evidenza. L'età media era ben superiore ai 45 anni. Non c'era il lavoro indipendente, autonomo, i freelance, i precari, gli studenti che hanno alimentato negli ultimi 5 anni l'opposizione al governo Berlusconi prima, a quello di Monti poi.
Di fatto, al momento, la "società civile" a cui si rivolgono queste liste elettorali, o le coalizioni che l'hanno eletta a loro referente, non contempla il Quinto Stato. Come si spiega questa latenza in un momento topico della vita politica nazionale? La riottosità del Quinto Stato a farsi rappresentare in qualità di "società civile", per non parlare di altri referenti reali o fantasmatici, da parte di chi si candida a fare politica parlamentare si spiega con le parole del giovane Marx nella "Questione ebraica":
Lo Stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita, condizione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi".
Chi oggi si richiama alla società civile si schiera dal punto di vista dello Stato e cancella il significato profondo della lotta per i "beni comuni": aprire un varco tra il "pubblico" e il "privato", cioè tra due forme di proprietà e istituire una nuova idea di governo, senz'altro distinta (ma non opposta) alla vecchia democrazia costituzionale, ma di certo nemica della "governamentalità" neo-liberale.
Il Quinto Stato fa tutt'altro movimento e afferma, con le parole di Marx, la differenza politica tra la propria condizione (di working poor, ma anche di creatore di nuove istituzioni) rispetto agli algidi custodi dell'autenticità della società civile, oltre che del suo essere "incensurata", verrebbe da dire alla luce dei populismi consolidati e di quelli nascenti a sinistra.
Imprudente è chi, davanti all'espropriazione mediatica e culturale delle pratiche, continuerà a fare valere il senso della propria virtù politica.
Roberto Ciccarelli
"Com'è bella l'imprudenza" è scaricabile da: http://www.lavoroculturale. org/spip.php?article375
"Com'è bella l'imprudenza" è scaricabile da: http://www.lavoroculturale.
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