Il Console
Meglio lasciare ai piccoli e grandi “soloni” della rete lo sport di accapigliarsi intorno a La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Così come al chiacchiericcio papalino il suo scontento: già si rincorrono le voci di accigliati registi romani usciti indignati dalla visione. Immaginiamo altrettanto per l'intelligencija trasteverina e il “generone” delle performance d'avanguardia, sin troppo facilmente deriso. Così come per gli impegnati critici pronti a svelarci il retroscena del “grande regista che già ci aveva provato e se ha rinunciato certo proprio un Sorrentino minore non poteva salvarsi”.
L'inascoltato, ultimo, mònito felliniano del “basterebbe un po' di silenzio” è sempre più disatteso.
Sarebbe stato bello e facile odiare questo film. Col pregiudizio della doppia coppia di protagonisti-sceneggiatori, Toni Servillo/Paolo Sorrentino & Carlo Buccirosso/Umberto Contarello. Sapendoli egotici, autoreferenziali, compiaciuti, verbosi, ossessionati dal talento indubbio e dal rischio “paraculaggine” (per dirla alla romana), piuttosto che dal pericolo di infantilismo (la ritrita citazione di Céline in apertura) in agguato dietro l'angolo.
Invece si esce dal cinema con la voglia di rientrare subito, per lasciarsi stordire ancora dalle oltre due ore di immersione nel pieno barocco notturno dei grandi palazzi romani, abitati da “fantasmi” di principesse perse in interminabili partite di canasta, mentre intorno gira il vuoto delle esistenze “cafonal”, perse tra feste in terrazza, cocco&mignotte, misto di lusso ed eccesso, passioni dell'ultimo parvenu, nouveau riche, come degli “avvocatoni” romani, che si pensano di essere i primi della classe.
E su tutti brillano di nera luce splendente: l'immensa trasfigurazione di Serena Grandi; Giorgio Pasotti claudicante portiere delle meraviglie; la malinconia solitaria di Sabrina Ferilli; un Massimo Popolizio spietato dispensatore di botox; l'infante riot grrrl costretta alla schiavitù del lavoro artistico dall'avidità di genitori tristi, ancor prima che orridi.
Quindi il manierismo all'ennesima potenza della camera-occhio di Sorrentino: tutto troppo facile, a cominciare dai primi quindici minuti al Gianicolo, e poi di seguito, tra cortili di chiese e conventi, giardini all'italiana e una Roma deserta, con una luce che mette in imbarazzo per la sua grande bellezza, appunto (nel film è quella di Luca Bigazzi; nella vita erano i pomeriggi tersi di maggio o di ottobre, come non ce ne sono più da anni). Controcanto volutamente esagerato al Caro Diario di Nanni Moretti. Senza una macchina, un autobus dell'Atac fermo in colonna, un taxi che sfreccia, superando in terza fila. Poi gli scontati, prevedibili, paragoni felliniani. Qualcuno tirerà in ballo l'Alain Resnais di L'année dernière à Marienbad? Troppo démodé, forse.
Ma soprattutto, al solito con Sorrentino, la musica. La poesia assoluta di Arvo Pärt e Henryk Górecki che sembrano condurre le carrellate. I bassi coatti delle danze sguaiate, ancor più nell'odioso ripetersi dei balli di gruppo, vero cancro interclassista dell'Italia repubblicana, dalla macarena al Pulcino pio, passando per Mueve la culita, appunto.
E allora sia concesso di scherzare con Sorrentino, proprio su questo registro.
La vera scena madre del film: quando Toni Servillo, Jep – Jeppino per la formidabile direttrice Giovanna Vignola, ma forse anche Geppetto – entra al Bar San Calisto, per prendere due pacchetti di sigarette e provare ad andare in bagno, senza riuscirci perché lo fermerà un'anziana addobbata con un improbabile vestito da festa, stordita da quasi l'unica TV accesa in tutto il film. È un rallenty senza salvezza, con intorno l'umanità romana più immobile e duratura: di uno splendore che porta alle lacrime. La stanzetta interna, abitata da anziani stanziali, in pigiama, piuttosto che con il vestito delle grandi occasioni. “Chi si occuperà di te, adesso?”. E di loro?
Monumenti viventi a L'Imperatore di Roma, al Victor Cavallo sempre in giro per le strade di Roma, con vodka e marlboro. La stessa vodka dello sgroppino che continua a fare di San Calisto il bar dove passare tutte le possibili notti romane.
Monumenti viventi a L'Imperatore di Roma, al Victor Cavallo sempre in giro per le strade di Roma, con vodka e marlboro. La stessa vodka dello sgroppino che continua a fare di San Calisto il bar dove passare tutte le possibili notti romane.
E qui ci stava tutto il Piangi Roma di Baustelle, con Valeria Golino, anche se preso da un altro bel film: Giulia non esce la sera.
Mi manchi tu, la fantasia,/il cinema, l'estate indiana/mi servi tu, un brivido,/il ghiaccio nel, Campari soda.
Così, quando il provinciale fallito Carlo Verdone, agente di Jep, poeta-drammaturgo in un appartamento di studenti, decide di abbandonare Roma e il proprio fallimento esistenziale, la mente va al classico di Remo Remotti, con Recycle: Mamma Roma, addio.
Me ne andavo da quella Roma puttanona, borghese, fascistoide,/da quella Roma del "volemose bene e annamo avanti".
Quindi, sul finire, a commento della già celebre frase persa nel ghigno strascicato di Jep Gambardella (“i nostri sono i trenini più belli di Roma, perché non vanno da nessuna parte”), proprio in questi giorni risponde la giovane e potente cantautrice catanese Levante, con quello che sarà il tormentone dell'estate che non verrà: Alfonso (incisa per la INRI di Torino).
A,E,I,O,U,Y...se ora parte il trenino mi butto al binario/Guarda là, c'è uno in mutande e papillon/Dov'è il proprietario di casa/L'imbarazzo è palese, ma sono cortese/Corre l'anno 2013, in mano alcolici...e niente di più/Che vita di merdaaa.
Dietro lo sguardo di Jep perso nel mare napoletano del suo amore adolescente, c'è il provinciale disadattato, risucchiato dalla morte che attanaglia la Città eterna. Perché, e forse questo è lo scandalo indicibile del film, La grande bellezza è un film sulla morte, ancor prima che sulla solitudine.
E mentre nel millenario estremo oriente giapponese i giovani si rinchiudono, solitari, nelle loro stanze – Hikikomori che si sottraggono alla reale vita sociale, fino a morirne – qui, nella culla mediterranea della civiltà occidentale, sono gli uomini di mezza età a immergersi nelle caotiche musiche delle terrazze romane, per convincersi di essere vivi.
Da misantropi mediterranei, nemici di qualsiasi “riformatore del mondo” (per dirla con Thomas Bernhard, antico maestro tra i misantropi), eppure troppo attaccati alla vita, sono pronti a sperare in qualsiasi, ulteriore, possibilità di condividere una solitudine troppo rumorosa, abbandonandosi in un lento ballo di coppia che non salverà nessuno, ma darà ancora la forza di dire: “eppure siamo vivi”!
http://diobenedicaquestospazio.blogspot.it/2013/05/la-grande-bellezza-di-paolo-sorrentino.html
RispondiEliminaE' da quando sono nato, 49 primavere fa, che sento parlare della rinascita del cinema italiano. Io sono dell'idea che Nanni Moretti (anche se va di moda daje de botte e forte, fa radical chic) sia stato l'unico regista, assieme a Ferreri, che abbia dato un'anelito di verità a questa bislacca affermazione. Ora si confermano due grandi Cineprese, che se fossero nate ad Hollywood si chiamerebbero Spike Jonze, quella di Sorrentino e quella di Garrone, al punto che ci credo un pochetto di più, non alla rinascita del cinema italiano, ma ad un timido ritorno della grande bellezza ch'era il cinema italiano.
RispondiEliminaConsole, i miei omaggi per tutto, "Misantropi mediterranei", te l'ho già trafugata, quindi sappilo: se la vedrai scritta in un mio qualche testo non meravigliarti.
Bello! Che Sorrentino lo legga e si compiaccia!
RispondiEliminaGrande Matt, il Console ringrazia ed è sicuramente felice, oltre che onorato!!
RispondiEliminaChe poi, da quello che so, è un aka preso dal Console Firmin di Sotto il vulcano: un altro misantropo, in centramerica ;-)
Ferreri-Moretti-Garrone-Sorrentino mi sembra una mediana formidabile!!
Jo March, mi sa che Contarello si offenderebbe per essere stato paragonato a Buccirosso, mentre Sorrentino se la riderebbe, in effetti ;-)