lunedì 8 luglio 2013

ARMARE IL PUGNO CONTRO L'AUSTERITA'

Intervista a Marco Ambra di Lavoro Culturale sulla scuola e l'istruzione, la ricerca e la didattica, i saperi la conoscenza e l'austerità  al tempo del governo "a larghe intese". Nel secondo anno della postdemocrazia italiana. L'originale è pubblicato sul sito di lavoro culturale

Marco Ambra: Sono giorni bollenti questi per la scuola pubblica italiana. Il ministro Carrozza annuncia l’assunzione a settembre di 15 mila docenti e Ata (Ausiliari tecnici amministrativi), firma il decreto che modifica le regole d’accesso dei corsi di laurea a numero chiuso, annuncia un piano di assunzione a costo zero per 30 mila docenti di sostegno. E poi: il “decreto Fare” stabilisce un taglio di 75 milioni di euro al fondo per le pulizie nella scuole, al fine di finanziare l’assunzione di 3000 universitari (1500 professori ordinari e ricercatori a tempo determinato), finanzia con 100 milioni di euro annui un piano per l’edilizia scolastica. Insomma, dopo mesi di palude tecno-spread qualcosa si muove. Ma in che direzione? Quale scenario configura questo spostamento di risorse (poche) nel e al mondo dell’istruzione e della ricerca?

Roberto Ciccarelli:
 L’ultima misura che citi sembra essere certa, anche se scommetterei su una sua eventuale rimozione, o spacchettamento in altri due o tre microprovvedimenti. La spending review permanente a cui è sottoposta la spesa pubblica sin da quando Padoa Schioppa l’ha inaugurata con il centrosinistra permette una rimodulazione permanente delle partite contabili. Governare significa amministrare una continua re-ingegnerizzazione dei conti e dei bilanci di tutti i livelli dello Stato. Il ministero dell’Istruzione, credo il più tagliato negli ultimi anni insieme alla Sanità (che verrà tagliata dal governo Letta fino all’osso), ha raggiunto ormai una straordinaria competenza in materia. Colpisce il criterio adottato dal ministro Carrozza e dal suo governo per sfuggire al blocco delle assunzioni all’università – ma non nella scuola. Per produrre ricerca, o meglio per fare scorrere la carriera di 1500 associati e attenuare la precarietà di 1500 ricercatori senza borsa né reddito, si tagliano gli addetti alle pulizie nelle scuole. È chiaramente una ratio classista quella in atto.
Il rovesciamento della retorica del pacchetto lavoro contro la disoccupazione giovanile approvato dallo stesso governo: in questo caso non si tutelano i diplomati o i laureati tra i 15 e i 29 anni, ma si fa esattamente l’opposto: si dà una mancia di 650 euro per qualche mese alle imprese che assumono chi non ha nemmeno un diploma, ha una famiglia a carico, non lavora da sei mesi. Stiamo parlando della povertà assoluta, che in Italia esiste ed è drammatica, ma è chiaro che questa scelta contrasta con il melodramma nazionale sui ragazzi diplomati e laureati ma disoccupati. Che fine hanno fatto? Per il governo sono scomparsi dopo mesi estenuanti passati a compiangerli. Queste misure, prese insieme nella loro antinomia o vera e propria contraddizione, restituiscono l’idea di società ed economia della conoscenza che hanno i quarantenni democristiani al governo con le larghe intese. Il lavoro è povero, i giovani sono proletari, il sapere – se esiste – è il risultato di differenze di classe inaggirabili, radicali, storiche. Nord contro il Sud, giovani contro vecchi, poveri e analfabeti contro il quinto stato proletarizzato di chi ha invece scommesso sulla propria formazione, affrontando almeno 10 anni di precarietà in una società che nega la mobilità sociale, vessa con tasse e contributi chi fa un lavoro indipendente.
Dietro l’evidente inanità di questo governo, peraltro non eletto e risultato di una crisi istituzionale senza uscita della Repubblica Italiana, dietro la mancanza di sapere e di intelligenza di un simile governo si nasconde l’assoluta impotenza. Sono amministratori di un condominio amministrato in maniera disastrosa dalla Troika. L’obiettivo è quello di sempre: cancellare lo stato sociale, scaricarne i costi sui cittadini, e sui loro risparmi, continuare la lotta di classe dei ricchi e delle élite per affermare una società classista dove la metà della forza lavoro sarà impoverita, analfabeta di ritorno. Questo governo, e tutti quelli che lo seguiranno, gestiranno l’austerità per la prossima generazione. La scuola, l’università, saranno o liquidate o comunque ridimensionate alla funzione di addestramento delle maestranze in una società di schiavi, precari o subordinati.
M. A. : Il caso del piano di assunzioni per gli insegnanti di sostegno è a mio parere emblematico. La manovra è resa possibile dalla circolare MIUR n. 8 del 2013 che allarga l’area dei Bisogni Educativi Speciali (BES) dai disturbi specifici di apprendimento (Dsa) all’area dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale. Nella logica di una scuola come luogo d’integrazione di soggettività e problemi differenti, il supporto educativo a questa area-ombrello del disagio scolastico viene affidata all’intero consiglio di classe. La stessa circolare, nella logica dell’austerità a tutti costi nei servizi sociali, insinua la possibilità che l’insegnate specializzato nel supporto ai DSA diventi una figura inessenziale, perché i bisogni educativi speciali potranno essere omeopaticamente diluiti in classi di 25-30 persone. Quali potrebbero essere le conseguenze di questo registro doppio nella logica ministeriale rispetto ai BES?
R. C. : Di nuovo, siamo in presenza di un principio contabile adattato a principio di governo. Il suo obiettivo è quello governare unaspending review che, dopo avere tagliato il capitale fisso – cioè i finanziamenti per le strutture – lavora in profondità per rimodulare il lavoro vivo, il capitale sociale e umano per dirla con i neoliberisti, degli insegnanti.Agli insegnanti tradizionali verranno attribuite le funzioni di quelli di sostegno, una misura resa necessaria da un’altra regola dell’austerità italiana: la riforma Fornero delle pensioni che nel 2013 ha dimezzato le assunzioni stabilite nel piano triennale della Gelmini: saranno 15 mila contro gli oltre 30 mila del 2012 tra ata e docenti precari. L’obbligo di permanere al lavoro stabilito dalla riforma per altri 4 o 5 anni è un’ulteriore mazzata sul blocco del turn over nella scuola, come in tutta la pubblica amministrazione. Questo incide anche sugli insegnanti di sostegno che da anni sono precari e sempre più discriminati, dopo tanta formazione. Insomma un blocco al quadrato. Per risparmiare si fanno lavorare persone già in età di pensione. Queste pensioni bloccano lo scorrimento delle graduatorie, li dove ci sono.
I sindacati e il ministero siglano contratti nazionali, quando ci sono i soldi, oppure aziendali, e quindi decidono anche per i precari, che non lavorano stabilmente e quindi non possono negoziare con il datore di lavoro i propri diritti. La scuola è un’eccezionale banco di prova di questa razionalità di governo che viene applicata ovunque nell’Europa dell’austerità, dove il governo del debito pubblico è l’unico senso possibile per chi si candida a governare qualcosa. Il paradosso è evidente: la spending review è l’unico modo per rilanciare l’economia. Ma come fai a rilanciare l’economia – ammesso che questo significhi qualcosa – se non hai persone con salari decenti e che lavorano stabilmente e quindi rilanciano la domanda interna? In questi paradossi tipici del capitalismo gestito dalla Troika la tutela dei diritti dei diversamente abili, la promozione attiva e la riqualificazione di chi è rimasto disoccupato o è precario, insomma tutto il vasto spettro dei diritti sociali di nuova generazione scompaiono totalmente. Purtroppo in questo caso ne andranno di mezzo i bambini e i ragazzi disabili. È una delle conseguenze prodotte dalla guerra praticata dall’austerità nella scuola. Non l’unico.
M. A. : Restiamo ancora sull’allargamento dei BES all’area dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale. Tradotto in altri termini i problemi di integrazione dei migranti sono sullo stesso piano dei problemi dell’integrazione delle disabilità e dei DSA, in una prospettiva antidiscriminatoria non hanno bisogno di figure professionali specializzate differenti da quelle “tradizionali” (insegnati curricolari e di sostegno). Eppure le figure specializzate e competenti non mancano: nel caso dello svantaggio linguistico gli insegnanti di lingua italiana come L2, nel caso dello svantaggio culturale gli educatori formati nell’ambito della mediazione culturale. Secondo te quali sono le ragioni che in questi anni hanno portato da un lato alla formazione di queste figure specializzate e dall’altro allo“smarmellamento” dei problemi specifici legati alle loro competenze?
R. C. : Quello della formazione di figure specializzate, anche nella gestione e nell’educazione del sostegno a scuola, rientra nella più generale definizione di didattica come trasmissione di competenze. L’insegnante è un esperto specializzato nel trasmettere la competenza ad essere competenti, questo almeno nella “pedagogia” neoliberale che ha trasformato radicalmente la didattica negli ultimi 20 anni. Questa capacità non riguarda solo l’insegnante, ma investe la stessa idea di lavoratore della conoscenza, di forza lavoro qualificata, insomma di soggetto e cittadino in una società dove l’economia dei servizi immateriali – in cui rientra la stessa istruzione – è inevitabile. Bisogna specificare che l’austerità è la negazione di questa realtà che è stata ben accetta fino al 2008. Da allora, con l’inizio della crisi, i ceti dominanti e tutti i partiti politici influenti in Europa hanno deciso di rimodellare questa idea di società che ha bisogno di enormi investimenti sulle persone, sulle loro potenzialità, appunto sulle “competenze”. Senza contare gli investimenti che dovrebbero essere fatti sulle strutture, sulle reti, per i territori e le città, protagonisti tutti di questa economia in un’osmosi con gli individui e la loro capacità di relazione e di produzione immateriale. Insomma la green economy, come la green society, è la reale alternativa al capitalismo fordista se riceve una quota almeno paragonabile a quella dei capitali che la manifattura e lo stato sociale hanno ricevuto per almeno un secolo dallo Stato e dal suo fratello gemello Capitale.
Così non è, chi ha scelto l’austerità, ha scelto tutt’altra strada, un’altra idea di capitalismo. Non sarò io certo a dire che questa è migliore dell’altra idea. Certo, noto quanto fosse insulsa la retorica sulla società della conoscenza negli anni Novanta, un periodo in Italia di altissima disoccupazione intellettuale, e noto quanto sia ignobile e vile la realtà dell’austerità oggi. Il problema è il capitalismo, ma anche la democrazia che cerca inutilmente di gestirlo. Tornando all’idea di competenza, gli insegnanti di sostegno che sono stati formati – come molti altri in altri settori – a questa competenza non servono più. Il danno è evidente e penalizzerà sicuramente i bambini e i ragazzi disabili. Ma è altrettanto chiaro che l’austerità è la negazione vivente del regime simbolico, economico, sociale in cui è cresciuta l’economia delle competenza e la necessità di formare la forza lavoro alla produzione e all’espressione di competenze sempre più specifiche per trovare una nicchia, o per inventarne di nuove, su un mercato teoricamente sempre in evoluzione. Anche su questo punto, la razionalità neoliberista è esplosa, investe il soggetto sin nelle più intime falde biologiche e cognitive. Nel caso della scuola, come di moltissimi altri ambiti del resto, questo bloccherà l’integrazione e l’insegnamento all’uso e al godimento di una cittadinanza sociale non “normale”, cioè riservata ai sani, normati, bianchi, italiani, in buona salute.

È ormai liquidata l’idea che il lavoratore più è esperto più riesce a trovare una collocazione sul mercato. Il “sapere” non vale se è più specifico, ma al contrario se è più generico.
 L’intellettuale in sé non serve, soprattutto se è uno specialista di qualcosa. L’attitudine al lavoro intellettuale, e con questo intendo genericamente l’attitudine alla trasmissione di cornici simboliche, linguistiche, deve avere tutt’al più competenze pratiche, dev’essere un banale manipolatore di lineamenti empirici della vita quotidiana. Se è competente di qualcosa, si dedicherà ad un hobby, lo svolgerà da solo nella sua vita privata. Ma se casomai avrà la ventura di avere un contrattino, un incarico, 300 euro al mese insomma, dovrà mettere tutto da parte, esplicitare regole principi e procedure stabilite nella struttura che lo ha reclutato a tempo. È il sistema che detta le regole. Non c’è più spazio per la mediazione o per la soggettività. Non che prima questo fosse così facile, anzi. Ma prima il soggetto era costretto, forzato anzi, a specializzarsi in vista della competizione, un esercizio violentissimo di coazione a ripetere e a mobilitare tutte le risorse psicofisiche. L’austerità produce depressione, smorza le passioni, impone una media, una normalità, una misura sovrana che il singolo deve esprimere nella vita sociale.


Marco Ambra: Veniamo adesso alla valutazione. In questo ambito l’INVALSI promuove forme di standardizzazione delle prove volte a fornire dati statisticamente significativi, in barba alla molteplicità delle intelligenze e alla situazione emotivo-affettiva di chi affronta quelle prove. Su questo blog abbiamo discusso anche la prospettiva di chi ritiene la valutazione un aspetto fondamentale, se non necessario della scuola del futuro. Non ti nascondo che anch’io vedo in una qualche forma di valutazione uno strumento utile per leggere una parte della realtà scolastica, se non altro per poter metter costantemente in discussione i propri metodi di insegnamento. Credo anche che la scuola pubblica di un paese democratico debba dar vita a delle forme partecipate e critiche di autovalutazione. Cosa pensi della valutazione scolastica all’italiana? Perché non siamo in grado di organizzare un sistema di autovalutazione?
Roberto Ciccarelli: Ti confesso che non mi è chiaro questo concetto di “auto-valutazione”. Che cos’è: una chiamata alla responsabilità del docente e del collegio dei docenti? Una seduta di autocoscienza, con i presidi e gli ispettori dell’INVALSI, per riflettere sui moduli di insegnamenti? Un programma partecipato per definire se l’italiano deve comprendere Claudio Magris all’ultimo anno delle superiori, o se Judith Butler può essere l’oggetto di una scheda nel manuale di filosofia ad uso dei classici? Il valutare è un atto che esclude la responsabilità che non a caso è un concetto incarnato nella facoltà di giudizio. Nella valutazione, il giudizio è sempre comparativo rispetto ad una tabella di redditività, di efficacia performativa, ad uno schema preformato determinato da esperti. Si valuta in base ad un parametro esistente, stabilito magari anche su base sperimentale, empirica. Il giudizio è l’opposto: si esercita in base ad un’idea trascendentale, teoricamente infinita, senza modelli preformati che non sia proprio questa idea di trascendentale.
Ora, per me che lavoro sul pensiero dell’immanenza questo è chiaramente un problema perché bisognerebbe fare a meno del giudizio, come diceva Deleuze, in quanto il giudizio è l’esplicitazione del trascendentale in quanto tale, senza corpo, un puro esercizio di razionalità giudiziaria, proprio come quella che usano giudici e avvocati in un tribunale. Al di là di questi elementi per me determinanti nell’uso di concetti come valutazione o giudizio, è chiaro che il dispositivo dell’istruzione moderna, quella pubblico-statale di cui qui stiamo discutendo, auspica una parziale liberazione del giudizio basato sull’infinitezza della trasformazione del soggetto. Questa parzialità è contraddetta dalla burocrazia della scuola, dal fatto che i programmi vengono decisi dallo Stato e i docenti e gli studenti devono seguirli. Ieri la certificazione avveniva in base alle regole stabilite dall’alto, dai burocrati di stato.
Oggi, da quando la scuola si è trasformata in un’azienda che funziona come un’impresa postfordista o un assessorato alla cultura che organizza un festival, sfruttando lavoro precario e commesse contingentate, la certificazione viene fatta da esperti ai quali i vecchi burocrati si affidano. In entrambi i casi, è lo Stato che certifica l’oggettività di saperi e competenze rispetto al mercato. In entrambi i casi, il giudizio si trova sempre estraneo, spaesato ma mantiene una funzione per così dire biunivoca. Non esiste se non viene esercitato dal docente e dal discente, insieme. Non può che essere libero, costruirsi nel suo movimento, nell’atto del confronto e nella critica di una disciplina, o di una norma. Il giudizio è l’oggetto stesso dell’attività vitale del soggetto. È un esercizio interminabile di adeguazione della cosa al soggetto e non l’opposto: del soggetto alla cosa, ad un numero, ad un’idea di rendimento.
Al limite, ma qui entrerei in una discussione sull’immanenza, il giudizio per essere tale deve smettere di esprimere un giudizio, smettere cioè la veste cortigiana o tribunalizia della sentenza definitiva sulle cose e dedicarsi al suo movimento più immanente. Cioè all’intrattenimento che rappresenta il suo infinito esprimersi tanto nell’oggetto quanto nel soggetto, nella cosa e nella sua rappresentazione, tra una regola e un principio. L’obiettivo è sempre quello di innovare creando nuove norme. Ma tutta questa attività è sovversiva per la scuola, come per l’università. Non c’è tempo, bisogna fare i programmi, non perdere il tempo con il giudizio e con la perdita di giudizio.
Questa è l’anomalia che nasce in ogni convivenza, soprattutto quando si sta a scuola, si impara, si scopre l’erotismo implicito di questo movimento, un erotismo che non è solo sessuale, ma è un dare forma sensuale ad una passione, saperla indirizzarla e poi perdersi, ritrovandosi all’infinito. Quella in atto nelle istituzioni pubblico-statali della conoscenza è una reazione furibonda, un vero e proprio odio, contro questa eccedenza del giudizio su se stesso, contro l’aspirazione del soggetto a liberarsi da se stesso, cioè dall’innata corteccia statale-capitalistica in cui la sua vita è incapsulata. Per questo la valutazione è entrata nella semantica usata nella scuola, dai presidi che fanno i manager e dai ministri che sono ingegneri, rettori, avvocati del nulla spinto del neoliberismo applicato tanto alle banche quanto all’istruzione.
Valutare è anche un atteggiamento oggettivante e sessista: si valuta se questa donna mi assomiglia, mi conviene, mi piace. Il consumatore valuta una merce in base ad un prezzo. Valuto se conviene andare in vacanza o sposarmi. Si valuta se questo bambino è conforme alla regola stabilita dagli esperti. Insomma, la valutazione appartiene alla sfera economica o all’autorità, il giudizio e il farla finita con il giudizio, appartiene alla sfera dell’esperienza, dell’erotismo, della conoscenza, in una parola della vita.
Vorrei infine notare che dietro questa idea di valutazione, e quindi dell’Invalsi per la scuola o dell’Anvur per l’università e la ricerca, esiste forse l’ultimo ambito in cui lo Stato resiste. È lo Stato ad assumere i consulenti che formulano i quiz Invalsi, che pagano piuttosto bene i valutatori dell’Anvur per giudicare la “scientificità” di una ricerca. La valutazione è sempre un sapere di Stato, quel sapere che ormai lo Stato non riesce ad esercitare più sul capitale o sulla società.
M. A. : Per concludere, una battuta sul referendum bolognese del 26 maggio scorso. Se le pressioni che vengono dall’OCSE, dal ministero e da una parte della società italiana sulla necessità della valutazione dei risultati scolastici è funzionale all’incentivazione e al potenziamento dell’istruzione privata, cosa ci dice invece il risultato delle urne bolognesi?
R. C. : Quella bolognese è stata una bella battaglia, è stata vinta e mi auguro fortemente che la sinistra e i movimenti, la società civile, tutti i laici, e le famiglie responsabili, riescano a creare cento, mille referendum come questi in tutte le città italiane.
Mi auguro che un giorno si trovi anche uno strumento per rendere vincolante quello che realmente pensa la cittadinanza italiana sulla scuola. Così non è stato a Bologna, purtroppo, perché il referendum era solo consultivo e il sindaco Merola e la sua maggioranza troveranno il modo per farlo dimenticare. È stato però un momento altissimo della politica della conoscenza in Italia: i trecento spartani con le loro fionde hanno abbattuto l’esercito di Serse composto da confindustria, la chiesa, il Pd, i commercianti, come ha detto Wu Ming. Si direbbe un’impresa epica, anche perché ha rivelato il grado di compromissione e organicità del Pd e del centro-sinistra all’ideologia neo-liberale che va a braccetto con la scuola confessionale e l’idea dell’impresa capitalistica che le scuole private rappresentano.
La scuola paritaria è un’aberrazione del capitalismo familistico italiano, della compromissione che lo Stato repubblicano intrattiene con la Chiesa cattolica da decenni. Uno Stato non deve dare soldi alla Chiesa, deve requisire i beni di pubblica utilità e tassarne le rendite, senza discriminazioni ma con assoluta determinazione. Non c’è mediazione possibile con i preti e con la loro religione opportunistica in nome di un Cristo che li disprezzerebbe. Rompere tutti i patti che legano questa chiesa al futuro culturale, spirituale, emotivo e politico delle generazioni che verranno. Un’impresa disperata si direbbe in Italia, d’accordo, lo sappiamo.
Ma il referendum bolognese ci ha fatto capire che il Pd è penetrabile, lo si può sconfiggere in base a questi presupposti e che, nonostante il boicottaggio organizzato dai suoi servi, la cittadinanza è sensibile all’idea della redistribuzione delle risorse sequestrate dai suoi accordi con la chiesa, con il capitale, con le burocrazie che amministra. Bisogna attaccare il centrosinistra, per raggiungere questo obiettivo. Non esistono ancora le forze, sono vent’anni che riscontriamo anzi la debolezza estrema di ipotesi alternative, del resto sono state affondate dal fallimento della “sinistra” in Italia. E tuttavia abbiamo intuito il sentiero da percorrere. È già qualcosa.
Secondo me è questo uno dei problemi politici che fondano l’austerità oggi. Non sono del tutto convinto che il neoliberismo abbia la capacità di incentivare più di altri l’istruzione privata, e non credo che nemmeno l’Ocse si straccerebbe le vesti per un obiettivo simile. Viceversa, si sono giocati l’anima affinché lo Stato, e quindi la scuola, fossero gestiti come un’impresa privata, secondo le regole del new public management. Questo però è un discorso completamente diverso da quello sulla “privatizzazione” che è troppo dispendiosa, soprattutto in tempi come questi. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è di armare il pugno che spacchi il fronte politico, e culturale, che regge l’austeritàDobbiamo accumulare le nostre forze, questa è la sfida più difficile oggi.

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