Primo
giorno di primavera.
Giornata
mondiale della poesia, proclamata dall'UNESCO: il 21 marzo.
Oggi
è stata occupata l'Opera Garnier di Parigi da parte deigli
intermittenti dello spettacolo che chiedono “assurance chimage”
Oggi
l'Angelo Mai Altrove Occupato torna a manifestare
***
C'è
un libro formidabile, e oramai assai famoso, colpevolmente letto in
ritardo, Stoner
di John
E. Williams,
nella bella traduzione di Stefano
Tummolini
(Fazi editore, 2012, ma uscito nel 1965 e riscoperto solo negli anni
Zero),
soprattutto le pagine da 37 a 41, che partono da questa domanda:
«Signori,
avete mai riflettuto sulla vera natura dell'università?»
Siamo
sull'orlo del primo conflitto mondiale, nell'università del
Missouri, tre dottorandi-lettori di letteratura inglese che si
incontrano al pub il venerdì sera. Stoner
è il protagonista, terragno del Midwest, che fugge dalla
fattoria di campagna dei genitori e soprattutto da quella terra
faticosa da arare, ogni giorno più grigia e arida. Potrebbe
essere uno dei protagonisti del Quinto
Stato
di
Ferdinando
Camon
(Garzanti, 1970, con prefazione di P.P. Pasolini), quando parlava
della millenaria esistenza dei contadini veneti. Ma è anche un
solitario anticipatore del nostro Quinto
Stato
di
squattrinati lavoratori della conoscenza. Poi c'è
Gordon
Finch,
il più incompetente dei tre, come viene descritto. Quindi Dave
Masters,
il gradasso ed esuberante: scomparirà subito dal libro, prima
di lasciarci poche battute, mirabili, sull'università. Senza
dimenticare che John Williams, l'autore di Stoner
e di un altra manciata di piccoli capolavori, nato da una famiglia di
contadini del Texas non fece altro che scappare dal Texas e insegnare
per tutta la vita nella piccola università di Denver,
consumandosi nell'alcol.
E
allora ecco la risposta:
(p.
38) «L'università è un ospizio, o...come le
chiamano adesso? Una casa di riposo per vecchi e malati, per gli
infelici, gli inetti di ogni genere. Guardate noi tre. Siamo noi
l'università. Un estraneo non si renderebbe conto di quanto
abbiamo in comune, ma noi
lo sappiamo bene. È vero o no? Lo sappiamo benissimo»
[...]
(p.
40) «Siamo
tutti miserabili buffoni, e siamo al freddo».
«Re
Lear»
disse serio Stoner.
«Atto
terzo, scena quarta», aggiunse Masters. «E così la
provvidenza, o la società, o il fato, comunque vogliate
chiamarlo, ha
costruito per noi questo rifugio,
che
ci protegge dai venti di tempesta.
È per noi che esiste l'università, per i diseredati del
mondo. Non per gli studenti, non per la disinteressata ricerca della
conoscenza, né per altre ragioni che sentite dire. Quelle sono
solo copertura, come quei pochi individui normali, idonei al mondo,
che di tanto in tanto accogliamo tra noi. Ma è tutto fumo
negli occhi. Come la Chiesa nel Medioevo, cui non interessava un fico
secco né dei laici, né di dio in persona, ci servono
dei pretesti per sopravvivere. E sopravviveremo, perché così
dev'essere».
Finch
scosse la testa ammirato: «A sentire te, siamo proprio degli
infami...».
«Forse
sì», rispose secco Masters. «Ma per quanto infami,
siamo sempre meglio di quelli che vivono lì fuori, nel fango,
i poveri bastardi del mondo. Non
facciamo del male a nessuno, diciamo quello che vogliamo, e
addirittura ci pagano per farlo.
Questo è un trionfo della virtù naturale, dannazione. O
poco ci manca».
(p.
41) […] “per molti anni, e nei momenti più strani, Stoner
ripensò spesso alle parole di Masters. Pur
essendo estranee all'idea di università che aveva abbracciato,
gli rivelavano qualcosa di importante sul suo rapporto con quei due
uomini, ricordandogli
l'amarezza limpida e corrosiva della gioventù.”
E
a proposito di gioventù, visto che siamo nella giornata
mondiale della poesia e ricorrono i 160 anni dalla nascita di Arthur
Rimbaud (20 ottobre 1854), giovane e visionario tra i poeti, che
della sua gioventù ha fatto un'opera d'arte, in fuga dalle
Ardenne di Charleville, tra le rovine de La
Commune de Paris
e i lidi africani, orientali, mediterranei...
Ecco,
in questo primo giorno di primavera, rimuovendo lo sconforto di
essere incasellati nella generazione che non
studia e non lavora,
la Teen-NEET
generation,
mentre tutti, professori, genitori e politici, vorrebbero
costringerli all'obbedienza di trovare “un posto nel mondo” –
dalla scuola, all'università, al lavoro che non c'è, o
ce ne è pure troppo ma fosse mai pagato – allora, anche solo
per un giorno o per una notte, che i viali delle nostre città
(quando
i tigli sono verdi lungo il viale)
si possano riempire dei sogni
concreti di una generazione,
di ragazze e ragazzi
«allegri e incantati»,
direbbe Stoner-John
E. Williams,
che si vuole ingabbiare nell'austero rigore, seriamente fallimentare,
delle nostre famiglie, Stati, imprese e università...
Nessuno
è molto serio quand'ha diciassett'anni.
I
caffè strepitanti dalle luce splendenti,
Le
bibite e la birra d'improvviso t'annoiano,
E
allora vai a spasso per il viale dei tigli...
Nessun commento:
Posta un commento