Sergio Bologna
Carissime/i
la discussione che si è aperta in questi giorni sulle politiche del
lavoro del governo Renzi ci ha dimostrato una volta di più l’ottusa
resistenza che gli ambienti politici, accademici e sindacali – tranne
alcune eccezioni – continuano ad opporre ad una visione moderna del
lavoro. Mentre il Parlamento Europeo, che non è l’istituzione più vicina
ai cittadini, dichiara a larga maggioranza che i freelance hanno gli
stessi diritti sociali dei lavoratori dipendenti, le nostre classi
dirigenti ripropongono uno schema che riconosce come “lavoro” solo il
lavoro dipendente oppure le varie forme in cui il lavoro dipendente può
essere reso “flessibile”. Deplorevole di questo atteggiamento non è
tanto – o non solo – il disconoscere l’esistenza di altre forme di
attività lavorativa quanto il persistere di una politica di
flessibilizzazione del lavoro dipendente che ha portato al declino del
nostro paese ed a una disoccupazione giovanile del 42%. Non è vero che
il nostro paese è fatto di garantiti e non garantiti, di tutelati e non
tutelati, magari fosse così!
E’ fatto di non tutelati e di lavoratori
che stanno perdendo gradatamente le loro tutele, se non di diritto,
certamente di fatto. E’ dai tempi del “pacchetto Treu” che si professa
il dogma della flessibilità all’entrata come rimedio alla
disoccupazione. Dopo vent’anni che questo assioma ha prodotto i disastri
che sono sotto gli occhi di tutti, il governo Renzi rincara la dose,
eliminando ogni causale dalla ripetizione dei contratti a tempo
determinato (Forti critiche a queste misure sono state espresse da molte
parti, tra gli altri da Tito Boeri su la voce.info e da Chiara Saraceno su ingenere.com).
Sono vent’anni che Confindustria, contrastata
flebilmente dal sindacato (per usare un eufemismo), ci dice che il costo
del lavoro per unità di prodotto è il più alto d’Europa e quindi la
produttività del lavoro in Italia è al penultimo posta nella UE. Ma la
produttività del lavoro dipende dagli investimenti, soprattutto
nell’epoca delle nuove tecnologie informatiche. La percentuale
costituita da investimenti tecnici del capitale delle società italiane
quotate in Borsa, secondo lo studio di Mediobanca sui conti economici di
2035 imprese italiane, è pari al 28,0%, la percentuale destinata ai
dividenti è pari al 30,9% e la percentuale destinata gli investimenti
finanziari è pari al 25,4% (Indagine Mediobanca 2013 “Dati cumulativi di
2035 imprese italiane”, su www.mbres.it). Quasi un terzo del capitale
disponibile se lo sono mangiato gli azionisti, un quarto i signori della
finanza (leggi le banche), solo un residuo è stato investito
nell’azienda. Le imprese non quotate, in mezzo alle quali si nasconde la
parte più “sana” dell’imprenditoria italiana, hanno destinato un’eguale
quota agli impieghi finanziari, ma poco meno del 20% ai dividendi e il
59,6% agli investimenti tecnici.
Da vent’anni la grande impresa italiana
non assume, da qualche anno ha smesso di assumere anche la media
impresa. Chi crea lavoro è la piccola e la microimpresa, spesso forma,
quest’ultima, di “lavoro autonomo con un minimo di organizzazione”, così
definito da una giuslavorista acuta e brillante come Orsola Razzolini.
Ma non basta. Le grandi imprese non solo si sono mangiate i soldi invece
di reinvestirli, ma la quota maggiore del loro fatturato, addirittura
il 61% (dato del 2012), lo hanno realizzato estero su estero, grazie ad
un’attività sfrenata di delocalizzazione cui si sono dedicate
soprattutto le industrie del made in Italy. Queste sono le imprese, è
bene notarlo, che maggiormente hanno goduto della Cassa Integrazione,
sono le imprese che più di altre intrattengono stretti rapporti con il
mondo della finanza, da queste imprese nascono le lobbies che dettano ai
governi le politiche del lavoro (Come se non bastasse, le assurde
ricette per il rilancio economico e le trovate della Commissione Europea
gettano altra benzina sul fuoco che divora la nostra società (v. le
osservazioni di Radrik, L’Europa e le ricette sbagliate su
sbilanciamoci.info del 18 marzo e le dure parole di simplicissimus su
networkedblogs.com del 21 marzo in merito al progetto di prelievo
forzoso delle entrate tributarie per pagare il fiscal compact).
Ora, io mi chiedo: sono solo i lavoratori autonomi, i professionisti con
partita Iva ai quali si sputa in faccia con un disprezzo pari
all’ignoranza della loro condizione oppure sono milioni di lavoratori
dipendenti e di precari che vengono trattati al pari di un bagaglio
ingombrante?
ACTA continua il suo sfibrante, defatigante, frustrante lavoro di
cercare di spiegare ad ogni nuovo volto che appare sullo schermo del
governo chi siamo e cosa vogliamo. Malgrado le nostre spiegazioni siano
sempre più esaurienti e le nostre proposte sempre più dettagliate,
sempre allo stesso punto ci troviamo. ACTA svolge questa attività in una
solitudine disperante, mentre le cosiddette rappresentanze del lavoro
professionale, che ci assordano con bollettini enfatici in cui dicono di
essere sempre di più, non si sa bene che cosa fanno e se la condizione
materiale ed i diritti civili dei professionisti sia di loro interesse
oppure no.
Credo che siamo arrivati al punto in cui ACTA debba alzare il tiro o,
possibilmente, spostarlo. Parlando solo di diritti dei lavoratori
autonomi rischia di farsi liquidare come una tribù in via di estinzione,
un’etnia da rinchiudere in una riserva. ACTA deve introiettare la
consapevolezza di parlare a nome di tutti coloro che vengono bistrattati
da questo capitalismo di cafoni, un capitalismo fatto di gente tanto
più miserabile quanti più soldi ha, accozzaglia di pseudo-manager, di
cialtroni abituati a dettare legge a un ceto politico e sindacale, a una
cultura, accademica o giornalistica, che non riescono a staccarsi un
millimetro da stereotipi maturati negli anni di Craxi e di Larini.
Questi stanno distruggendo il mercato delle competenze.
Della
conoscenza, dell’esperienza non sanno che farsene, cercano solo schiene
piegate e lingue ingessate. ACTA produce valore in mezzo a questo
panorama di gente che distrugge ricchezza e beni comuni, ACTA produce un
punto di vista sulla realtà diverso perché maturato all’interno di un
modo di lavorare e di vivere diverso, innovativo per natura e per
necessità. ACTA deve dialogare, deve cercare alleanze con tutto ciò che
sa di innovazione, lo deve cercare all’interno del mondo dell’impresa,
lo deve cercare anche tra quei servitori dello stato che, spesso isolati
da tutti e umiliati dalla loro stessa amministrazione, difendono i beni
collettivi, lo deve cercare in quel che resta del mondo della cultura e
della scienza.
Lo deve cercare nella società civile: il Freelance Day
che ACTA ha organizzato a Torino con Toolbox, lo spazio di co-working
più grande d’Italia, è stato un momento di apprendimento e di produzione
dell’innovazione, perché lì c’era gente che fa appello solo alle
proprie risorse immateriali, intellettuali, emotive, a quello che
chiamano ‘capitale umano’, senza chiedere nulla a nessuno perché da
nessuno si aspetta qualcosa. Produzione di valore non vuol dire
immediatamente produzione di ricchezza, vuol dire innanzitutto
produzione di un habitat dove si ricostituisce un comportamento
collettivo, collaborativo. Lasciamo che sindacalisti i quali per anni
hanno osservato senza fiatare il degrado delle condizioni di lavoro
giovanile ci definiscano con i più vieti clichè (“evasori”), lasciamo
che qualche imbecille in cattedra con concorsi truccati ci definisca
“finti”, non è quello il terreno del confronto.
Rivolgiamoci di più ai
lavoratori dipendenti che stanno smottando verso una condizione peggiore
della nostra, rivolgiamoci di più al mondo del precariato, non
calchiamo la mano sulla specificità della nostra condizione, è
tatticamente sbagliato, rischiamo di costruirci da soli il filo spinato
della riserva. Parliamo invece a nome di tutti quelli che dalle
politiche del lavoro perseguite negli ultimi vent’anni sono stati e
continuano ad essere danneggiati. Ma parliamo soprattutto a quelli e con
quelli che hanno trovato nell’innovazione il modo di costruirsi
un’esistenza meno frustrante, sicura di sé, dignitosa, anche e
soprattutto dentro la crisi.
Pubblicato su Acta
Bella la raffigurazione...del manifesto socialista.....il popolo delle p.iva monocommittente è diventato il 5° stato che avanza....silenzioso..a pecoroni...il tutto con un occhio benevolo dei governi di sinistra....che da una parte difendono i lavoratori....dall'altra mazzolano le partite iva....
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