venerdì 8 dicembre 2017

FUORILUOGO OVUNQUE, OVUNQUE A CASA


Roberto Ciccarelli

Lo straniero mette in discussione l’identico e la proprietà, evidenzia l’estraneo che risiede nel proprio. Straniero è la possibilità di essere diverso da ciò che si è. Lo straniero non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa è una conquista nella consapevolezza dell’essere umano ed è stata definita da Freud come “perturbante”, ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande: l’Io è un altro ed è fondamentalmente straniero a se stesso. 

È unheimlich, letteralmente un essere-senza-casa. L'origine sta nel movimento, quello fisico, tra i continenti, alla ricerca di un'apertura del muro eretto dallo Stato, tra le navi da guerra che danno la caccia ai migranti fuggiaschi. E nel movimento dello sporgersi fuori da sé, nel fluire nella vita, non ne dominare. Straniero sei tu, oltre la cittadinanza, oltre la nascita in un luogo. 

Wanderung, si dice ancora in tedesco. In questa parola, profonda come la storia, c'è il migrare e l'errare. La verità di questa parola bellissima è questa: chi abita non è mai puro. Viene da un movimento, si dirige verso un altro movimento. Il punto dove è arrivato coincide con una nuova partenza. Prima che fosse l'abitante di una terra, c'era l'errante che ha deciso di fermarsi, prima di ripartire. Questa verità è scandalosa nel tempo dello sciovinismo del benessere, del cinismo securitario, del "non sono razzista, ma...". E' inquietante che il bianco sia come il nero: oggi è inaccettabile per lo Stato armato dall'odio contro i migranti.


Lo straniero - scrive Donatella Di Cesare in Stranieri residenti, un libro tanto bello, quanto opportuno oggi - scuote l'abitare, lo estranea, lo sradica dalla terra, lo strappa al possesso e all'appartenenza a un territorio. Il suo movimento va anche inteso in termini esistenziali e ontologici. Straniero è l'essere rispetto a se steso, il rinvio permanente a un'apertura del mondo, e nel mondo. Ciò che è "inappropriabile" è dunque la proprietà stessa della terra e della vita.

In tutte le culture esiste questa figura dello "Straniero". C'è in Platone, ad esempio. E in Aristotele. Nella Torah gli abitanti della terra sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei. Già nella Torah, segnala Di Cesare, lo straniero è il lavoratore a giornata, il salariato, che per sopravvivere dipende dal salario. E così viene sfruttato. Questa dinamica oggi ritorna nel lavoro agricolo e nel caporalato nelle cui reti sono imprigionati i lavoranti a giornata migranti. E non. 

Perché l'errante, come il migrante, mettono a nudo il mito dell'identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, l'insostenibile verità per il "popolo": la vita è una stabilità precaria che finisce per creare un nuovo movimento. Il Sé autoctono crolla su se stesso, nell'illusione dell'immobilità, crogiolandosi in una proprietà che lo annienta. Però non ci perdiamo in un'erranza senza ritorno. Facciamo ritorno a una casa che è sempre altrove. La casa è questo altrove che abitiamo noi e gli altri. La nostra casa è l'internazionale. 

Fuoriluogo ovunque, ovunque a casa. 

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