mercoledì 9 novembre 2011

Naufraghi e Pirati nel galeone Italia



Scritto qualche giorno prima della fine del berlusconismo, questo articolo di Sergio Bologna rafforza l'idea che c'è un solo modo per uscire dalla crisi: "Possiamo e dobbiamo certo difendere con le unghie e coi denti quel poco che resta dello stato sociale - scrive Bologna - ma dobbiamo al tempo stesso pensare alla rifondazione del mutuo soccorso, a un sistema di tutele costruito con le nostre braccia, così come lo avevano concepito e realizzato milioni di operaie e operai semianalfabeti più di un secolo fa"

Sergio Bologna


Mentre metto giù queste righe il governo Berlusconi continua a vacillare ma non cade, l’inettitudine dell’opposizione non è in grado (o non vuole) farlo cadere, probabilmente il PdL si sfalderà al suo interno, lentamente. Chi sta fuori dal “recinto”, come lo chiama Bertinotti, e non è completamente rimbecillito, si chiede: il governo “tecnico” che può succedergli sarà peggiore? Adotterà misure più drastiche, tagli più devastanti e una politica di “sviluppo” – quella abbozzata da Marcegaglia – che distruggerà quel poco di buono che c’è nell’imprenditoria italiana? Una politica fatta di “infrastrutture-maggior flessibilità del lavoro-pensioni”, cioè di cemento e stecche ai partiti, maggior precarietà lavorativa, allungamento dell’età pensionabile non può che portare alla stagnazione. Peggio di così è difficile immaginarlo. In vista del congedo di Berlusconi la rivolta dovrebbe quindi prepararsi ad aumentare di intensità.

1. Questa è la parte visibile dello spazio pubblico. Ma ci sono altri piani della realtà. La generazione digitale quello spazio pubblico lo ha abbandonato da tempo, con un esodo di massa. Non ne resta assente del tutto, vi interviene con altre forme del linguaggio e della comunicazione, che sono al tempo stesso strategie di sopravvivenza e costruzione di un territorio dove lo stato, come forma giuridica, non esiste quasi. Esiste la comunità. Quelli che noi chiamiamo i “movimenti” sono eruzioni che provengono da questo territorio. Quando rientrano o si sgonfiano, il territorio rimane, arricchito o inaridito, ma rimane; ed è lì che dobbiamo cercare i punti di riferimento. Perché là è racchiusa la parte vitale di questo Paese, contrapposta al lezzo del cadavere in decomposizione dello stato.

2. Molte persone di buona volontà vorrebbero ricostruire lo stato, avere un’amministrazione pubblica efficiente, al servizio del cittadino, una scuola, una sanità, una tutela del patrimonio artistico e dell’ambiente fatta di gente competente e onesta. Uno stato sovrano, che agisce su mandato dei cittadini, non un galeone dalle vele stracciate, sballottato dai cosiddetti “mercati”, impotente e capace solo di divorare se stesso. Molte persone competenti e generose tentano oggi nella pubblica amministrazione di tenere a galla questo galeone, ma falle si aprono da tutte le parti del suo scafo. Ci sono veri e propri “eroi” nella sanità pubblica, nella scuola pubblica e in tante altre funzioni pubbliche che, sempre più soli, lottano per impedire l’affondamento. Ma temo che sia troppo tardi, ormai lo stato è una carcassa spolpata ogni giorno da nugoli di sciacalli sempre più numerosi. L’ondata di privatizzazioni, che Confindustria attende con ansia di poter salutare appena Berlusconi se ne sarà andato, darà un altro colpo mortale a quell’entità che chiamiamo stato.

3. Perciò più che ai “movimenti” e alle “rivolte” noi dovremmo pensare a rendere organico e autosufficiente il territorio da cui nascono. Possiamo e dobbiamo certo difendere con le unghie e coi denti quel poco che resta dello stato sociale, ma dobbiamo al tempo stesso pensare alla rifondazione del mutuo soccorso, a un sistema di tutele costruito con le nostre braccia, così come lo avevano concepito e realizzato milioni di operaie e operai semianalfabeti più di un secolo fa. Possiamo e dobbiamo riportare rigore nell’università, competenza, passione didattica, ma dobbiamo al tempo stesso creare un’altra cultura, un altro sistema di pensiero economico, politico, filosofico. Basterebbe un esempio per far capire l’immensità di un compito di questo genere: un diverso sistema di pensiero sul lavoro, un diverso orizzonte mentale sul lavoro. Dove lo trovate oggi? Nell’università, nel sindacato, nell’informazione? Ci trovate l’opposto, la riproduzione di schemi vecchi, l’asservimento al modello capitalistico dominante.

4. La generazione digitale è riuscita a rendersi autonoma, indipendente, almeno da uno dei tanti poteri che ci riducono allo stato d’idiozia: dal potere dell’informazione. E’ stato il primo passo, ma ha dato la misura di quali orizzonti si aprono a chi vuole – per manifesta inferiorità verso le forze che lo opprimono – “uscire” dallo spazio pubblico, costruirsi una sua riserva e magari da lì rilanciare un progetto di società diversa. Rendersi autonomi dall’informazione e disinformazione dei media significa non condividerne più il linguaggio, adottare un diverso codice di comunicazione. Questo vale in particolare per il linguaggio della politica. Rendersi autonomi dai media ha significato anche non lasciarsi più etichettare, definire, inquadrare, da spettatori esterni, da “scienziati del sociale”, da professionisti dell’osservazione. Vale solo la parola di chi vive la situazione esistenziale, di chi c’è dentro fino al collo. Vale soltanto l’autorappresentazione, anche se comporta rischi altissimi di isolamento individualistico, di resistenza alla coalizione.

5. Una parte dell’impresa italiana oggi lavora bene, commercia, guadagna. Sarà la Cina, sarà la Germania, sarà il Brasile, sarà la Turchia, è un fatto che, mentre siamo frastornati dalla crisi del debito sovrano, nel privato di certa piccolo-media imprenditoria gli affari vanno bene. Non si vedono, cercano di farsi vedere il meno possibile, avrebbero bisogno di qualche sostegno pubblico ma preferiscono farne a meno, se la cavano da soli, anche con un credito bancario che è agli sgoccioli. Non ne abbiamo cognizione forse, perché la scena è occupata da chi ha la voce grossa e chiede soldi, soldi, soldi allo stato, da chi può avere la cassa integrazione anche se non ne ha bisogno, da chi riesce a farsi prestare denaro dalle banche sapendo che non lo restituirà mai, da chi investe 10 solo a patto che lo stato investa 100 e poi pretende che quel 10 sia pure tutelato da garanzie pubbliche. La Fiat è l’esempio tipico, come ricordava Massimo Mucchetti in un talk show televisivo: sono anni che i suoi azionisti non tirano fuori un quattrino, i suoi centri di ricerca hanno brevettato innovazioni strepitose, se le son vendute per un tozzo di pane, le sue obbligazioni sono titoli spazzatura, Marchionne non è riuscito a partorire uno straccio di piano industriale, dovesse aumentare la sua quota in Chrysler si porterebbe dentro quattro miliardi di buco dei fondi pensione. Mi ricorda, il Marchionne, i balordi che nei sotterranei del metro fanno il gioco delle tre tavolette. Ma quanti sono come lui! Il grande capitale nel nostro paese non ha fatto il suo mestiere, non ha investito, proprio dal momento in cui gli sono stati tolti i lacci della rigidità del lavoro nel 1993. Beneficiato da una flessibilità senza limiti, non ne ha approfittato per creare imprese più grandi con risorse capaci di fare innovazione e ricerca, no, se ne è scappato con il gruzzolo.

6. Nel territorio che la generazione digitale si è costruito troviamo anche la piccola- media impresa innovativa, l’artigianato moderno, il lavoro indipendente, le professioni non regolamentate. Vorremmo poterci trovare anche il mondo della cooperazione, ma la parola d’ordine “arricchitevi” lanciata dal PCI quando nel ’90 ha cambiato nome e pelle, ne ha stravolto la missione sociale. Si sono dati anche loro a cementificare l’Italia. Mentre scrivo, le notizie dell’alluvione del 25 ottobre si fanno di ora in ora più gravi. Dice in un’intervista un esperto di Lega Ambiente “ogni anno 500 chilometri quadrati di territorio vengono resi impermeabili dalla cementificazione, come se ogni quattro mesi spuntasse in Italia una città delle stesse dimensioni di Milano”. La ricetta Marcegaglia per rilanciare l’economia, sostanzialmente condivisa da sindacati e “recinto”, è: “infrastrutture, infrastrutture, infrastrutture”! Barroso a Bruxelles dice le stesse cose, 32 miliardi di euro per infrastrutture di trasporto ha stanziato la UE. “Viaggia a vuoto un camion su quattro”, dice un ricercatore della Cranfield School of Management, centro d’eccellenza in materia di logistica e trasporti, “il resto viaggia con un fattore di carico medio del 57%”. Se dovessimo proiettare il calcolo sul trasporto stradale di passeggeri sarebbe assai peggio. E’ ovvio che strade e autostrade non bastano mai, più ce ne sono, più lo spreco di spazio dei mezzi aumenta. Se c’è qualcosa che sta a cuore alla generazione giovane è la graduale distruzione del pianeta, ormai non è più una metafora, i cambiamenti climatici non sono più un orizzonte lontano. Lo vivono come una cosa che accompagnerà il loro futuro, una dimensione strutturale della loro esistenza, non è un mero, stantìo, “obbiettivo di lotta”, equiparato, che ne so, al conflitto d’interessi. Pertanto, perché dovrebbero preoccuparsi se Berlusconi sta in piedi o cade, tanto sanno che quello che viene dopo, meglio non è. I rischi che si vedono venire incontro sono ben maggiori di avere Bossi al governo.

7. “Sono apatici”, dice la vulgata. In genere sono talmente occupati nel gestire la sopravvivenza, chi rubando il lavoro al vicino, chi invece cercando forme di vita più utili a se stessi e agli altri, che poco tempo hanno di seguire “la politica”. Come si fa a dire che la prima categoria – quella dei figli di mignotta - è una maggioranza schiacciante? E se vi dicessi che a me pare più numerosa la seconda? Che ne sappiamo di loro? Basta ascoltare o leggere quel che si scrive sul lavoro “a sinistra” per capire che distanza c’è dalla realtà. “Precari”, ecco cosa sanno dire, “precari”. Non c’è ormai vocabolo più sputtanato di questo, più insulso, più ambiguo. Se quelli che vengono definiti “non precari”, i lavoratori a tempo indeterminato, sono – nel territorio più ricco del Paese, la provincia di Milano – meno del 10% dei neo-assunti, che senso ha chiamarsi “precario”? E’ forse un’anomalia? Conferisce un’identità sociale? E’ la workforce of the future come dicono i freelance americani. Ma “precario” piace, ai media, ai partiti, piace perché si può rappresentarlo come vittima, come supplicante. Qualcuno della mia età ricorderà: non era lo stesso vestito confezionato negli Anni 60 per i proletari meridionali? Non li chiamavano “povera gente del Sud che cerca lavoro”? Poi, quando qualcuno è andato a vederli da vicino, che avevano lavorato per anni nelle fabbriche tedesche, francesi, inglesi, e sapevano d’industria ed organizzazione del lavoro, di tecnologia e democrazia in fabbrica quanto i loro corifei non si erano mai sognati di sapere, quando hanno cominciato a parlare loro, in prima persona, e non lasciar parlare di loro chi scaldava la sedia – le cose sono cambiate e non sono più stati tanto simpatici al “recinto”.

8. Il territorio dell’esodo, di cui parlavamo all’inizio, è popolato da strategie individuali di sopravvivenza che in realtà, più di quanto appaia, mettono in comune esperienze, competenze, energie per costruire reti, invenzioni per vivere meglio o semplicemente per essere meno depressi. O ci decidiamo a classificare questi comportamenti come “politica” o non ne verremo mai a capo. E’ da questo sostrato di strategie individuali che può venire di tanto in tanto una risposta positiva alle sollecitazioni della sfera pubblica. Su due episodi si dovrebbe riflettere a lungo: le elezioni di Pisapia a Milano e l’affermazione del Piraten Partei a Berlino.
Che la Destra e la Lega siano state battute a Milano è certo un dato sorprendente ma, detta così, sembra la solita notizia di calciopolitica. Quello su cui bisogna costringere la gente a riflettere è sulle ragioni sociali di quel che è successo, sulle trasformazioni sociali e socio-culturali che a questo hanno portato. Occorre riflettere sui movimenti tellurici della società, quelli che si ripercuotono per onde lunghe sul futuro. A Milano si sta consumando la crisi della middle class, di quella che vive nel mercato soprattutto, che lavora per aziende e agenzie d’intermediazione, per l’economia dell’evento, per la finanza, l’advertising, i media, la sanità privata, la logistica, la fieristica, quella middle class che vende le proprie competenze in un mercato sempre più spietato, con il settore della politica sempre più infiltrato a fare da sbarramento alla competenza perché agisce per clientele. Ha un chiaro identikit questa middle class, per un certo periodo è stato Berlusconi ad intercettarla o Comunione e Liberazione e prima di loro Craxi, che su queste cose aveva fiuto. In mezzo c’è un sacco di gente che ha fatto il 68 o il 77, molti che se ne sono strapentiti, altri che lo hanno tenuto nascosto come un peccato di gioventù, qualcuno che ancora lo rivendica. E poi c’è la componente globalizzata, sempre più diffusa. Persone che le proprie competenze le hanno messe sui mercati esteri, molto più aperti, gente che ha girato il mondo e poi è tornata quando ancora qui c’era da fare, diversissima dai giovani di oggi che fuggono amareggiati, esasperati, gente che magari continua a lavorare per clienti esteri ma preferisce vivere in un Paese che, per quanto lo devastino, è sempre bello. E’ una middle class di professionisti che sempre di più condivide la delusione con quelli di loro che lavorano nelle strutture pubbliche o parapubbliche, medici, insegnanti, funzionari della tutela dei beni artistici, musicisti. Delusione perché vedi la piaga delle clientele allargarsi a vista d’occhio e quindi vedi concessionari d’auto messi a dirigere musei, giovanotti del fitness messi a capo di teatri di prosa. Ma se non fossero stati i giovanissimi a caricare d’entusiasmo la campagna per Pisapia questa middle class da sola forse non ce l’avrebbe fatta a cambiare le cose.

9. Il caso di Berlino mi pare diverso. Basta dare un’occhiata al sito www.piratenpartei.de per rendersene conto. Lì la generazione digitale è venuta allo scoperto senza mediazioni, ha accettato l’arena politica da un punto di vista che nessun’altra formazione politica può condividere se non per mero opportunismo. 15 candidati, 15 eletti, tra di loro una sola donna. E questo è bastato per scatenare, proprio nella linke Szene una campagna contro “il sessismo” dei pirati, accusati di solito di “delirio tecnocratico” perché usano a man bassa le tecniche digitali. Gente che di politica non ne capisce niente, che non gliene frega niente della Palestina, che il cambiamento lo interpretano solo come debugging del sistema e via di questo passo. Se all’inizio li ho guardati con grande interesse, queste accuse me li rendono simpatici. Prendiamo la storia delle quote rosa. Non ne posso più di gente che afferma con sicumera che la CGIL è meglio se la dirige una donna, che la Confindustria è meglio se la dirige una donna, che Zapatero era un rivoluzionario più radicale di Lenin perché aveva tante donne nel governo. Aver ridotto la rivoluzione femminista a questa formula aritmetica è una delle cose più nefande degli ultimi anni, è un oltraggio alle compagne che negli Anni 70 hanno pagato prezzi non da poco per essere donne. Proprio la reazione di ambienti di vaga provenienza marxista al successo dei Pirati mi ha dimostrato ancora una volta come questa provenienza ormai produca più imbecilli che persone con la testa sul collo. A Berlino c’è un giornale, settimanale, nato dalla spaccatura all’interno della redazione di Junge Welt, l’organo dei giovani comunisti. Il 20 ottobre ha pubblicato un’intervista a Christian Raimo sull’occupazione del teatro Valle a Roma (Genua hat diese Generation geprägt, in “Jungle World”, 20.10.2011). E’ un testo di grande lucidità, un altro tassello che testimonia un risveglio politico ormai evidente in questa generazione, da Milano a Berlino, da Roma a Madrid, da Atene a Londra, da New York a San Francisco.

(in corso di pubblicazione sulla rivista "alternative per il socialismo")

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