Silvano Cacciari, Roberto Ciccarelli, Ubaldo Fadini, Dario Gentili, Federica Giardini, Elettra Stimilli discutono
Per non farla finita con la filosofia
a cura di Ubaldo Fadini
(Clinamen 2021)
Sarà presente il curatore
Venerdì 8 aprile 2022, h 15,30
Sala Matassi
Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo
Università Roma Tre, Via Ostiense 234, Roma
"Si parla sempre più spesso di attualità della filosofia nella crisi (sanitaria, ecologica, di "civiltà", ecc.). Non è il nostro caso. A noi non interessa una "buona"filosofia, ci piace quella che spesso viene considerata "cattiva", decisamente un po' troppo "indisciplinata, secondo il gusto intellettuale corrente. Come fare della "cattiva" filosofia, vale a dire pratica, critica, di movimento (questa è la sua "anima"...) se non puntando ai terreni di incontro e di scontro nel nostro paesaggio sociale, in ciò che abbiamo davanti agli occhi e che ci ri/guarda?" scrive Ubaldo Fadini nell'introduzione del volume. Ho cercato di rispondere a questa domanda insieme a UbaldoFadini, Stefano Righetti, Silvano Cacciari e Utente Sconosciuto. Nel libro ho scritto un contributo intitolato Coronacapitalismo. Per una critica dell'economia politica nel tempo delle pandemie. Qui aggiorno la riflessione, alla luce della tragica attualità in cui viviamo dal 24 febbraio, dopo l'invasione russa dell'Ucraina. E cerco di rispondere, affrontando alcuni stimolanti questioni poste dalla prospettiva eco-marxista sulla crisi, all'appello del libro: cosa può dire oggi una filosofia del presente? (r.c.)
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Roberto Ciccarelli
A due anni dall’inizio della crisi capitalista che avrà come esito la ridefinizione della divisione mondiale del lavoro, della circolazione delle merci e del sistema finanziario globale, la guerra è ciò che unisce la crisi del coronavirus del 2020 e quella innescata dall’aggressione russa all’Ucraina nel 2022.
Guerre di classe
Prima la guerra era stata declinata dai governi in termini metaforici: si parlava di una “guerra contro il virus” (Questo blog del 27 marzo 2020). Poi la guerra è purtroppo diventata militare, della peggior specie, come sono i conflitti del XXI secolo, mentre crescono gli effetti delle sanzioni che la trasformeranno in una guerra commerciale, già del resto diffusa ad esempio tra Cina e Stati Uniti a partire dagli anni di Trump.
La guerra, sia metaforica nel caso del virus sia reale nel caso del conflitto russo-ucraino, non cambia il sistema delle disuguaglianze economiche, razziali o sessuali ma amplifica i danni che queste producono. Sia essa sanitaria, militare o commerciale, la guerra serve gli interessi dei ricchi e danneggia i lavoratori e i ceti più poveri, ammazza gli innocenti e gli inermi e ricatta i vulnerabili che sono costretti a emigrare o a combattere. E morire. La guerra resta una guerra di classe. Matthew C. Klein e Michael Pettis lo hanno evidenziato in Le guerre commerciali sono guerre di classe. Rob Wallace lo ha dimostrato nel caso della pandemia globale in Dead Epidemiologists,. On the origins of Covid 19.
Dal punto di vista politico l’immanenza della guerra al modello economico e a quello sociale capitalistico sta evidenziando una questione politica di primo piano nel sistema dell’emergenza continuo, l’opposto del paradossale “stato di eccezione permanente”, inaugurato dal Covid nel marzo 2020. Per evitare generalizzazioni questa categoria di “emergenza” va declinata di paese in paese, alla luce delle culture politiche prevalenti e all’interno delle dinamiche strategiche, geopolitiche ed economiche che variano di area in area dove è applicata l’agenda neoliberale. Andrebbe inoltre evidenziato il contesto in cui è declinata: l’emergenza climatica e i suoi legami con l'agribusiness, una delle cause accertate della nascita e della diffusione dei coronavirus, e con l’economia dell’energia, uno degli ambiti della guerra che colpirà la produzione e la distribuzione di gas, carbone, petrolio. Senza contare gli effetti che le ostilità produrranno sul mercato delle altre materie prime e in particolare su quelle alimentari.
Militarizzazione e capitalismo fossile
Il problema è stato evidenziato nel dibattito sull’ecologia politica: tanto più crescerà l’emergenza, per di più veicolata dalle guerre e dalle economie del razionamento, tanto più diminuirà la possibilità di estendere la democrazia e affermare l’autonomia sociale e individuale. Nuove pratiche autoritarie sospenderanno i diritti, o li aboliranno, in nome di una rinnovata, e cangiante, insicurezza generalizzata.
Nel dibattito sull’ecosocialismo è diventato chiaro il legame tra il capitalismo fossile e l’autoritarismo. Non lo è altrettanto in quello che si sta svolgendo nei paesi del neoliberalismo armato scossi da venti impetuosi del bellicismo. In uno dei momenti di lucido cinismo che lo caratterizza Mario Draghi lo ha detto in maniera netta: “Siamo costretti a trattare con i dittatori”. In quel momento si riferiva a Erdogan, e allo stesso Putin. La guerra in corso ha cambiato i rapporti con il regime di quest’ultimo, ma non ha chiarito quelli con tutti gli altri.
Una delle contraddizioni in cui si trovano i paesi europei è quella di contrastare l’imperialismo russo e finanziare le sue guerre. In ogni caso l’eventuale, e non scontata, fine della dipendenza dal fornitore russo non cancellerà quella da altri regimi dall’incerto connotato democratico. Questa realtà nota è tuttavia nascosta dal rumore della difesa ideologica di un modello economico incontestato sia ai tempi della pandemia, sia in quelli della guerra guerreggiata anche con gli strumenti della finanza. Si presuppone cioè che nell’attuale guerra contro la Russia si difenda un modello “naturale” di società basato sui bassi salari e l’alto sfruttamento del precariato, sulla concorrenza tra le nazioni e la speculazione in borsa.
Questo modello è entrato in crisi già con lo scossone del 2008, è crollato con la pandemia, e agonizza mentre i prezzi dell'energia e del cibo stanno aumentando e così anche i tassi di interesse nella zona del dollaro. Si parla di un "triplo colpo" all’economia globale, in particolare a quella dei “paesi emergenti”. Non sappiamo se sia mortale. La guerra di Putin non ha interrotto bruscamente un ordine economico globale altrimenti sano e stabile. Il sistema del dollaro esistente è un'improvvisazione sgangherata che fornisce un generoso sostegno a un nucleo interno, mentre una gran parte della popolazione mondiale è lasciata a cavalcare le terrificanti montagne russe del ciclo globale del credito.
Financial Warfare
Uno degli aspetti interessanti della polemica che scuote l’infosfera guerresca è screditare chi cerca di ragionare sulla natura dialettica della contraddizione e ridurre i problemi a uno schema binario fondato su antitesi assolute. Sembra essere questo lo stile della nuova teoria della "guerra fredda" usato da entrambe le parti del fronte. Dividere il mondo sulla base di opzioni morali: da una parte il Bene, dall’altra il Male. I vecchi strumenti agiscono in un contesto che, nelle prime settimane del conflitto, è stato definito militarizzazione della finanza, una politica che ha deciso le sanzioni alla banca centrale russa utilizzano l'onnipresenza del dollaro per penalizzare l'avversario. Sembra sia stata elaborata da Mario Draghi in una telefonata con la segretaria al tesoro americana, già sua ex collega alla Fed, Janet Yellen.
Questa politica rientra nel Financial Warfare ed è stata applicata, su scala molto più piccola, nei casi del Venezuela o dell'Iran. In altri casi si è resa necessaria inserirla in un'escalation militare. L’offensività della guerra finanziaria è paragonata a un bombardamento di precisione, ma questo è ritenuto insufficiente per distruggere i capi di un paese in guerra. E' più efficace per colpire la popolazione affamandola, com’è accaduto ad esempio in Iraq tra il 1991 e il 2003 quando tale guerra ha ucciso bambini e anziani. Per distruggere Saddam Hussein e la sua cricca gli Stati Uniti hanno dovuto inventarsi le ragioni di una guerra e andarli a prenderli a Bagdad fisicamente. Ciò non può essere fatto oggi con Putin che, a differenza dell’Iraq, possiede armi di distruzione di massa. A meno che non si sia deciso di fare una guerra nucleare, ipotesi inquietante esclusa più volte, la militarizzazione della finanza resta un’arma spuntata per il “cambiamento di regime” a Mosca, mentre sembra più efficace per allargare la guerra economica alla popolazione, oppure per accelerare la crisi economica in Europa.
In Germania stimano che se le importazioni tedesche di gas fossero interrotte, il che non sarebbe nemmeno da escludere oggi, l'economia potrebbe contrarsi di una percentuale compresa tra il 2 e il 4%. Sarebbe una recessione della portata della crisi del COVID-19. Dato che nel momento in cui scrivo in Italia gli animi si scaldano molto nella prospettiva di tagliare il gas russo e lasciare al freddo il sistema industriale, l'impatto economico potrebbe essere superiore. Anche in questo paese chiudere i rubinetti del gas russo, senza una credibile e già attiva strategia pluriennale di transizione ecologica e democratica, rischia di portare alla chiusura delle imprese, alla disoccupazione all'accelerazione della recessione in arrivo. A tale proposito, nel momento in cui scrivo, circolano stime confuse che variano da 40 a 75 miliardi di euro. Sarebbe questo il costo per il solo bilancio italiano in un anno, se casomai si decidesse di "chiudere i rubinetti". Potrebbero essere di meno, o di più, chi lo sa. Più interessante sembra lo spirito con il quale sono presentate tali argomentazioni: bloccare l'opposizione, mettere i critici davanti a un'alternativa impossibile, polarizzare il dibattito, giustificare decisioni eccezionali in nome di una necessità assoluta, per esempio.
Per capire le dimensioni di una crisi che potrebbe diventare peggiore con l'estensione della guerra possiamo fare riferimento a una cifra ipotizzata da Mario Draghi quando ha cercato, inutilmente al momento, di chiedere all’Unione Europea un fondo per accelerare gli investimenti nell'indipendenza energetica e rafforzare le difese economiche da più di 1,5 trilioni di dollari. Cifre che presuppongono una politica che ancora non esiste. A meno che non si decida di rifare l’Unione Europea. Difficile che accada nel giro di qualche mese. La guerra potrebbe durare anni.
Internalizzare la logica della guerra
Un'altra caratteristica della guerra finanziaria è confondere la sfera militare e quella civile del conflitto. Questo è un aspetto molto importante per capire la nostra attualità. In mancanza di una guerra guerreggiata di natura offensiva e distruttiva, quella finanziaria militarizza altri piani, anche apparentemente lontani, rispetto alle problematiche attorno alle quali è stata organizzata l’ostilità sul terreno.
Lo abbiamo capito dall’uso metaforico della guerra “contro la pandemia”: la mobilitazione totale della popolazione attraverso l’adozione di palinsesti tossici e totalitari a sostegno di una politica dell’immunizzazione che permette l’evaporazione della politica, e dunque anche delle possibilità di un conflitto profondo e articolato nella società contro le politiche di un governo, ad esempio.
Non sembra esserci nulla di nuovo: in guerra uno degli obiettivi è la creazione del consenso. Si tratta di capire quali e quanti guerre si stanno combattendo. La continuità tra una pandemia e un conflitto armato e finanziario sembra rispondere all'internalizzazione della logica della guerra nella politica e nella società.
Eco-cittadinanza neoliberale
La militarizzazione della crisi può portare al rovesciamento delle politiche energetiche in un paese come l’Italia attraverso la costruzione del consenso per un ritorno al nucleare, per esempio. Questa e altre soluzioni possono inoltre giustificare la formazione di un governo autoritario della già incerta transizione ecologica. Si tratterebbe di istituire un autoritarismo democratico, un altro paradosso coerente con l’epoca reazionaria in cui viviamo.
Questo problema è molto dibattuto nell'ambito dell'ecologia politica. Esiste l'ipotesi per cui la transizione a una società non più dipendente dalle energie fossili sia la conseguenza di un’economia di guerra e dell’istituzione di un possibile stato di eccezione climatico. Il protagonista di un simile regime sarebbe l’eco-cittadino neoliberale, o il consumatore responsabile. A questo personaggio è attribuita la falsa coscienza narcisistica e privatizzata di pericoli reali prodotti dalle conseguenze del capitalismo fossile. Coltiva ossessioni moralistiche con le quali spiega agli altri il modo individualistico per risolvere contraddizioni strutturali che invece sono il risultato di sistemi politici, economici e sociali.
Per intenderci: è a questo soggetto che si è rivolto una volta Draghi quando ha detto: “Sul gas russo volete la pace o tenere accesi i condizionatori?”. Per cambiarli non basta l’esempio del singolo, ma l’organizzazione di una forza collettiva che non si ottiene attraverso la sottomissione anticipata agli stati di emergenza e dunque all’accettazione di una disciplina che assicura la sopravvivenza tramite la logica dei costi e dei benefici. Questa argomentazione riduce un problema sistemico, l'approvvigionamento energetico, a una questione che riguarda i consumi individuali. Il "fare sacrifici" non significa semplicemente spegnere il condizionatore, ma pensare anche a coloro che non possono permettersi il condizionatore.
Ciò che viene presentato come il "fare sacrifici", corrisponde all'allargamento della guerra, e delle sue conseguenze economiche, non alla sua delimitazione al fine di una pace, o perlomeno di un allentamento delle ostilità. Questa prospettiva potrebbe portare a un contraccolpo che molti sembrano non vedere, al momento: la riaccensione del nazional-populismo messo alle corde nell’attuale fase, ma pur sempre pronto a tenere le posizioni. Esemplare, da questo punto di vista, è la situazione in Francia dove un centrista neoliberale autoritario come Macron affronta alle elezioni presidenziali ben tre destre diversamente estreme e un'opposizione di sinistra frantumata, rissosa e spesso contraddittoria. Il nazional-populismo è il lato oscuro del liberalismo armato, non è il suo avversario. Una nuova società non sembra potersi imporre dall’alto con la forza, predicando la penitenza individuale dei sacrifici o dell’austerità, un equivoco che regolarmente torna di attualità.
Socialismo, o barbarie
Pensare di approfittare di un’economia di guerra per realizzare la transizione ecologica significa venire meno al nesso fondamentale tra giustizia climatica e giustizia sociale. Nessuno oggi sembra voler riflettere seriamente su tale nesso perché prevale la logica della militarizzazione il cui scopo è preannunciare un’apocalisse capitalista. Si intende cioè preparare la popolazione ad adattarsi a una realtà presentata come inevitabile attraverso l'evocazione della paura, della produzione di realtà parallela, del disprezzo o dell’intolleranza. Sono gli strumenti usati per polarizzare l’attenzione sulle alternative impossibili e sollecitare a vivere in ambienti estremi opponendosi gli uni agli altri in un universo in cui apparentemente non ci sono soluzioni che non sia l’ostilità assoluta contro i nemici della “civiltà”.
Evitare di trasformare il conflitto, anche aspro, in una guerra. Proprio quello che invece sta accadendo, dopo due anni di insistenza su una guerra prima metaforica, poi reale, basata sulla creazione di un fronte “interno”: prima vax/no vax, ad esempio; poi l’identificazione delirante tra il pacifismo e il pro-putinismo fatto da forze politiche che governano con chi ha simpatizzato con Putin, o da “opinionisti” che hanno sostenuto uno dei temi di battaglia dei razzisti di Stato: la lotta contro l’immigrazione, i lager in Libia, le stragi silenziose nel Mediterraneo, ad esempio.
Alla guerra che tende a rafforzare politiche autoritarie si potrebbe rispondere con il conflitto internazionalista contro il capitalismo, l’imperialismo e l’etno-nazionalismo, un altro modo per pensare oggi all'idea di pace. Il problema principale al tempo dell’apocalisse capitalista è non credere più alla politica. Espressioni come Socialismo, o barbarie sembrano echeggiare da un passato remoto, mentre in realtà è un richiamo del futuro presente.
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