venerdì 27 aprile 2012

ABITARE LA DIASPORA DELLA CONOSCENZA

Roberto Ciccarelli - Francesca Coin

Promessa, debito, autodisciplina, svalorizzazione: questo, dunque, è il leitmotiv della bolla formativa. Dal debito studentesco all'università, da Lehman Brothers alla crisi dei mutui subprimes, stiamo osservando una proliferazione di bolle che, tanto nella conoscenza quanto nella finanza, poggiano il proprio valore nominale su una promessa: la promessa di tutele, welfare, casa e lavoro

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Peter Thiel, cofondatore di PayPal, ha una straordinaria capacità di identificare bolle economiche. Poco prima che scoppiasse quella delle dotcom, quando la sua azienda valeva “solo” 500 milioni di dollari, rifiutò di comprare proprietà immobiliari. Aveva intuito che la bolla si sarebbe spostata sull’immobiliare.

Nell’aprile 2011, Thiel è tornato ad esercitare le sue capacità di aruspice sostenendo che l’istruzione superiore rispecchia tutti i criteri di una bolla: le tasse universitarie sono troppo alte, i debiti formativi troppo onerosi, gli interessi quasi impossibili da pagare. “Una vera bolla si forma quando qualcosa viene sopravvalutato e intensamente creduto - ha detto - L’istruzione è forse l’unica cosa in cui la gente crede negli Stati Uniti. Mettere in dubbio l’istruzione è veramente pericoloso. E’ il tabù assoluto. E’ come dire che non esiste Babbo Natale”.

“Get yourself an education”, è il mantra che anche noi abbiamo ereditato dagli anni Sessanta. Poco importa se oggi l'istruzione è definanziata, resa performativa e impotente di fronte alla contrazione del mercato del lavoro: l'istruzione - e quindi la conoscenza - resta un fine in sè, l'unico investimento meritevole di fiducia, l'unico gancio cui aggrappare i sogni.


Su questa premessa negli ultimi mesi è stato creato un numero enorme di costose manipolazioni. Dalla riforma dell’università inglese a quella italiana, sino alla proposta di Andrea Ichino sulle tasse universitarie in Italia, l’istruzione non viene più considerata come un fine in sè, bensì come un insieme di competenze utili a ripagare un debito formativo, trovare un collocamento su un mercato che in realtà non riesce a garantire un reddito. E nel frattempo in Europa aumenta il numero di laureati disoccupati, mentre nuove riforme sostengono la necessità di aumentare le rette universitarie. La possibilità di indebitamento pre-lavorativo porterà “gli studenti a scegliere le università migliori, ossia quelle la cui qualità consentirà di ripagare il costo dell’investimento effettuato”, dicono i liberisti ortodossi, in un tentativo maldestro di occultare la disoccupazione dei molti con l'eccellenza dei pochi.

Queste ricette si inerpicano in acrobatiche relazioni causa-effetto nei paesi dove l'indebitamento studentesco ha già dimostrato i suoi effetti. In Giappone, prima ancora di trovare un lavoro, spesso molti studenti hanno accumulato un debito di circa 10 milioni di yen (circa 86 mila euro). Negli Stati Uniti, il totale del debito derivante dalle tasse universitarie ha superato quello delle carte di credito. Malcolm Harris racconta come più del 30% dei debiti sono stati convertiti in titoli negoziabili - Slabs - garantiti dal Governo Federale. E “poiché gli studenti non possono dichiarare bancarotta, i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione. Se uno studente non paga, l’agenzia di garanzia, anche se è stata rimborsata dal Governo Federale […] è incoraggiata a perseguitare gli ex studenti fino alla tomba”.

Promessa, debito, autodisciplina, svalorizzazione: questo, dunque, è il leitmotiv della bolla formativa. Dal debito studentesco all'università, da Lehman Brothers alla crisi dei mutui subprimes, stiamo osservando una proliferazione di bolle che, tanto nella conoscenza quanto nella finanza, poggiano il proprio valore nominale su una promessa: la promessa di tutele, welfare, casa e lavoro che l'attuale mercato non può più mantenere. A ben vedere, la stessa crisi dei mutui subprimes nasceva da questo. La vendita di mutui agevolati «a vedove e orfani» e a «quei poveretti che ci son dentro [e] con i prestiti non dureranno a lungo», ci racconta di una promessa mai mantenuta, la promessa di una casa e di un lavoro, in cambio della quale il mercato ha richiesto autodisciplina e debito, in una generale apocalisse dei sogni.

Al cuore della bolla formativa, come della bolla immobiliare, c'è un sogno: il sogno del futuro, di una casa, di un titolo di studio, di mobilità sociale. Tutte cose semplici, di fronte alla vastità del possibile. Eppure nell'attuale fase depressiva, su queste piccole promesse si regge il tentativo di controllare un'intera generazione: “contraete un debito e sarete al sicuro”, sussurra la promessa dell'Occidente corporate, mentre produce sottoccupazione, precarietà e inoculazione.

In modo affine alla bolla immobiliare, nella bolla formativa i titoli di laurea come i titoli finanziari non sono, dunque, beni: sono significanti, simboli il cui valore nasce nell'immaginazione. Parafrasando l'analisi di André Orlean con Michel Aglietta (1982), ogni bolla nasce sulla base di «convenzioni collettive», segni il cui prezzo aumenta alla crescita della domanda, in un’incessante produzione di valore la cui unica legittimazione è la promessa di futuro, un’occupazione fantasma fondata sull’auto-disciplina dei singoli proprio quando il mercato non ha più nulla da offrirgli.

Ci troviamo di fronte a una duplice diaspora: la diaspora del mercato dalla vita e della vita dal mercato. Mentre la finanza cerca di emanciparsi da un mercato saturo cercando immortalità nell'immateriale, la vita si specializza in competenze, capacità di creazione, professionalità, che non riescono più a trovare un mercato. Solo in Italia oggi ci sono almeno 7 milioni di persone (dati Istat del 2010) prive di ogni tutela e garanzia sociale riconosciute al lavoro dipendente. Si tratta di apolidi in patria, precari, atipici, parasubordinati, lavoratori autonomi che vivono e lavorano come professionisti, studenti, laureati o diplomati. La maggioranza non riuscirà a rientrare sul mercato, perché le sue “competenze” sono invecchiate precocemente, perché sono del tutto inutili o non hanno alcuna applicazione.
Questa situazione drammatica ricorda quella di fine Ottocento quando donne e bambini, giovani e anziani costruirono un movimento basato sulla solidarietà, l’uguaglianza. Questo segnò l'inizio del movimento operaio basato sul mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa. Oggi sono i lavoratori indipendenti a doversi organizzare.

Non sarà facile. Perchè la nostra immaginazione vive in mondo che non c’è più, mentre c’è bisogno di creare - o di riconoscere - le alternative che nascono da una diversa esperienza del quotidiano al di fuori dell’individualismo, o del corporativismo, che caratterizzano i lavoratori della conoscenza. Nei luoghi dove la conoscenza viene prodotta, e come tale valutata, le università ad esempio o le scuole, questa esigenza è tra le meno sentite.

E così negli ordini professionali dove esiste un’enorme sperequazione tra la condizione dei membri anziani e quelli più giovani, non diversamente da quanto accade da sempre nell’università. Tutto questo potrebbe dare l’avvio ad una rivolta che superi le differenze generazionali e professionali, concentrandosi sul modo in cui la conoscenza viene prodotta, distribuita e riconosciuta. E’ un’ipotesi non lontana dal vero, tanto dure sono le condizioni in cui vivono questi lavoratori, a cui è stata sottratta persino la possibilità di identificarsi in una condizione comune.

Da cosa si può ripartire, se continua la diaspora dalla conoscenza certificata? Questa condizione non riguarda più solo i “margini” o gli “esclusi” dal sistema formativo, ma colpisce in maniera irreversibile coloro che hanno un titolo di studio, una professionalità, una posizione sul “mercato”, e minaccia chi fino a ieri sembrava protetto.

Per questo bisogna considerare i significativi esempi di auto-organizzazione come quello del sindacato dei traduttori editoriali “Strade” che ha messo in atto una nuova forma di mutualismo. Al momento la loro iniziativa supplisce alla mancanza di assistenza statale in casi di malattia o maternità. La quota che oggi i traduttori versano di tasca propria dovrebbe essere versata dai loro committenti nel periodo di lavoro. Tutto questo in prospettiva di una riforma del Welfare che garantisca questi diritti fondamentali anche nei periodi di non lavoro.

Da queste esperienze nasce la capacità di creare nuove forme politiche. E’ quello che accade anche al teatro Valle di Roma dove gli intermittenti dello spettacolo che lo hanno occupato sono impegnati nella creazione di una fondazione basata sull’azionariato diffuso, la partecipazione nella gestione delle politiche culturali e la tutela dei diritti dei lavoratori. In questo caso, la protezione di un bene comune come il teatro è stata associata alla necessità di creare un consorzio di cittadinanza tra gli attori, le maestranze e il pubblico.

Auto-tutela, cooperazione, auto-governo sono i principi di una vita attiva che alimentano il ripensamento della natura e delle finalità della conoscenza a partire da alcune necessità condivise: valorizzare un’attività; apprendere e trasmettere i saperi nei luoghi dove si producono; ricostruire una forma di scambio o di mercato non più incentrato sulle corporazioni professionali o sulle grandi istituzioni certificate della conoscenza, bensì sull’attività dei singoli, la loro capacità di ricreare il vivere-insieme, oltre che di governare in maniera trasparente e democratica le istituzioni esistenti e quelle che verranno.

Se queste sono le punte più avanzate di un sommovimento in corso da anni nell’ambito della conoscenza, non bisogna trascurare che esse si inseriscono in un contesto più ampio. Dai movimenti a difesa della scuola, a quelli studenteschi tra il 2008 e il 2010, è stata posta con forza la necessità di ricostruire un patto intergenerazionale a partire da alcuni valori condivisi: l’istruzione, la qualità della vita, la difesa di un principio di legalità e, soprattutto, la sottrazione dei beni comuni dalla gestione statale come da quella privatistica.

Non c’è più diritto di fuga, bisogna abitare la diaspora. Ciò che vogliamo fare da qui ai prossimi mesi è raccontare queste storie, intercettare questi linguaggi osservandoli come un fiume carsico che, in tentacolare controtendenza, decentra l'egemonia come un fiume volge dalla foce alle sorgenti.

1 commento:

  1. Sono completamente d'accordo e meravigliata di come tutto questo sia nato spontaneamente, dopo anni di tristezza e isolamento in cui tutti noi siamo piombati... e da cui forse finalmente stiamo per uscire, liberandoci con le nostre forze! speriamo che i molti che ancora non "sanno", capiscano...

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