mercoledì 25 aprile 2012

"VA' A LAVURA' CHE L'E' MEI"




Sull'arte sottile della disinformazione fondata sulle parola-baule "precarietà" e "cultura". "Cosa fanno questi precari della cultura? Lavorano?". "Ma andate a lavorare!". Sono alcune delle reazioni all'appello "Se chi ci governa non sa immaginare il futuro, proveremo a farlo noi", pubblicato anche sul Corriere della Sera, intitolato"Noi precari della cultura, questa riforma non ci tutela".



E' bastata una parolina corsara, un titoletto galeotto usato nei desk delle redazioni per descrivere sommariamente la condizione dei lavoratori indipendenti in Italia, per provare a rimuovere il senso dell'appello promosso da 29 soggetti, tra associazioni del lavoro autonomo non regolamentato e movimenti degli intermittenti dello spettacolo, dell'arte, del giornalismo e della cultura, ai quali in poche ore si sono aggiunti 35 "soggetti collettivi" e innumerevoli adesioni individuali. 
Alcune delle reazioni all'appello, in gran parte dettate dal titolo equivoco, possono essere riassunte in questo modo: ecco i soliti fighetti (parlano, addirittura, di "Cultura") che chiedono l'assistenzialismo di Stato per continuare a mangiare pane a tradimento.

Diciamo la v[e]rità, sulla cosiddetta cultura ci mangia troppa gente! (dice "testamento")

[...] marcia e' per l'appunto la supponenza di chi elargisce "cultura" al popolo, come quei cinematografari senza soldi e senza pubblico e quegli attorucoli impegnati (di solito, purtroppo per la sinistra, a sinistra) che interpretano film epocali che nessuno va a vedere pagando, che si dimenticano nell'arco dell'anno [...] Dalle pretese, costoro si rivelano per quel che sono: poveri cristi, non tutti arroganti o pieni di boria, ma che hanno scelto il mestiere sbagliato. Non tutti saranno mediocri, cosi' come non tutti saranno dei padreterni. Ma sono come tutti, nel mercato e del mercato devono accettare le regole, per ingiuste che siano. L'errore che fanno non e' chiedere solidarieta', ma accampare diritti che, spiacente per loro, proprio non hanno.
sono forse i lavoratori sociali? che vuol dire precari della cultura? cosa fanno? (si chiede "2 cardellini")
Una volta sovrapposto il sintagma "precari della cultura" a quello di "lavoro indipendente" o "non subordinato", cioè il soggetto dell'appello, i commenti si concentrano sull'idea che chi parla di "cultura" non vuole "lavorare" ed essere comunque tutelato:

il problema e' proprio che lo sviluppo culturale non si mangia e che i soldi che ci sono vanno indirizzati dove possono rendere. Come dire che, quando non ci sono soldi in casa, non si va al cinema e non si comprano piu' riviste di spettacolo. 

Legare il concetto generico e indiscriminato di "cultura" a quello di "precariato", cioè di un soggetto incapace di essere produttivo in maniera continuativa, non riconoscibile socialmente come cittadino responsabile, per di più "borioso" e "arrogante", implica la condanna morale di tutti coloro che non conducono un'attività imprenditoriale, non hanno una posizione da lavoratore dipendente: 

Come può esserlo solo uno che non ha mai avuto un libretto di lavoro, non ha mai percepito una lira/euro da un ente pubblico, uno che ha sempre vissuto di quanto ha prodotto in Italia e all' estero , che non ha mai evaso e sta per entrare nel 70° anno di età: andate a lavorare! 
L'opposizione è stata netta già nel forum. La "cultura" è dunque anche un "lavoro", che ha difficoltà a stare sul "mercato":
la prova lampante della confusione e dei fraintendimenti che la parola 'cultura' genera in Italia. Cioè c'è davvero chi NON HA IDEA del fatto che esistano professioni 'culturali' che non hanno nulla a che fare col teatro o la musica classica. Gente che non ha mai sentito parlare di web-designer, uffici stampa, traduttori, copy-writer, promoter (e post-doc, tutor, ricercatori, ecc. ecc.). Senza un minimo di legittimazione sociale, queste figure ci metteranno decenni a vedere una riforma del lavoro che contempli, anche solo alla lontana, la loro esistenza. Altro che 'andare a lavorare'...
Ecco dunque ,mi immaginavo l'attacco.Dagli addosso a quelli che non lavorano come noi! Uto Ughi,già avanti negli anni,disse che si esercitava allo strumento per 7/8 ore al giorno.E questo succede per tutti quelli che si dedicano alla musica strumentale.Non è fatica quella? Se poi la cultura,l'arte avesse in questo paese un posto più rilevante saremmo sicuramente migliori e anche più felici.Andate a vedere il posto che ha la musica nella industriale,tecnologica Germania,primo stato europeo!
[...] ai tanti che pensano che fare cultura non sia un lavoro che merita tutele vorrei dire: è vero, può darsi che fin'ora i fondi per la cultura siano stati mal gestiti; è vero, spesso in chi fa cultura c'è una supponenza difficile da digerire; è vero cultura è tutto e niente, è vero la bilancia pende sempre verso sinistra quando si parla di cultura. Ciò nonostante vorrei che si capisse quanto sia difficile per una persona che produce servizi culturali (un laboratorio di teatro, una installazione, un festival musicale, ecc.ecc.) vendere questo suo prodotto immateriale. Non è che manchi il mercato in sè, piuttosto è la non conoscenza, il mancato desiderio di bellezza che rende impossibile o difficile far crescere il proprio mercato. 
Non voglio dire che il nostro sia un lavoro più "alto" di un altro, ma è un lavoro. Io, per tirare avanti e non gravare sui miei genitori che hanno speso tantissimo per farmi studiare fuori sede in Italia e all'estero, la sera e i weekend faccio altri lavori: da traduzioni a ricerche... E così molti miei colleghi.
Nell'appello, la dicitura "cultura" ricorre una sola volta, quando si descrive la fenomenologia delle professioni svolte da chi lo ha promosso, in un elenco meramente descrittivo, ma non esaustivo, di quella galassia di attitudini, esperienze e competenze che vanno oltre i singoli ambiti del lavoro "culturale".


Dietro la paroletta "cultura" emerge così il dibattito sul lavoro contemporaneo. Non quello basato sull'apartheid tra "garantiti" e non "garantiti", sulla contrapposizione tra "insiders" e "sfigati", bensì quello che presuppone il riconoscimento di un'attività operosa che non trasforma la natura (come quello dell'agricoltore), non crea dal nulla o modifica la materia (come l'operaio), non costruisce un'impresa, anche se è letteralmente invisibile rispetto ad un sistema giuridico e sociale basato sull'oggettività di un contratto di lavoro, di una "professione" o di una "produzione".


Così interpretato l'appello degli autonomi e dei precari sulla riforma del lavoro rappresenta uno scarto rispetto al dibattito prevalente sul lavoro dei giovani e di giovani senza lavoro, quello che sancisce la perennità di un lavoro stabile, a tempo indeterminato, come unica soluzione per una vita dignitosa, con diritti e tutele riconosciute e garantite. A governi e sindacati, partiti e amministratori pubblici non interessa rendere sostenibile questa attività, ma continuano a definirla in maniera riduttiva e vagamente denigratoria "atipica". 


La risposta "Và a lavurà che l'è mei", motto del commendatore milanese aduso agli affari nella commedia all'italiana, ma anche di chi consiglia ai "giovani" di riscoprire i lavori "umili" (l'ex ministro del Welfare Sacconi e quello della "gioventù" Meloni, ad esempio) ignora che il lavoro ha perso la misura standard che un tempo avrebbe forse permesso di distinguerlo in "tipico" e "atipico", "subordinato" o "parasubordinato". Non basta quindi demansionarlo, privarlo della formazione o vincolarlo ad un'istruzione sommaria e usa-e-getta, o persino liquidarlo, per fare rientrare l'anomalia e cancellare la sua "eccezione".


Quella che oggi sembra un'"eccezione", in realtà è la condizione generale di chi svolge un'attività operosa in maniera intermittente, autonoma. La maggioranza della cittadinanza non ha, e probabilmente non avrà nel prossimo decennio, un lavoro "tipico", perchè il mercato del lavoro, lo sviluppo tecnologico, la storia e la tendenza alla globalizzazione dei mercati hanno inciso profondamente, e in maniera irreversibile, sul modo di vivere e lavorare del Quinto Stato.


Roberto Ciccarelli

4 commenti:

  1. C'era quello che quando sentiva parlare di cultura metteva la mano alla pistola, no?

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  2. E poi c'era Tremonti che... vabbé, lasciamo perdere :(

    Però il disprezzo per la cultura in senso lato è generalizzato e parte dal basso.
    Siamo colpevoli un po' tutti.

    Saluti,

    Mauro.

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  3. Siamo d'accordo, ma lo spezzone della "Vita agra" - che pure fa sempre piacere rivedere - non è poi così pertinente: lì si parla veramente di gente che chiacchiera e basta, e "La risposta "Và a lavurà che l'è mei", motto del commendatore milanese etc." viene data da un operaio.

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  4. Luciano Bianciardi, ha supervisionato la stesura della sceneggiatura del film, dov'è presente in un piccolo cameo. Compare al fianco di Ugo Tognazzi nella scena con gli operai milanesi sul rapporto "uomo-macchina"

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