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La guerra di corsa
Parliamo di corsa, e di corsari, perché nel Mediterraneo la distinzione sul piano giuridico è netta. La corsa è una guerra lecita, resa tale da una dichiarazione formale. Bisogna immaginarsi uomini e donne, giovanissimi e belli in maniera commovente, che oggi sono armati di passaporti, commissioni, istruzioni, insomma di un armamentario di detti e contraddetti in cui l'intelligenza ha grandi spazi e può esprimersi ormai solo in un attacco ad una nave, in un approdo in incognito su una costa, infiltrandosi nei commerci dei porti di Tunisi o di Alessandria, Napoli o Genova. La bellezza è un fulmine da cogliere a mani nude in un'Europa dove è disprezzata, almeno quanto lo è la vita di chi non ha certezze. Se non quella di prendere la via del mare.
Ci sono corsari italiani con la pelle tostata che conducono una guerra a difesa dell'intelligenza collettiva. Hanno le loro leggi, regole, attive costumanze e tradizioni. Oggi hanno trovato un approdo nella rivista "Quaderni Corsari", ma non scambiateli per pirati perché - come un tempo facevano gli spagnoli dominatori del Mediterraneo (lontano ricordo dell'attuale pena) e gli anemici difensori del Verbo dell'Austerità -questo è un titolo d'infamia usato dalle potenze dominanti per nascondere la guerra endemica che conducono contro la vita dei civili. Li chiamano Piigs, sono tutti i paesi del Mediterraneo, cicale che avrebbero sprecato le loro risorse per foraggiare il debito che oggi dev'essere tagliato.
La corsa è una pirateria antica che pratica una guerra permanente. Il suo limite è che invecchia sul posto. Ma i corsari non sopportano l'idea di diventare professionisti della corsa, un ceto che si abitua al movimento tra i mari con le sue usanze, i suoi accomodamenti, i suoi dialoghi frequenti in un gioco delle parti che ricorda la commedia dell'arte. Per loro non c'è il rischio che il vecchio sogno di "prendere il palazzo d'inverno" si trasformi nell'attuale "dovere morale" di trovare un seggio in parlamento. Non c'entrano nulla con quella dicitura che si legge sui cartellini dei prezzi della campagna elettorale: "centro-sinistra", "sinistra". E non usano il goniometro per trovare un briciolo d'anima nell'arco costituzionale.
Esilio interiore
Corsari sono tutti quelli in movimento che non hanno, né mai avranno, uno spazio nella politica e nella società dell'austerità, da oggi alla prossima generazione. Dobbiamo abituarci a questo esilio in patria, nuova forma della fuga sul posto. Ma nel Mediterraneo questa forma dell'esilio interiore ha sempre corrisposto ad una guerra non convenzionale e alle complicità tra le popolazioni escluse da tutto, ma non dalla libertà di camminare, navigare, assediare i mari e le fortezze, siglare patti inconfessabili. Senza la complicità di Livorno le merci predate dagli europei come dagli arabi sarebbero marcite. Aprirono le porte in quella città vigorosa e fiera, e le merci raggiunsero i paesi del Nord.
Infrequentabile rappresentanza
La guerra di corsa unisce le rive, i gruppi, e ha molti responsabili. E' un richiamo alla complicità tra i disgraziati e i ricchi, tra i signori e gli stati, tra i precari e gli agiati. Questo è l'unico modo per sopravvivere all'impatto delle politiche recessive, ma anche per costruire quelle pratiche del "fare società" (la definizione è di Marco Revelli intervistato nella rivista), oppure del creare nuove istituzioni a livello europeo che garantiscono un welfare e un reddito di base (Peppe Allegri). In questi quaderni, i corsari invocano un progetto "contro-egemonico" che, aggirando l'infrequentabile sfera della rappresentanza politica (con il centrosinistra che si dilanierà sull'Agenda Monti e finirà per dissolversi nuovamente), costituiscano una nuova democrazia sovranazionale.
E' un balzo all'indietro di dieci anni, quando l'ipotesi della democrazia in Europa, che sembrava passare attraverso l'approvazione di una Costituzione europea, venne rigettata dalla sinistra francese (e dall'Olanda) in due referendum nel 2004. Fu suicidio? Si, lo fu. E da allora, per favore, non parliamo di "sinistra" in Europa. Leggiamo quella che Etienne Balibar, in una risposta ad un intervento di Jurgen Habermas, ha definito l'aporia del "demos" europeo:
Il demos non preesiste come condizione della democrazia, ne deriva come un effetto. Ma neanch’essa esiste se non nel corso e nelle forme delle diverse pratiche di democratizzazione. Come democrazia rappresentativa, certo, ma anche come democrazia partecipativa, il cui limite è il comunismo autogestito (la costruzione dei comuni », direbbe Negri), e come democrazia conflittuale («contro-democrazia», direbbe Rosanvallon), che vive di rivendicazioni e proteste, di resistenze e di indignazioni. Sono modalità in equilibrio instabile – è vero – che ci allontana da un costituzionalismo «normativo». Non potrebbero esser messe in atto da decisioni prescrittive, quale che ne sia il modo di legittimazione (come altri, Habermas evoca con insistenza la possibilità del referendum sul futuro dell’euro e dell’Europa). Può perfino sembrare che andando oltre la possibilità di una gestione da parte dei governi, dando vita alle virtualità dell’autonomia o del dissenso, esse vadano incontro all’obiettivo di una « rifondazione » dell’Unione europea: come fare unità con la molteplicità e la contraddizione, stabilità con l’incertezza, legittimità con la contestazione?A questa domanda nessuno può ancora rispondere. Si possono avviare strategie di composizione dal basso, di vita alternativa, creazione di istituzioni e norme condivise, di procedure e deliberazioni totalmente estranee alla democrazia "amministrativa" (o "governamentale") che verrà rafforzata dall'Agenda Monti e da ogni probabile governo che avrà l'infelicissima ventura di affacciarsi da oggi in poi.
Siamo con Balibar contro Habermas. Il primo pensa di ricostruire la democrazia europea nella sua forma conflittuale-radicale, trovando un'ancora non troppo chiara formula magica che mescoli il dovere della legittimità con la necessità della contestazione. Il secondo pensa che la democrazia sia una forma procedurale-normativa e che basti fare un referendum (ai tedeschi, non agli europei) per ristabilire il senso perduto.
Ma il punto è, forse, un altro: la guerra in Europa instaurata dalla "rivoluzione dall'alto" della Bce, delle tecnocrazie, del Fiscal Compact nella costituzione (e guai a denunciarlo, pena un rimbrotto della Presidenza della Repubblica), ci porta su un altro piano, completamente diverso: che cosa bisogna ricostruire di questa democrazia? Che democraticamente ha approvato norme anti-costituzionali?
Il futuro dei corsari
Ai corsari non hanno legge, e ne creano una nel diritto orale che vige in alto mare, si dovrebbe porre una domanda, perché è la nostra forma di vita che la impone. E riguarda il nostro futuro. Se questa avventura della crisi ci porterà a essere tutti senza patria né religione, e a praticare la guerra di corsa come un mestiere, un mezzo per vivere, allora bisogna mettere seriamente in discussione il concetto di "democrazia".
C'è un pessimismo di fondo nei corsari che li spinge a credere che un'alternativa di sistema, pur necessaria, sia difficile da affermare. L'alternativa, allora, può essere quella di fondare città corsare come l'Algeri berbera, una città cresciuta all'americana, col suo molo, il faro, i suoi possenti bastioni, le grandi opere d'arte in una città repubblicana dove gli artisti e i liberi pensatori si mescolavano nelle taverne con la mano d'opera qualificata, calafati, fonditori e marinai, carpentieri, vele, remi, e un mercato dove smerciare le prede e approfittare dei piaceri della terra ferma che oggi - in tutti i paesi europei - sono negati?
Fondiamo le nostre città corsare. La vita precaria, e in guerra senza tregua contro l'incertezza, sarà più dolce. Da Rodi a Marsiglia seguiremo la rotta dei pellegrini, dei carichi di spezie, della seta, del legno, del riso e del grano. E, alla fine, riusciremo ad amare anche questa vita, sul crinale.
Roberto Ciccarelli
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