giovedì 19 settembre 2013

TEATRO VALLE: LA VITA AL TEMPO DEL FUTURO ANTERIORE

Quattordici giugno 2011. Piazza di Torre Argentina a Roma, caldo feroce. Alle 10 siamo pronti. Ci dividiamo in tre gruppi, zaino in spalla, lenti scure, passo apparentemente svagato, aria da turisti con gli anfibi. Al telefono si parla per monosillabi. Ora accelera, non fermarti, convergiamo in un solo punto. Mancano duecento metri dall’ingresso per gli artisti del teatro Valle. Alle spalle del Senato, sei mesi prima ho visto la sassaiola contro i blindati, prima che una carica irrompesse da questa strada. Un’imboscata. Ho rischiato l’arresto, poi ho preso le manganellate in piazza del Popolo. Sanguinavo dalla testa. Ma sono riuscito a scrivere, nonostante tutto. Nella fuga ho strappato il cappotto al gancio di una porta.

L’occupazione del Valle – oggi ha assunto la stessa importanza del movimento costituente – non è iniziata con un’attrice che faceva da esca con il portiere del Valle, leggenda chic creata da un bravo inviato di Repubblica. Risale a due mesi prima, all’assemblea del Piccolo Eliseo dove nacque l’alleanza tra i lavoratori del Valle e gli intermittenti dello spettacolo romani di Zeropuntotre. La video-intervista realizzata cinque anni fa da Roberto Faenza riprende le analisi, la postura, la felicità di un atteggiamento critico, la capacità di costruire coalizioni, che oggi rendono il Valle, e i suoi occupanti, un esperimento del futuro anteriore. Il mondo  come sarà è quello che state vivendo qui. 

Segnali, frammenti, sintomi di un presente che ricostruiremo tra qualche anno.





Quel giorno la porta del teatro era aperta. Entriamo. Un centinaio tra attori e danzatrici, video-maker e attrezzisti, tecnici del cinema si radunano in platea. Davanti a noi corde, carichi, impianti elettrici, un tavolo per costruire una quinta. È un cantiere, su questi assi c’è una pura potenzialità. «Tutti in platea, prendete la scala e attenti ai cavi». Le porte sono chiuse dall’interno, non si fuma, «e questo non è solo un dovere morale, ma perché qui scatta l’antincendio». Il cordone sanitario si rafforza. Si spiegano le ragioni e le responsabilità di tutti. Ci mettiamo in fila, parte la visita guidata. Chi il teatro lo conosce meglio dell’anima avverte che è inutile scappare in caso di incendio. «Non andrete da nessuna parte, il teatro è pieno di vicoli ciechi». E non solo il teatro, direi.

I camerini, dove l’acqua è calda. I palchi dove si continua a dormire, nonostante gli acari. In fondo al foyer c’è una gigantografia di Eleonora Duse che guarda dritto chi sale sulle scale a ferro di cavallo. È un’ascensione, accade nei grandi palazzi romani dove le scalinate sono un nastro che coniuga una trigonometria affettiva. Il piccolo corteo scorre in silenzio. È quasi una preghiera, una discreta adorazione coglie tutti all’improvviso. Ma questa serpentina di anfibi assomiglia anche ad una gita turistica. Le finestre non si aprono nella camera assolata al terzo piano. Per una volta la vita è dentro le mura, non dispersa nell’ordinaria mostruosità del mondo. «Non affacciatevi al mancorrente del palchetto. Chi si appoggia casca di sotto». In questa bomboniera di velluto rosso tutto è vero, tutto è falso.

Da una stanza grande quanto un cunicolo si affaccia Pierina. Memoria storica del Valle, ricorda le repliche dei Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello lo fece mettere in scena qui per la prima volta. È una donna con lo sguardo quieto e l’ironia folgorante. Da trent’anni arriva in teatro, ogni giorno alle cinque e mezza, in autobus da Tor Bella Monaca. E amministra il bene più prezioso per l’arte che a quell’ora dorme: l’ordine, la pulizia, la nettezza, la sicurezza. Prepara la potenza, la sua espressione. Ogni giorno è una veglia in attesa della sera, quando l’orologio riprende a girare, e arriveranno i tecnici, gli attori e il pubblico. Mezzo metro di altezza, Pierina parla un romanesco scolpito, vigoroso. Si ravviva la crocchia dei capelli striati di bianco: «Attacco presto domani, ahò non è che quanno so’ qua ve pijate er coccolone?». E il capo attrezzista, la nostra guida che la guarda compiaciuto, gli risponde: «A Pierì, te prego, quanno je risponni ar citofono nun te mette a ansimà, occhei?". E quella: "A regazzì, a quell’ora io nun lo faccio mai ar telefono, che m’hai capito eh?».

«Guarda che se c’è ‘na ventata qui cascano i chiodi». È l’ultimo richiamo di Mauro, macchinista di scena, agli intermittenti che ora sono il Valle occupato. «Ma dove s’è visto mai che in un teatro c’è il vento» risponde qualcuno sottovoce. Ma, forse, non èquesto il senso di quelle parole. Quel vento va inteso in senso più largo perché, ecco la grazia delle parole, riassume alla perfezione come la crisi abbia reso vulnerabili tutti gli indipendent contractors, contrattisti indipendenti, in altre parole i freelance che lavorano nello spettacolo, nel teatro o nel cinema, ma anche nell’editoria, nella ricerca o nei musei. Esposti ad ogni soffio di vento, come tutti i lavoratori autonomi di seconda generazione, gli intermittenti dello spettacolo non hanno diritto ad un sostegno al reddito, né a un’assicurazione sanitaria, per non parlare del diritto universale alla maternità o di quello alla pensione.





Questi sono i paria del nuovo secolo. Ma non vogliono essere chiamati «precari». Lo ripetono nelle assemblee, s’infuriano quando qualcuno, con compassione e l’aria da prete, gli spiega la verità del sindacalismo e della sua cattiva coscienza. Non perchè non lo siano, ma non vogliono apparire vittime, come li considera ancora oggi la sinistra. «Precariato» è solo una rappresentazione sociale, mentre loro desiderano sfuggire a queste e altre classificazioni che disegnano i confini di una soggettività passiva, quella degli esclusi in attesa di una ricollocazione sul mercato del lavoro, che non sarà mai un ritorno alla cittadinanza. Loro vivono, lavorano, sono autonomi. Sono una parte del Quinto Stato.

Ad agosto 2011 l’occupazione aveva ricevuto oltre 10mila firme di sostegno. Era più di una testimonianza. Lo dimostrano oggi i 5600 "soci fondatori" che hanno dato alla Fondazione "Teatro Valle Bene Comune" 143 mila euro, una parte importante del capitale sociale di 250 mila euro necessario per avviare i lavori di un'istituzione inedita dell'autogoverno degli artisti e della cittadinanza a Roma (gli altri 107 mila vengono dalle donazioni di opere fatte da pittori, scultori e molti altri). 

E' stato un amore a prima vista. Il pubblico, i cittadini hanno condiviso con gli occupanti un desiderio di autonomia, di liberazione. E' iniziato subito, dalla prima assemblea, il giorno stesso dell'occupazione. Cinquecento persone si alzarono in piedi durante la conferenza stampa quando un’incauta giornalista ha chiesto i nomi degli occupanti. «Siamo noi che occupiamo questo teatro». Brividi. L’applauso è durato mezz’ora. Mi sono commosso.




Tra Sant’Eustachio e Campo de’ Fiori il gesto più ricorrente è quello dell’abbraccio. Lo vedi per strada, tra i palchi, nei bar che hanno fatto fortuna. «Sono felice di avervi incontrato» ho spesso sentito dire. La riscoperta di una fratellanza, di una complicità, di un affetto che sembrava sconosciuto. Accade, non è l’ideale segreto dello scrivente proiettato sulla realtà. «Prendere il tempo», ecco un altro ritornello dell’occupazione. Tempo per scrivere un nuovo statuto per la gestione dei teatri pubblici, valido anche per altri "beni comuni": la scuola o un ospedale, ad esempio. Al centro l’idea della democrazia diretta e dell'auto-governo  per coinvolgere il pubblico, le maestranze e gli attori. Poi la proposta di un centro per la drammaturgia unico in Italia.



Nel centro spopolato di Roma è nata la Sala della Pallacorda dove si fissano su carta atti costituenti. Emerge il canovaccio di una nuova unità tra le arti. Sembra il vecchio sogno leonardesco: unire nella stessa opera arte, scienza e filosofia. In realtà gli intermittenti immaginano una cittadinanza basata su una «pratica creativa»: tecnici, attori, cittadini si associano per ricreare un mondo in comune dove la conoscenza viene estesa dall’uso delle tecniche, i saperi manuali e quelli intellettuali servono per trovare un’espressione comune ai diritti che mancano.Questa reinvenzione delle forme, e dei diritti, è un esempio di diritto vivente applicato alle istituzioni culturali. Oggi sono gestite con le regole della cooptazione politica. Domani dovrebbero essere restituite alla trasparenza e alla democrazia.



Dietro la parete che divide il Valle dal Senato, il mondo, con grazia, ha riscoperto il «noi» prima dell’«io»; l’espressione prima dell’autore; la gioia prima del risentimento; la giustizia prima dell’opportunismo. 

Mai si era vista prima un’estate così dolce.



A 27 mesi dall'inizio di tutto ieri all’entrata del teatro spiccava un fiocco rosa, segno di una nascita femminile, quella della «Fondazione» appunto. Indica anche la forza con la quale le donne, presenti in maggioranza nell’occupazione e nella sua assemblea, hanno spinto questa esperienza a raggiungere un obiettivo insperato.

Il teatro funzionerà in questo modo: le cariche direttive, comprese quelle artistiche, saranno turnarie ed elette dall’assemblea dei soci. Verrà inoltre realizzato un sistema economico su basi di quità nella retribuzione del lavoro e di redistribuzione della ricchezza prodotta. Verranno garantite al lavoro indipendente tutele e diritti negati ovunque. Sono stati nominati 12 membri del consiglio esecutivo che coordineranno per ora le assemblee dei soci fondatori. La fondazione viene intesa come uno strumento dell’occupazione che non finisce, ma si trasforma.

Da oggi vivranno insieme, perché «la fondazione sarà un laboratorio – afferma l’attrice Ilenia Caleo - Il movimento che sta alla base del Valle si è dotato di uno strumento collettivo e giuridico superiore per consolidare il processo politico in atto e per rapportarsi alla pari con le istituzioni locali e il ministero dei Beni Culturali». Per Stefano Rodotà, che ha voluto festeggiare insieme a Fabrizio Gifuni, Fausto Paravidino e molti altri, il singolare approdo istituzionale, «la fondazione rafforza l’interlocuzione con il Comune di Roma e il Ministero dei Beni Culturali - ha detto - Prescindere da questa esperienza rigorosa fondata sui beni comuni che ha una forte legittimazione sarebbe un’insopportabile forzatura».

Al sindaco di Roma Marino, al ministro dei Beni culturali Bray – nei giorni scorsi si è fatto vedere in teatro – e al governatore del Lazio Zingaretti i «comunardi» chiedono il «riconoscimento politico» di un esperimento di «legalità costituente». E li invitano a partecipare a «tavoli aperti e pubblici». Da loro non verrà una richiesta di attribuzione della struttura, come avviene nella peggiore politica clientelare, a destra come a sinistra. Si vuole creare un processo di auto-governo e di creazione normativa. Un’apertura generosa, ma necessaria, perché nel diritto italiano mancano le norme sui beni comuni, se si escludono gli articoli 41 e 43 della Costituzione.





Le «vecchie istituzioni» continuano a vivere nel tempo della contabilità e delle compatibilità. Il Valle resta nel futuro anteriore. 

È di ieri la notizia dell’ultimo premio alla sua impresa dalla European Cultural Foundation di Amsterdam. Il Valle «è una luce oltre la precarietà dell’Europa colpita dalla crisi finanziaria» si legge nelle motivazioni. La nuova stagione del Valle prevede spettacoli dei Motus, Antonio Latella e Pippo Delbono.




Roberto Ciccarelli

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