Alessandro Guerra
A quanti gli chiedevano in che cosa consistesse l’impostura più oscena veicolata dai principi della Rivoluzione francese, l’abate Marchetti, un dimenticato testimone della leva controrivoluzionaria italiana, non aveva esitazioni a rispondere: il diritto di prendere parola che gli attori, le donne e “persino” i facchini rivendicavano come naturale.
Non l’artigiano o l’operaio, figure sociali certo disprezzate per la loro massiccia adesione ai valori rivoluzionari, ma con un proprio ruolo nell’ordine della gerarchia. E neppure i contadini, naturali depositari del messaggio di conservazione. Erano l’artista, la donna emancipata e il facchino, vale a dire la devianza, la differenza e la precarietà, il lavoro duro a giornata senza tutele e diritti, a turbare i sonni del povero abate. Ecco, simbolicamente quelle figure, la loro volontà di autonomia riassumono la condanna che da due secoli grava sul Quinto Stato da parte della società dei forti o, per dirla in termini più crudi, dei garantiti.
Ma che cos’è il Quinto Stato? La memoria scolastica ci consegna la definizione di Sieyes del Terzo Stato e della sua lotta per contare qualcosa nella società per ordini su cui era organizzato l’Antico regime; la Rivoluzione francese del 1789 sta lì a ricordarci del suo successo e del primato borghese che si impose progressivamente in Europa. È la cura dell’interesse. Del Quarto Stato c’è invece un’immagine nitida che coincide con le figure in marcia di Pelizza da Volpedo, il proletariato, l’orizzonte di lotte da seguire; un sistema organizzato di parole, ideologia, ruoli e riti. È la coralità dei diritti. Ritorna dunque la domanda. Che cos’è il Quinto Stato?
Il libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli (Il Quinto Stato) non si limita semplicemente a rispondere a questa domanda con puntualità e perizia. Sieyes quando scrisse il suo libello non inventò il Terzo Stato ma ne svelò la concretezza storica. Allo stesso modo, Allegri e Ciccarelli non scoprono i quintari ma per la prima volta ne modellano i volti e le storie e maieuticamente li rendono riconoscibili, anche a se stessi, trasformandoli d’incanto in nuovo soggetto politico. Il Quinto Stato è l’atto di creazione di un desiderio.
Per stare alla definizione degli autori, il Quinto Stato è “una condizione sociale” incarnata in una popolazione di circa otto milioni di persone, a cui sono da aggiungere 5 milioni di migranti di seconda generazione: tutti loro, tutte loro non hanno diritti sociali radicati. I quintari non possono ammalarsi, non possono comprarsi casa, non devono aspettarsi una pensione, godono di qualche attenzione nel mulino di parole del Parlamento ma, nei fatti, non hanno una rappresentanza politica. Insomma, il Quinto Stato non ha cittadinanza perché questa è il riverbero della stabilità di impiego.
Il Quinto Stato è il precario, il lavoratore informale, chi rifiuta il lavoro subordinato e il piccolo imprenditore, la partita Iva e l’indipendente, chi opera nella conoscenza: “Il Quinto Stato si esprime attraverso le mescolanze tra situazioni sociali opposte e culture del lavoro divergente”. È evidente dunque, che questa larga coalizione sociale supera i confini tradizionali del ceto omogeneo; attraversa le classi, approdando ad una apolidia che, se è vero ha un forte tratto suggestivo, sottopone però i quintari a subire la spirale nefasta della crisi (sono gli ineguali che rendono attiva l’uguaglianza degli altri) e al sarcasmo delle classi dirigenti. E scontano l’incombenza sempre attuale della precarietà esistenziale che comporta.
Dopo aver già esplorato la dimensione precaria (La furia dei cervelli, 2011), Allegri e Ciccarelli si distaccano con la loro riflessione dalla triste narrazione vittimistica dell’esistenza in vita del Quinto Stato, e cinicamente (un cinismo, beninteso, assunto con acribia nella sua veste filosofica di doppio movimento di “resistenza” alla piega triste della realtà e “generosità” nello sforzo di immaginare una vita diversa e degna) propongono la ricerca di una condivisione e cooperazione che metta in comune senza svilirla quella pratica di autonomia del Quinto Stato, rendendolo potere costituente. Il loro non è un vuoto esercizio retorico, al contrario, con grande affabilità compongono una genealogia delle forme di vita presenti nel Quinto Stato rintracciandole in quegli eretici e nei ribelli che hanno intrecciato la propria eccedenza con la realtà lungo tutta la modernità.
Dalla piattaforma politica di Putney, all’associazionismo popolare rivoluzionario riottoso al centralismo giacobino; dalle lotte per il riconoscimento di un reddito universale, alla festa del popolo parigino pendant la Comune; dalle leghe cooperative agli albori del socialismo italiano, al sogno comunitario di Olivetti; da Flora Tristan a Ian Curtis. Ovunque insomma si sia cercato di immaginare pratiche di vita pubblica non statale, sperimentando concretamente la potenza di nuove istituzioni. Ciccarelli e Allegri senza enfasi mostrano che il sogno del Quinto Stato è vitale, perché nel passato è stato già tentato e si è interrotto per mancanza di condivisione o perché lo Stato ha mostrato il suo volto più cupo.
Il Quinto Stato degli apolidi, solo attraverso la cooperazione, la complicità e l’associazione fra le singolarità autonome che lo compongono, “nella pratica diffusa del fare in comune” ritrova il diritto alla città, agisce, pulsa e infine, vince. Nella capacità di rigenerare continuamente il conflitto, sbarazzandosi del mito della forma insostituibile e data della famiglia, dello Stato, della politica che ne imbrigliano l’immaginazione, il Quinto Stato diviene l’unica alternativa possibile. E perfino il facchino è finalmente sovrano.
(Gli Altri, 15 novembre 2013)
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