sabato 14 giugno 2014

CASERMA ROSSANI LIBERATA, BARI RECLAMA IL DIRITTO ALLA CITTA'

L'occupazione della caserma Rossani a Bari del 1 febbraio 2014 è stata un atto di liberazione scrive il giornalista Nicola Signorile in Diario Rossani (Caratteri Mobili). In una serie coinvolgente di articoli pubblicati nella rubrica “Piazza Grande” su La Gazzetta del Mezzogiono, Signorile spiega come il “passaggio all'atto” di un movimento urbano - composto dal collettivo e dalle famiglie senza casa sgomberate dall'occupazione di Villa Roth e dal comitato civico Rossani che si batte per la costruzione di un parco urbano nella ex-caserma - abbia trasformato la realtà.

Diritto alla città
Il movimento barese rivendica il diritto alla città. Sostiene che le politiche urbanistiche, culturali o sociali devono essere realmente partecipate sull'esempio di quelle nate nella Rossani: una libreria sociale, una sala studio, una palestra popolare, laboratori di giardinaggio, spettacoli teatrali, cineforum, l’orto urbano e la sala prove. Questa azione ha rafforzato l'opposizione ad un progetto speculativo che interessa 80 mila metri quadri in centro a ridosso della stazione e ha eroso il consenso sul progetto di Massimiliano Fuksas che prevede un parco urbano con parcheggio interrato per 800 veicoli.
È lo stesso diritto alla città rivendicato a Istanbul per difendere il parco Gezi, dal teatro Valle o dalla rete “Patrimonio comune” che a Roma chiede il riuso sociale delle caserme, l'ex colorificio o la caserma “distretto 42” a Pisa. Questo diritto è incentrato su pratiche di riconversione e autogoverno urbano. Idee che verranno rafforzate dai rischi di privatizzazione o abbandono insiti nella dismissione delle caserme e del patrimonio pubblico previsti dal “federalismo demaniale”. Dal basso oggi sta salendo una domanda di democrazia partecipata, con tratti radicali, che ragiona sull'ipotesi di cedere gli immobili ai movimenti urbani e su nuove istituzioni di base per co-gestirne le attività.


La lotta contro la «moneta urbanistica»
In un pamphlet che ripercorre la vita politica, urbanistica e speculativa barese dal 2008 a oggi, Signorile individua lo strumento principale con il quale il capitalismo finanziario sta devastando le città: l'urbanistica contrattata che ha messo nelle tasche dei costruttori la «moneta urbanistica», il valore immateriale generato da una semplice destinazione urbanistica di un suolo, ma sganciato da esso. Chi detiene un suolo reso inedificabile diventa titolare di un «credito» riconosciuto dal Comune in altre sezioni della maglia urbana da definire per via contrattuale. Questo è un potente meccanismo che porta a costruire interi quartieri fantasma senza servizi né mobilità com'è accaduto a Roma. Uno dei refrain del libro è infatti “Non fare come a Roma”, la città dove si costruiscono quartieri senza abitanti e dove migliaia di italiani e stranieri non hanno una casa.

La rendita immobiliare contro la vita associata che riscopre intrecci inediti nel quinto stato composto dal ceto medio impoverito e dalle classi popolari, dagli immigrati insieme a studenti e precari. Questo è anche un conflitto tra saperi. Signorile delinea quello tra l'urbanistica contrattata e l'urbanistica partecipata. Di mezzo c'è il nuovo piano regolatore di Bari che privatizza la città con gli strumenti della compensazione o del project financing. In questa cornice il movimento di opposizione è diventato il catalizzatore dei saperi di architetti, urbanisti, filosofi, artisti. Dalla loro cooperazione nascono progetti alternativi che possono avere un impatto rigenerativo sui legami sociali e produttivi.


Di solito le amministrazioni locali vacillano davanti al potere dei palazzinari. Negli anni quella barese non è stata da meno, ma forse oggi c'è una speranza. Il 15 aprile scorso è stata approvata una delibera che avvia un laboratorio partecipativo insieme alla caserma Rossani. La scadenza è il prossimo 31 dicembre. Se ne riparlerà con la nuova giunta. La battaglia è appena all'inizio.

Passare all'atto
Diario Rossani registra come la pratica delle occupazioni si sia trasformata negli  anni in Italia. Subito dopo l'occupazione della caserma da parte del collettivo sgomberato da Villa Roth, Signorile osserva:


Dall’esperienza di Villa Roth essi hanno imparato a non considerare i luoghi e gli edifici occupati un feticcio, ma uno spazio pubblico da restituire all’uso pubblico. Da sottrarre alla condanna del degrado per destinarlo alle coltivazioni biologiche di un orto urbano o all’ospitalità di una famiglia senza fissa dimora, all’organizzazione di corsi di apprendimento o alla promozione di attività artistiche o musicali.


Non è dunque lo spazio in sé ad interessare l'attivismo politico, ma le pratiche che possono essere svolte in uno spazio. Su questo elemento si misura la differenza tra un'occupazione e un'altra, ma anche la qualità di un'azione politica che comprende un ventaglio di soggetti ben più ampio di coloro che ne sono stati gli ispiratori. C'è anche un altro elemento da considerare. Il concetto di «bene comune», molto spesso evocato in queste o altre esperienze, si differenzia dalle sue origini cattoliche perché esprime una pratica collettiva che attribuisce senso e contenuto all'azione dei soggetti quanto agli spazi che la ospitano. Questo è il contenuto performativo espresso dalle lotte ispirate da un concetto fuorviante, ma applicato ugualmente ai beni materiali e immateriali, ai servizi pubblici come al paesaggio.


In una riflessione di valore filosofico importante, Signorile descrive tale significato performativo con le parole di Bernard Stiegler: il «comune» di un bene, di uno spazio, di un'attività, di un linguaggio non è un oggetto, una norma oppure uno status. Esso consiste invece nel «passare all'atto» [Passer à l’act]. 

Tale atto può essere un'occupazione, la costruzione di un linguaggio, un affetto o una rappresentazione. E' la manifestazione di un'altra razionalità di governo, la costruzione di una collettività. Nei fatti, osserva Signorile, a Bari ha significato un salto nella composizione soggettiva sia degli ex occupanti di Villa Roth quanto del comitato Rossani. Si è passati «dalla teoria della rivolta come infrazione dell’ordine delle cose all’azione concreta che quella realtà modifica, irrimediabilmente, anche nella relazione con gli altri personaggi convocati sulla scena».

Il rapporto con gli enti locali
L'occupazione dei teatri, come il Valle a Roma, di palazzi storici come l'ex Asilo Filangieri a Napoli, quelle delle caserme abbandonate a Bari, a Treviso o a Bologna può provocare uno scossone nella giurisprudenza degli atti amministrativi e non solo in quella. Il comune di Bologna ha adottato un «regolamento sui beni comuni» che in questi mesi e' stato compulsato dalla giunta Marino a Roma per affrontare la questione del Teatro Valle. Il regolamento e' stato poi adottato dal Comune di Siena, e sembra che sia stato valutato anche dalla ex giunta Emiliano a Bari.

Un'altra soluzione è stata avanzata a Napoli dove la giunta De Magistris, dopo una serie di decisioni incerte e contrastate, ha approvato due delibere sulla gestione delle proprietà del patrimonio comunale dove i «beni comuni» vengono recepiti come risultato di una fruizione collettiva da parte di associazioni e gruppi che ne fanno richiesta. In più, anche gli spazi abbandonati vengono inseriti in questa categoria.

Bari, Caserma Rossani, la protesta


Il processo è tuttavia solo all'inizio. I movimenti hanno interpretato queste decisioni come un nuovo campo di battaglia. La principale difficoltà è insita nel meccanismo dell'assegnazione di un bene pubblico mediante un bando. I movimenti sostengono che, anche nei casi di riconoscimento di un «bene comune» la delibera possa trasformarsi in un controllo delle attività dall'alto da parte dell'amministrazione. 

Loro, invece, chiedono il riconoscimento dell'uso di uno spazio e avanzano la richiesta di una garanzia contro questo rischio. Le esigenze sono molto concrete: se si entra nella logica dell'assegnazione, il Comune può imporre vincoli fiscali o contributivi. Il problema non è osservare – o meno – tali vincoli, ma capire se la normativa che li impone è adeguata alle attività svolte in questi spazi.

Il precedente dell'Angelo Mai altrove a Roma è esemplare. Centro di produzione teatrale e musicale, e non luogo destinato al puro e semplice intrattenimento, l'Angelo Mai è stato più volte multato perché non rispetta la normativa sulla vendita degli alcolici, ad esempio. Un elemento che è rientrato persino nell'indagine su una presunta «associazione a delinquere», tutta da dimostrare, che ha portato al sequestro dell'immobile oltre che allo sgombero delle ex scuole occupate dal comitato popolare di lotta per la casa. L'Angelo in seguito è stato dissequestrato (qui e qui).

Bari, la Caserma Rossani dall'alto
In questo caso la regolare assegnazione ha obbligato l'Angelo Mai a diventare
 un'associazione culturale, una forma giuridica inadeguata per esprimere 
la particolarità di uno spazio dove si produce teatro, musica, cultura, non luogo dove li si consuma e basta. 

L'Angelo Mai, il Valle oppure ancora il Cinema Palazzo a Roma (al quale i giudici hanno riconosciuto il valore sociale di in'occupazione che ha impedito la trasformazione dell'immobile in un casino') non sono piccole imprese o discoteche o «locali» dove si staccano i biglietti e si paga la Siae. Sarebbe molto riduttivo considerarli tali, anche perché le numerose attività prodotte non sono certamente riconducibili solo al commercio o alla vendita di merce-spettacolo.


Questi spazi producono reddito, ma il reddito prodotto non può essere riconosciuto a chi lo produce. Una contraddizione creata dalla legge, contro la quale più volte i movimenti romani si sono scagliati chiedendo la riscrittura della delibera 26 con la quale il comune ha riconosciuto i centri sociali nel lontano 1995. Paradosso dei paradossi, la magistratura romana ha fatto pesare questa contraddizione creata da un vuoto normativo sugli assegnatari dell'Angelo Mai nell'inchiesta appena ricordata. Sembra che il Comune di Roma, che sta affrontando un confuso rimpasto della giunta, si sia impegnato ad affrontare la questione.

Cooperazione sociale
Tutto sta a capire come verrà affrontata l'emergenza di questa cooperazione sociale in Italia. Nel diritto manca la forma giuridica con la quale riconoscere i titolari di questa attività. 

Chi si raduna o occupa una caserma, un cinema, un palazzo, un teatro, un casale, rivendicando la situazione di fatto attraverso l'uso o la «custodia sociale», in quale categoria del diritto pubblico, privato, amministrativo o commerciale rientra? Sono occupanti, imprese, associazioni, partiti oppure qualcos'altro che sfugge sia allo Stato che al mercato? E poi: bisogna creare una fondazione, come al teatro Valle, oppure una cooperativa o un'associazione culturale per rientrare nell'ambito della «legalità»?


 Bari, Caserma Rossani, 13 Aprile 2014, 
passeggiata nel "Terzo Paesaggio" con Gilles Clément

Tutte le soluzioni potrebbero essere buone, una volta però riconosciuto che questa «legalità» non basta per contenere le forme viventi attraverso le quali si esercitano pratiche costituenti. Prima di identificare un soggetto giuridico nel quale ascrivere la fenomenologia – amplissima – delle forme in cui si manifesta il diritto alla città, in Italia e nel resto del mondo, le amministrazioni comunali dovrebbero abbandonare la posizione di chi eroga dall'alto un bene o un servizio e porsi nella posizione di chi – come nel diritto commerciale internazionale oppure nelle trattative politiche – negozia un accordo e lo fa in continuazione.

Non basta scrivere una volta per tutte un «Trattato», come avviene nelle negoziazioni tra Stati, bisogna invece prevedere un lavoro costante di riscrittura di normative, regolanti, statuti che rispecchino i rapporti di forza o le esigenze espresse da soggetti in trasformazione. 

Il «passare all'atto» dei movimenti implica un uso aperto e non gerarchico della giurisprudenza, oltre che il riconoscimento del potere istituente di consorzi sociali non ancora contenuti nelle maglie del diritto o dei poteri costituiti. 

Detto questo, bisogna considerare che non sempre - quasi mai - le amministrazioni e gli interessi dei sindaci, della finanza e dei partiti che li sostengono permettono la sperimentazione di modelli giuridici o sociali. Le occupazioni, le iniziative di riuso o rigenerazione degli immobili abbandonati, possono addirittura accrescere il valore immobiliare tanto da attirare una richiesta di sgombero, la repressione oppure la vendita in un'asta, o una delibera contraria agli interessi di una comunità attiva.

I movimenti urbani sono fragili, soggetti alla fatica delle persone, alla consumazione dei rapporti, agli equivoci, ai dissidi. Basta poco per cancellarli. Anche se si possono sempre riformare. Come dimostra la vicenda barese. Il passare all'atto è un atto politico, di resistenza e trasformazione. Che si ripeta, all'infinito. Perchè si rinnova, anche quando è esausto. Sempre differente.

 

Roberto Ciccarelli

1 commento:

  1. Il guaio di normare queste iniziative, lodevoli se incanalate, è che più che adattarsi alla realtà il diritto inteso all'italiana riduce la realtà a sé stesso. Ciononostante è giusto e opportuno normarle, ripensando semmai proprio il nostro approccio top-down al diritto

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