***
Siamo un Paese vecchio e corporativo che si sta mangiando i suoi stessi figli. Si sta profilando come una vera e propria ecatombe sociale per milioni di giovani e meno giovani. Che sia un bene o un male, il futuro è questo e dobbiamo farci i conti. La scelta di proteggersi da questo futuro accanendosi contro chi lo sta costruendo è ottusa, inutile e crudele
***
Chi si ricorda del “forfettone”, il regime semplificato con un’aliquota forfettaria del 20% cui poteva ricorrere chiunque avesse un reddito imponibile inferiore a 30.000€? Non aveva fatto nulla di male, anzi. Eppure durò veramente poco. La tragedia si consumò nell’estate del 2011, più o meno simultaneamente alla decisione di innalzare i contributi per la gestione Separata (allora al 26%) fino al 33%. Quest’ultima decisione venne sospesa ma in compenso venne emessa sentenza di morte immediata per il forfettone che fu mandato rapidamente in pensione e sostituito con i “superminimi”, il regime iper-agevolato con un’aliquota forfettaria ridotta al 5% che conosce chi ha aperto Partita Iva negli ultimi 3 anni.
La notevolissima riduzione dell’imposizione rese però probabilmente meno visibile una significativa differenza: la durata con il passaggio cessò di essere illimitata: al massimo 5 anni, prorogabili per chiunque non avesse compiuto i 35 anni. Già allora le perplessità furono molte, perchè il nuovo regime dei minimi acquisiva l’identità di politica specifica per i giovani e perdeva ogni caratteristica di sostegno al lavoro autonomo per le fasce di reddito più basse, già prive della possibilità di godere della maggior parte delle forme di welfare. Si concretizzava invece la prospettiva di vedere ulteriormente intaccato il loro reddito disponibile dall’incombente (ed ora operativo) aumento progressivo dell’aliquota INPS per la Gestione Separata fino al 33%.
La notevolissima riduzione dell’imposizione rese però probabilmente meno visibile una significativa differenza: la durata con il passaggio cessò di essere illimitata: al massimo 5 anni, prorogabili per chiunque non avesse compiuto i 35 anni. Già allora le perplessità furono molte, perchè il nuovo regime dei minimi acquisiva l’identità di politica specifica per i giovani e perdeva ogni caratteristica di sostegno al lavoro autonomo per le fasce di reddito più basse, già prive della possibilità di godere della maggior parte delle forme di welfare. Si concretizzava invece la prospettiva di vedere ulteriormente intaccato il loro reddito disponibile dall’incombente (ed ora operativo) aumento progressivo dell’aliquota INPS per la Gestione Separata fino al 33%.
Indietro tutta
Il regime dei superminimi non è rimasto in servizio nemmeno per 3 anni che è già ora di archiviarlo. Dal 2015 arriva infatti il nuovo regime dei minimi, per ora sprovvisto di soprannome, anche se “terminator” potrebbe essere appropriato. Il cambiamento infatti è in senso ampiamente peggiorativo in ragione di un doppio, micidiale riassestamento: diminuisce la soglia a 15.000€ ed aumenta contestualmente l’aliquota forfettaria al 15%.
Torna peraltro a scomparire il limite di età; si torna in pratica al forfettone con un 5% in meno (già mangiato dall’aumento dei contributi per gli iscritti alla Gestione Separata) e con soglia dimezzata a 15.000€. Oltre, c’è l’inferno della contribuzione ordinaria. Facciamo due calcoli veloci. Il completamento del progresso verso il 33% significa un’imposizione complessiva per gli iscritti alla Gestione Separata compresa tra il 56% ed il 58% a seconda degli scaglioni di reddito nella forbice compresa tra i 15.000€ ed i 30.000€. Questa stessa fascia fino a 4 anni fa pagava il 46% in ragione dei contributi previdenziali che allora erano al 26%; vale a dire tra il 10% ed 12% in meno. Tutto questo senza che contestualmente sia migliorato il welfare, che per i lavoratori autonomi era e continua ad essere un concetto largamente astratto.
Torna peraltro a scomparire il limite di età; si torna in pratica al forfettone con un 5% in meno (già mangiato dall’aumento dei contributi per gli iscritti alla Gestione Separata) e con soglia dimezzata a 15.000€. Oltre, c’è l’inferno della contribuzione ordinaria. Facciamo due calcoli veloci. Il completamento del progresso verso il 33% significa un’imposizione complessiva per gli iscritti alla Gestione Separata compresa tra il 56% ed il 58% a seconda degli scaglioni di reddito nella forbice compresa tra i 15.000€ ed i 30.000€. Questa stessa fascia fino a 4 anni fa pagava il 46% in ragione dei contributi previdenziali che allora erano al 26%; vale a dire tra il 10% ed 12% in meno. Tutto questo senza che contestualmente sia migliorato il welfare, che per i lavoratori autonomi era e continua ad essere un concetto largamente astratto.
Dumping
La soglia dei 15.000€ segna quindi uno stacco netto a livello di pressione fiscale e contributiva tra i lavoratori che godono del regime dei minimi e quelli che non hanno i requisiti per rientrarvi. A dire il vero questo stacco è stato ancora più violento nei tre anni di attività del regime dei superminimi, perchè sullo stesso mercato si trovano ora a competere i lavoratori autonomi in regime agevolato soggetti ad una pressione complessiva del 33% (5% di forfait + 28% INPS) e gli altri che subiscono una pressione superiore del 18% (23% IRPEF + 28% INPS); una formidabile leva competitiva che però sul medio periodo porta ad un progressivo abbassamento delle tariffe medie in un tipico fenomeno di dumping.
Si tratta peraltro di un vantaggio solo temporaneo per il giovane lavoratore autonomo e superminimo che quando si trova ad esaurire il suo beneficio, deve trovare il modo di spiegare ai suoi clienti che da quel momento in poi le sue tariffe dovrebbero alzarsi di quel 18% che gli permetterebbe di mantenere lo stesso reddito disponibile. Cosa nei fatti irrealizzabile. Visto sotto questa luce, l’aumento dell’aliquota forfettaria del nuovo regime dei minimi compie un’azione positiva andando ad attenuare questa eccessiva disparità e valorizzando in proporzione altre leve competitive oltre al prezzo, come qualità ed esperienza.
Si tratta peraltro di un vantaggio solo temporaneo per il giovane lavoratore autonomo e superminimo che quando si trova ad esaurire il suo beneficio, deve trovare il modo di spiegare ai suoi clienti che da quel momento in poi le sue tariffe dovrebbero alzarsi di quel 18% che gli permetterebbe di mantenere lo stesso reddito disponibile. Cosa nei fatti irrealizzabile. Visto sotto questa luce, l’aumento dell’aliquota forfettaria del nuovo regime dei minimi compie un’azione positiva andando ad attenuare questa eccessiva disparità e valorizzando in proporzione altre leve competitive oltre al prezzo, come qualità ed esperienza.
Nuovi poveri
Si potrebbe anche pensare che in fin dei conti l’ intervento sia fondamentalmente positivo perchè porta i lavoratori autonomi appartenenti alle fasce di reddito più basse a non svilire il valore delle proprie prestazioni professionali ed a crescere in maniera più sana. Si potrebbe pensarlo davvero se non ci fosse la soglia incredibilmente bassa di 15.000€. Se il regime dei superminimi ha avuto un merito nella sua pur breve carriera, è stato quello di permettere anche a lavoratori debolissimi di raggranellare un reddito disponibile che gli permettesse di sopravvivere, circa 800€ al mese per chi si avvicinava alla soglia massima.
Ora quegli stessi lavoratori, con lo stesso reddito lordo, dovranno arrangiarsi con circa 700€ al mese. Su questi numeri è arrivato il momento di enunciare una verità: è ironico che chi guadagna queste cifre possa essere definito “lavoratore autonomo”, perchè 700€ al mese (se va bene) vuol dire essere a ridosso della soglia di povertà. Ovviamente se non si considerano le spese professionali, non deducibili in questo regime. Basta dover acquistare un computer, necessario per lavorare, fare qualche viaggio in macchina dal cliente, dover frequentare un corso ed il reddito disponibile viene privato di un’ulteriore fetta.
Allo stesso tempo chi guadagna tra 15.000€ e 30.000€ non se la passa troppo meglio. Tanto per dare un’idea, per avere un reddito disponibile di 1000€ deve accumulare un lordo di circa 28.000€, condizione tutt’altro che frequente per un lavoratore autonomo che ha un reddito medio di 18.000€. È in questa fascia che si concentrano i lavoratori magari già avviati e con maggiori potenzialità di crescita, ma una pressione di questa entità, praticamente in assenza di qualsiasi forma di sostegno e di welfare, rende una crescita sana praticamente impossibile.
Ora quegli stessi lavoratori, con lo stesso reddito lordo, dovranno arrangiarsi con circa 700€ al mese. Su questi numeri è arrivato il momento di enunciare una verità: è ironico che chi guadagna queste cifre possa essere definito “lavoratore autonomo”, perchè 700€ al mese (se va bene) vuol dire essere a ridosso della soglia di povertà. Ovviamente se non si considerano le spese professionali, non deducibili in questo regime. Basta dover acquistare un computer, necessario per lavorare, fare qualche viaggio in macchina dal cliente, dover frequentare un corso ed il reddito disponibile viene privato di un’ulteriore fetta.
Allo stesso tempo chi guadagna tra 15.000€ e 30.000€ non se la passa troppo meglio. Tanto per dare un’idea, per avere un reddito disponibile di 1000€ deve accumulare un lordo di circa 28.000€, condizione tutt’altro che frequente per un lavoratore autonomo che ha un reddito medio di 18.000€. È in questa fascia che si concentrano i lavoratori magari già avviati e con maggiori potenzialità di crescita, ma una pressione di questa entità, praticamente in assenza di qualsiasi forma di sostegno e di welfare, rende una crescita sana praticamente impossibile.
Soluzione finale
Non stiamo parlando di uno sparuto gruppo di temerari che, in quanto imprenditori, è normale che debbano accettare il rischio di impresa. Parliamo di circa 2.000.000 di persone che erogano servizi avanzati ad imprese, pubbliche amministrazioni ed in misura minore anche privati, con una modalità altra sia rispetto al lavoro dipendente che all’impresa propriamente detta. Aggiornati, flessibili, autonomi.
Eppure tutte le misure decise in questi ultimi anni sembrano puntare perversamente all’annichilimento di questo segmento, particolarmente nelle fasce di reddito inferiori (eppure numericamente preponderanti). I numeri infatti non si generano a caso e non si può pensare che dietro a questi provvedimenti non ci sia una volontà politica, o quantomeno una cecità. È quindi da chiedersi quale sia questa volontà, o quest’omissione. La risposta più plausibile a questo punto è che si voglia far riassorbire l’anomalia del lavoro autonomo rendendo impossibile ed insostenibile svolgerlo se non per pochi fortunati consulenti con redditi di fascia alta, per i quali l’elevata imposizione incide sul benessere ma non sulla sussistenza.
Per troppi anni si è continuato a pensare che le forme di lavoro autonomo fossero e siano devianze temporanee e di ripiego rispetto al lavoro dipendente in un periodo di crisi, oppure forme di impresa immature. Non a caso infatti il tema è rimasto sepolto sotto quello delle “false partite iva”. Qui la questione si fa sottile: una volta che si riconducessero i parasubordinati a forme contrattuali dipendenti, rimarrebbero solo le “vere” partite iva, cioè forme di impresa cui è connaturato il rischio e che pertanto non è previsto né prevedibile che godano di forme di protezione sociale. Se un primo strumento per ottenere questo risultato è la dichiarata volontà del JobsAct di sfoltire le tipologie contrattuali precarie, un secondo forse è proprio quello di andare a colpire l’anomalia direttamente a livello contributivo e fiscale, rendendo semplicemente impossibile per molti lavorare come autonomi, obbligando gli (inesistenti) datori di lavoro ad assumerli.
Colpire il lavoro precario colpendo i lavoratori sia precari che autonomi: geniale.
Eppure tutte le misure decise in questi ultimi anni sembrano puntare perversamente all’annichilimento di questo segmento, particolarmente nelle fasce di reddito inferiori (eppure numericamente preponderanti). I numeri infatti non si generano a caso e non si può pensare che dietro a questi provvedimenti non ci sia una volontà politica, o quantomeno una cecità. È quindi da chiedersi quale sia questa volontà, o quest’omissione. La risposta più plausibile a questo punto è che si voglia far riassorbire l’anomalia del lavoro autonomo rendendo impossibile ed insostenibile svolgerlo se non per pochi fortunati consulenti con redditi di fascia alta, per i quali l’elevata imposizione incide sul benessere ma non sulla sussistenza.
Per troppi anni si è continuato a pensare che le forme di lavoro autonomo fossero e siano devianze temporanee e di ripiego rispetto al lavoro dipendente in un periodo di crisi, oppure forme di impresa immature. Non a caso infatti il tema è rimasto sepolto sotto quello delle “false partite iva”. Qui la questione si fa sottile: una volta che si riconducessero i parasubordinati a forme contrattuali dipendenti, rimarrebbero solo le “vere” partite iva, cioè forme di impresa cui è connaturato il rischio e che pertanto non è previsto né prevedibile che godano di forme di protezione sociale. Se un primo strumento per ottenere questo risultato è la dichiarata volontà del JobsAct di sfoltire le tipologie contrattuali precarie, un secondo forse è proprio quello di andare a colpire l’anomalia direttamente a livello contributivo e fiscale, rendendo semplicemente impossibile per molti lavorare come autonomi, obbligando gli (inesistenti) datori di lavoro ad assumerli.
Colpire il lavoro precario colpendo i lavoratori sia precari che autonomi: geniale.
Crono reloaded
Se infatti esistesse davvero un tessuto economico e produttivo pronto ad assorbire questi milioni di persone, pur rimanendo opinabile tale scelta non andrebbe a creare i presupposti per quella che si sta profilando come una vera e propria ecatombe sociale per milioni di giovani e meno giovani, comunque portatori di competenze evolute ed avanzate e capaci di relazionarsi in maniera mobile e flessibile ai ritmi ed alle esigenze di un mondo che viaggia a velocità forsennata nonché forse proprio per questo i migliori candidati a coglierne le opportunità.
Che sia un bene o un male, il futuro è questo e dobbiamo farci i conti, in Italia come nel resto del mondo sviluppato. La scelta di proteggersi da questo futuro accanendosi contro chi lo sta costruendo è quindi ottusa, inutile e crudele.
Siamo un Paese vecchio e corporativo che si sta mangiando i suoi stessi figli.
Che sia un bene o un male, il futuro è questo e dobbiamo farci i conti, in Italia come nel resto del mondo sviluppato. La scelta di proteggersi da questo futuro accanendosi contro chi lo sta costruendo è quindi ottusa, inutile e crudele.
Siamo un Paese vecchio e corporativo che si sta mangiando i suoi stessi figli.
Nessun commento:
Posta un commento