***
Ad ogni coworker il suo bibliotecario, ad ogni coworker l’universo informativo che gli compete. I bibliotecari con il loro bagaglio di competenze sono indispensabili negli spazi pubblici e in quelli privati, al di fuori degli edifici nei quali hanno storicamente operato. Per un approccio non hipster ma cooperativo al cowork, il nuovo stile lavorativo che coinvolge a livello mondiale i lavoratori della conoscenza.***
Scenario
Recenti studi ipotizzano che si stiano aprendo nuovi ambiti di intervento per i bibliotecari e le biblioteche italiane generati da un’ampia trasformazione nello scenario del mondo del lavoro e delle professioni, nel quale piccoli imprenditori e lavoratori della conoscenza non subiscono passivamente la crisi e si riorganizzano in nuove forme di associazionismo mutualistico, nel cohousing, nel commercio equo-solidale, nei gruppi di acquisto solidale, nella cooperazione in spazi condivisi come i coworking, nella riscoperta del lavoro artigiano dei makers e i fablab, dando sostanza a quel programma coalizionale evocato da più parti e che richiede un deciso e rinnovato accompagnamento istituzionale, nel quale, a parere di chi scrive, anche i bibliotecari e le biblioteche possono giocare un ruolo determinante.
Si sta diffondendo in sostanza un nuovo modello produttivo in cui aumenta l’importanza delle componenti immateriali, delle tecnologie informatiche, di un capitale umano fatto di saperi formali e informali. In tutto il mondo e specialmente in Italia, per svolgere un’attività economica diventa necessario andare oltre il sapere diffuso, il sapere contestuale del territorio. Sempre di più poi le professioni della conoscenza sono costituite da freelance, cioè da lavoratori in grado di coniugare il tipico individualismo del lavoratore indipendente con le spinte ad un associazionismo capace di confrontarsi con lo Stato e il mercato con modalità nuove su questioni sociali e normative.
Da qualche mese ho cominciato a rivolgere l’attenzione verso il coworking, perché questo nuovo stile di lavoro è in grado di offrire ai processi sociali innovativi in atto, pratiche coalizionali concrete tra diverse soggettività ed enti, che possono diventare più solide se fondate su un uso consapevole del sistema dell’informazione e della proprietà intellettuale, ma soprattutto della ‘saggezza del bibliotecario’.
Il coworking.
Il termine è stato coniato negli anni novanta in California da Bernie Dekoven, noto game designer americano e creatore del CoWorking Institute ma il primo vero e proprio spazio di coworking nasce nel 2005 quando viene inaugurato a San Francisco un loft denominato ‘Hat Factory’ cioè un ufficio aperto che a partire da un primo nucleo di tre programmatori informatici comincia ad essere frequentato anche da altri lavoratori.
Il coworking descrive nel contempo un fenomeno sociale, uno spazio e un’attività, ma non esiste ancora una definizione ufficiale, per questo può capitare nel linguaggio comune di vederlo associato, sovrapposto o a volte addirittura scambiato con altri termini correlati ma che definiscono realtà e stili di lavoro sostanzialmente diversi: è il caso degli uffici open space, degli studi associati, delle imprese sociali, delle cooperative, degli incubatori o acceleratori aziendali. A tutti questi modelli manca l’aspetto del processo sociale collaborativo e informale, caratteristica che può invece essere riscontrata nel mondo dei fablab e dei makers, con il quale il coworking condivide a volte spazi e temi, pur senza restringere la sfera di coinvolgimento dei lavoratori alle nuove forme di artigianato.
I coworkers sono donne e uomini di qualsiasi età con un alto livello di istruzione in un ampia gamma di discipline e impegnati nei settori produttivi innovativi e tradizionali. Il coworking è sia uno ‘spazio fisico’ in cui i lavoratori possono lavorare a stretto contatto con altri coworkers, utilizzando delle apposite aree comuni, allestite per favorire la condivisione e la serendipity, sia uno spazio ‘accogliente’ che unisce alla dimensione del lavoro anche la dimensione della vita quotidiana, come quella del riposo, della pausa pranzo, della socialità, della maternità etc. È quindi un facilitatore economico e professionale per il singolo ma anche una fonte creativa di capitale relazionale e sociale. Ogni coworker contribuisce alla creazione di una community trans-professionale grazie alla sua specificità, tutelando nel contempo la sua autonomia, la privacy e la libertà di movimento.
Questo stile di lavoro quindi può creare vantaggi, benefici ed esternalità positive anche per le aziende tradizionali perché ai coworkers possono richiedere prestazioni professionali differenziate e integrate, in economia di scala, oppure decidere di inviare i propri dipendenti per periodi di tempo a lavorare fianco a fianco con altre professionalità.
I coworking stanno contribuendo alla trasformazione delle aree periferiche delle città da dormitori a nuovi luoghi di vita, lavoro e consumo, riqualificando quindi gli spazi dismessi a causa della crisi. I lavoratori spesso cercano e ottengono il sostegno delle amministrazioni pubbliche di prossimità e aprono i battenti alla cittadinanza in occasione di eventi pubblici a carattere ludico o formativo. Per il territorio in cui è collocato, per l’azienda e per il singolo, il coworking diventa quindi uno spazio di formazione continua poiché il baratto e la condivisione di informazioni tra coworkers e contesto di riferimento permette un frequente aggiornamento sulle competenze necessarie per stare sul mercato in maniera competitiva.
Nel 2010, la rivista online “Deskmag” censisce 600 spazi di coworking in tutto il mondo grazie a un sondaggio che coinvolge 661 partecipanti di 24 paesi; l'indagine, replicata anche nel 2011 e nel 2013, ha registrato dei risultati impressionanti: nel 2012 i coworking sono già 2000, frequentati da più di 100.000 lavoratori e nel marzo 2013 diventano 2500; nel frattempo si svolgono tre edizioni della ‘Global Coworking Unconference’ e una ‘World Jelly week’. In Italia, la ricerca di Elisa Badiali, a marzo 2014, ne ha censiti circa 200 con un maggiore diffusione al centro-nord soprattutto nelle città attestate nella fascia tra 100 e 200 mila abitanti. Ma come integrare il coworking in biblioteca?
Il coworking in biblioteca
Nella letteratura biblioteconomica straniera il tema del coworking ha già fatto capolino da qualche anno accompagnato da interessanti esperimenti di implementazione e ristrutturazione dei servizi bibliotecari. In Italia invece è in corso un importante dibattito sulle culture e le pratiche di progettazione dello spazio in biblioteca ma non ci sono ancora pubblicazioni, ricerche o progetti operativi, a parte l’unica realtà di coworking in biblioteca inaugurata in provincia di Torino.
Si vanno diffondendo nel frattempo all'interno delle biblioteche spazi e servizi dedicati a makers e fablab. Le parole chiave più ricorrenti nelle esperienze e negli studi di settore all'estero individuano la biblioteca come supporto e servizio all’autoimpiego e ai nuovi imprenditori; piccole e grandi incubatrici di start-up; spazio per la community collaboration, coworking, digital media labs, hackerspaces.
Già a partire dal 2010 la Library 10 nel centro di Helsinki offre spazi e attrezzatura per lavoratori in movimento. La biblioteca dispone di postazioni singole e sale riunioni, aree per parlare al telefonino o per fare una videoconferenza. A ottobre del 2011 Phil Shapiro, educatore in una biblioteca pubblica di Whashington DC, pubblica sulla rivista “PCWorld” l'articolo Coworking at the Public Library dove indica i vantaggi per un lavoratore freelance nel frequentare il coworking in biblioteca: in cambio della prestazione di qualche ora di lavoro a favore degli utenti, il freelance può godere di sconti sui servizi a pagamento, dell’accesso gratuito alla sala riunioni, della fruizione delle collezioni e della consulenza dei bibliotecari i quali, a loro volta si ritroverebbero a gestire un posto brulicante di persone e idee; il ruolo del coworking librarian sarebbe quello di "convocatore" di conversazioni e guida nell'universo della conoscenza.
Spazi di coworking vengono allestiti man mano in diverse città americane e nel 2013 viene annunciato quello che ad oggi appare come il più ambizioso progetto di coworking in biblioteca che prende il nome di ‘Alexandria Co-working Network’ che si propone di far diventare le biblioteche pubbliche aderenti dei grandi incubatori di start-up e piccole imprese. Il progetto intende guidare lo sviluppo economico fornendo una rete di sostegno aperta alla comunità di innovatori, imprenditori, inventori, problem solver, attraverso le biblioteche pubbliche dell'Arizona considerate una rete affidabile e geograficamente favorevole per attività di collaborazione.
Le contraddizioni prodotte da un progetto di promozione di un coworking nelle biblioteche accademiche a sostegno di modelli di attività imprenditoriale sono quelle descritte da Risa M. Lumley, della California State University che, in seguito ad un’accurata analisi del contesto economico e sociale del territorio che aveva portato nel 2011 a rilevare l’esistenza di una consistente percentuale di lavoratori nel settore creativo e culturale, sperimenta l’allestimento di spazi di coworking nella biblioteca di un campus differenziando i luoghi dello studio individuale dagli spazi dedicati al lavoro collaborativo.
Fornire invece, a managers, decision makers, designers di technology-enhanced library spaces una descrizione delle motivazioni e degli ostacoli percepiti dagli utenti negli spazi di coworking in biblioteca è lo scopo dello studio condotto recentemente anche da Mark Bilandzic e Marcus Foth dell’Urban Informatics Research Lab della Queensland University of Technology di Brisbane in Australia.
I due ricercatori hanno effettuato una ricerca etnografica nel bookless space della State Library of Queensland, esplicitamente dedicato al coworking, all’apprendimento sociale, alla collaborazione tra pari e alla creatività culturale e tecnologica, partendo dal presupposto che le biblioteche favoriscono modalità di incontro tra gli utenti a bassa o alta intensità a seconda delle attività in cui sono coinvolti. Per questo gli autori suggeriscono delle indicazioni strategiche per progettare spazi e tecnologie adeguate ad una biblioteca che attragga ed esponga alla serendipità quelle fasce di utenti, come i coworkers, coinvolti in attività ad alta intensità. Una ricerca ambiziosa dunque che contribuisce ad arricchire un settore di studi e di intervento che identifica l’utente della biblioteca come una risorsa per tutti gli altri utenti.
Il bibliotecario coworker
Negli Stati Uniti a maggio del 2011 Seth Godin generò un po' di scalpore quando in un suo post sul futuro delle biblioteche affermò che potevano diventare dei luoghi dove riunirsi per lavorare insieme aiutati da bibliotecari in grado di capire la Mesh. Meg Knodl bibliotecaria della Hannepin County Library di Minneapolis addetta al settore “Communications and Community Engagement” non si fece attendere e propose ai gestori del Coco, uno spazio di coworking della città, di attivarvi all'interno una postazione come bibliotecaria con il compito di occuparsi della programmazione degli eventi e di rispondere alle richieste di informazione e ricerca della community dei coworkers. Meg divenne così la prima coworking librarian del mondo.
Il bibliotecario può esercitare solo come dipendente pubblico oppure anche come imprenditore, libero professionista, freelance, startupper operativo anche al di fuori delle strutture bibliotecarie, a prescindere dal tipo di contratto di lavoro che stipula con i suoi committenti? Cosa trova di attraente nel coworking? Lo spazio? La community? I servizi? La condivisione del processo di creazione di conoscenza? O tutti questi aspetti messi insieme? Il bibliotecario coworker può generare benefici in ambito sociale, economico e culturale sostenendo le nuove forme di sharing economy?
Possiamo trarre ispirazione per delineare il suo profilo professionale dall’analisi offerta dalla biblioteconomia, dalla documentazione e in particolare dalle recenti teorie del ‘bibliotecario incorporato’ e della ‘biblioteconomia partecipativa’?
Di sicuro a trasformare radicalmente il ruolo delle biblioteche e dei bibliotecari contribuisce la volontà di farsi interpreti del sistema documentale attraverso l’attività svolta nell’educazione dei cittadini e nella realizzazione di nuovo sapere tramite l’information literacy.
Ad ogni coworker il suo bibliotecario, viene da pensare; ad ogni coworker l’universo informativo che gli compete; ad ogni community il pluralismo informativo che la unisce. A ricordarci l'importanza dell'information literacy per i lavoratori è la storia stessa di questo concetto utilizzato per la prima volta nel 1974 dall'avvocato Paul G. Zurkowski, presidente della Information Industry Association, esperto di proprietà intellettuale, secondo il quale i lavoratori americani, al di fuori di una visione bibliocentrica, sarebbero dovuti diventare information literate entro il 1984 perché era chiaro già allora che l’accesso alle informazioni avrebbe avuto un impatto enorme sulla loro vita economica.
Dai documentalisti, tradizionalmente incardinati nell’ambito del lavoro aziendale e della ricerca possiamo ereditare molte ed indispensabili competenze nella valutazione, nell’organizzazione e nell’uso dei documenti tecnico-scientifici e dei documenti d’impresa oppure nella redazione di rapporti, profili d’azienda e rassegne stampa. Dagli information broker possiamo apprendere il trattamento e la fornitura dell’informazione su basi strettamente commerciali a cura di professionisti indipendenti per conto terzi.
Dall’esperienza dell’embedded librarian proposto da David Schumaker possiamo trarne analisi ed esempi provenienti dalle università, dal settore medico, dalle aziende, dalle organizzazioni governative e no-profit, dalle scuole e dalle biblioteche pubbliche e, sulla base del nostro ruolo giocato nell’informazione, creare un ponte tra bibliotecario e coworking, giacché nella definizione di embedded librarian, l’aspirante coworker può ritrovare una possibilità pratica: incorporarsi nei progetti collettivi che nascono all’interno dei coworking, che sono uno dei fiori all’occhiello del successo di questo nuovo stile di lavoro.
Carico di suggestioni e di spunti operativi per un coworking librarian è infine il ruolo attribuito al bibliotecario da David Lankes, che egli definisce ‘facilitatore della comunità’ perché insieme agli utenti, anzi ai membri delle community di riferimento, traccia i percorsi per un miglioramento della società e quindi anche del mondo del lavoro. “Il valore del bibliotecario si trova nelle scuole, dove i bibliotecari specialisti di multimedia preparano il nostro futuro insegnando ai bambini; si trova nel bibliotecario che all’interno delle stanze del potere assicura la libertà di informazione; il valore del bibliotecario si può vedere nelle aziende, negli ospedali, negli studi legali, negli uffici dei trasporti e nei college sparsi in tutto il mondo.
Anche se gli è stato attribuito un settore di servizio limitato ed è rimasto nascosto finora dietro un’immagine stereotipata, esclusiva e romantica, è tempo che questo nobile valore del bibliotecario risplenda e venga messo in evidenza nella nostra società”. Certo, il valore del bibliotecario si può esprimere anche all’interno dei coworking se si inserisce consapevolmente nei processi di creazione della conoscenza.
5 - Conclusioni. Il bibliotecario, sia che abbia un coworking in biblioteca o che ne frequenti uno tra le migliaia esistenti nel mondo, dovrà possedere un insieme di conoscenze, competenze e abilità maturate attraverso appositi studi disciplinari ed esperienze professionali, spendibili nell’ambito del lavoro collaborativo e della produzione immateriale. Dovrà essere competente nell’analisi del contesto; nella scelta degli spazi, nell’arredamento, nell’allestimento delle postazioni; nell’acquisizione e il trattamento delle collezioni; nell’erogazione di servizi di reference e formazione; nella gestione delle community e delle competenze professionali; nella classificazione di idee, conversazioni, vocabolari, progetti; nelle politiche di accesso e possesso della proprietà intellettuale; nella scrittura, l’editing, la creazione, la traduzione di documenti, report personalizzati, rassegne stampa e profili aziendali.
Giungiamo così al termine di questo primo parziale mosaico raffigurante il bibliotecario coworker, consapevoli che forse è peregrino al momento pensare - soprattutto in termini di investimento - a un reale sviluppo significativo del coworking nelle istituzioni bibliotecarie italiane, come lo è altrettanto pensare che le amministrazioni pubbliche decidano di incorporare dei bibliotecari (in azienda, nei coworking, nei gruppi di studio e ricerca); è fattibilissimo invece affittare in autonomia una scrivania in uno di questi spazi e tentare di costruire la propria esperienza professionale insieme a decine di altri professionisti impegnati in settori diversi dal nostro ma aperti al dialogo.
I bibliotecari con il loro bagaglio disciplinare e professionale sono in grado di accompagnare la comunità operosa (freelance, lavoratori dipendenti, imprese, precari) a uscire dal localismo, proiettando il tessuto produttivo verso hub più ampi, verso conoscenze più complesse, facilitando il rapporto con le università e il mondo della ricerca, poiché i bibliotecari e le biblioteche sono – anche storicamente – i soggetti protagonisti dell’ibridazione dei saperi formali e disciplinari con i saperi contestuali dei territori.
Come ha suggerito Giovanni Di Domenico, riprendendo il concetto di relianza di Edgar Morin - cioè la capacità di contestualizzare le informazioni, trasformarle in conoscenza, e collegare le diverse conoscenze tra loro - è necessario ricomporre il sapere frammentato, disperso nei territori, dando l’opportunità, secondo me, anche a imprenditori e professionisti di cogliere con maggior successo la complessità e la globalità dei problemi.
*Warehouse Coworking Factory, Marotta (PU)
Nessun commento:
Posta un commento