Giuseppe Allegri
Il referendum in Grecia sull'austerità è contenuto nel programma elettorale di Syriza. E' loccasione per creare una nuova istituzione europea che spezzi i diktat del direttorio Merkel-Juncker-Draghi-Fmi, permetta una rinegoziazione dei debiti e apra gli spazi politici di una Repubblica europea.
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Che il
processo di integrazione europea fosse entrato in una crisi strutturale divenne
chiaro per lo meno dieci anni or sono, nella tarda primavera del 2005, con il
doppio no referendario francese e olandese al Trattato che adotta una
Costituzione per l'Europa. L'Eurozona era entrata in funzione da tre anni e
il grande allargamento a Est dell'Unione europea era avvenuto nel 2004,
parallelo all'estensione della NATO. L'interregno europeo e mondiale post-1989
subiva un ulteriore giro a vuoto e la crisi istituzionale europea verbalizzava
la scarsa coesione interna e capacità globale del vecchio Continente, con la
coalizione dei volonterosi capitanata dagli USA di Bush e dal Regno Unito di
Tony Blair già in Iraq dal 2003.
Ma la storia
di Europa è la storia delle sue crisi. Senza risalire al pluri-secolare
dibattito intorno alla Krisis, molto più modestamente, nella recente
storia della costruzione europea le innovazioni istituzionali sono state spesso
frutto di un inasprimento delle condizioni di crisi politiche, economiche e
istituzionali, quasi si possa continuare a parlare delle occasioni costituenti
nei periodi di crisi e della «fecondità delle crisi»[1].
Cinque
anni persi
Così il solo
fatto di aver nominato l'ipotesi referendaria da parte del governo Tsipras è un
mezzo, per giunta ripreso dal punto 27 del
programma elettorale di Syriza, per rompere l'incantesimo degli ultimi cinque
anni di dis-integrazione europea. Del resto è un solitamente sempre moderato e
saggio, ottantenne filosofo tedesco, come Jürgen Habermas a ricordarci che «fin dal maggio 2010 la cancelliera
tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento
dell’economia greca».
Perché da cinque anni il Direttorio
degli esecutivi, capitanato prima dal duo Merkel-Barroso, ora da
Merkel-Juncker, accompagnato dall'ibrido istituzionale della Troika (o Brussels
Group che voglia dirsi), con il Fondo Monetario Internazionale a farla da
padrone, riscrive un “diritto europeo dell'emergenza permanente” che mina alla
radice qualsiasi integrazione continentale e approfondisce la spaccatura tra i
“virtuosi” Paesi del nord-Europa e “i dissipatori” dell'Europa mediterranea.
Come nel caso della indegna chiusura delle frontiere sulla questione migranti,
è ancora una volta l'Europa dei governanti e delle burocrazie statali e
intergovernative contro le cittadinanze d'Europa e del mondo.
La
moneta comune come ricchezza comune
Per questo
l'aver solo nominato l'ipotesi referendaria è uno scarto che deve farci pensare
subito all'apertura di una possibilità europea: qui e ora. Al di là di mille,
diversificate interpretazioni. La follia di aver spinto la Grecia fino a questo
punto (come nota Paul Krugman), piuttosto
che il timore e la paura del popolo greco, dinanzi a una convocazione dal
retrogusto plebiscitario. In ballo non è l'uscita dall'Euro, o qualche
improvvido ripiego “sovranista”, come estremisti identitari di tutti i colori
vogliono farci credere.
Piuttosto farla finita con l'ideologia
neo/ordo-liberista, austerica e depressiva, che domina la gestione della moneta
comune europea, che proprio perché comune deve quindi appartenere alla società
e tolta dalle avide mani di finanzieri privati, in combutta con élite
governative statali, europee e globali, spesso ostaggi di grandi Corporation e
della grande criminalità organizzata, veri e propri poteri locali e
transfrontalieri. Perché
la moneta è un invenzione, esiste come istituzione sociale, non in natura, per
dirla già con Aristotele. È un'istituzione creata dagli esseri umani che si
associano per godere di un maggior grado di benessere individuale e collettivo,
per affermare una moneta comune intesa come ricchezza comune.
Accettare
la sfida
Se in Europa
ci fossero forze intellettuali, politiche, culturali, sindacali all'altezza
della sfida, dentro questa apertura spazio-temporale, dovrebbero immediatamente
accettare e rilanciare la sfida del Governo Tsipras per azzardare le basi di
un'innovazione istituzionale continentale. Dare corpo e sostanza a nuove
istituzioni politiche e misure sociali continentali, che rispondano a solidarietà,
proporzionalità e condivisione dei progetti, dei rischi e delle responsabilità.
Fondare, almeno nominare, quella Repubblica europea che faccia tabula rasa dei
pregiudizi (e degli egoismi) nazionalistici e dell'incantesimo
neo/ordo-liberista.
Dopo il
Novecento
Perché sembra
sempre più che le classi dirigenti d'Europa non abbiano imparato niente, non
solo dagli ultimi dieci anni di impasse continentale, dentro la Grande
Recessione che continua a impoverire le cittadinanze d'Europa, ma dai secoli di
lotte fratricide culminate nella lunga guerra civile degli Stati nazione
d'Europa della prima parte del Novecento. E a poco vale ricordare i moniti di
attivisti politici e intellettuali europeisti che pensarono lo spazio di una
Repubblica europea dentro e contro il buio dei fascismi nazionalsocialisti e guerrafondai:
dall'austriaco Kalergi, all'indomani della prima guerra mondiale, ad André Gide
e Julien Benda, fino a Thomas Mann e Paul Valéry, Lucien Febvre e i nostri
Federico Chabod ed Armando Saitta, ma soprattutto Altiero Spinelli ed Ernesto
Rossi.
Oltre settanta anni dopo quegli ultimi appelli (Il manifesto di
Ventotene fu scritto agli inizi degli anni Quaranta) siamo dentro
l'interregno europeo e dentro l'ennesima manifestazione di quel «nazionalismo
metodologico» lungamente criticato dal compianto Ulrich Beck (1944-2015), nella
sua appassionata e lungamente rivendicata visione di una concreta Europa
cosmopolita. Perché è
possibile pensare il mondo dopo la crisi globale a partire anche dalla
necessità di rilanciare un processo continentale di solidarietà continentale,
rifiutando una volta per tutte gli «egocentrici nazionalismi europei» (per dirla con
il lucido europeismo di Edgar Morin, con Mauro Ceruti, La nostra Europa,
Raffaello Cortina editore).
Dentro-contro
l'interregno
E, se è vero
che “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio non muore e il nuovo
non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più
svariati” (per dirla con il Gramsci riletto da Étienne
Balibar),
è anche vero che la crisi è un'occasione di nuova
invenzione democratica. Un'invenzione istituzionale che
interrompa i diktat austerici degli ultimi cinque anni, permetta una
rinegoziazione dei debiti e apra gli spazi politici di a regional
& republican Europe, da porre nell'agenda dei movimenti delle
cittadinanze d'Europa immediatamente.
Questo sarebbe un modo, concreto e
operativo, per stare con il popolo europeo della Grecia e del resto di
Europa.
[1] Così H. Gelas, De la fécondité des
crises. Le rôle des crises dans la construction européenne, in Droits,
n. 45/2007 (Institution de l' Europe?), pp. 35-46.
"Perché la moneta è una invenzione, esiste come istituzione sociale, non in natura, per dirla già con Aristotele": è ovviamente femminile "una invenzione", al limite con l'apostrofo "un'invenzione"; ma l'austerica parsimonia impostaci dai diktat neo/ordo-liberisti ha comportato il sacrificio di una "a" o di un "apostrofo", appunto, al netto degli altri refusi ;-)
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