venerdì 6 maggio 2016

EMERGENZA CULTURA: BASTA OLIGARCHIE, BARONIE E IMPRENDITORI DI SE STESSI

Giuseppe Allegri

Emergenza cultura: si crede che bastino i fondi pubblici. Il bisogno di una rivoluzione contro il corporativismo e il mito del creativo in carriera. L'alternativa allo Stato non è il mercato, o viceversa. Oggi più che mai serve riscoprire  invenzione sociale, economica e istituzionale.

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In questi giorni è emergenza cultura, per la manifestazione del 7 maggio, ma è praticamente un'emergenza permanente.

Era di oltre dieci anni fa, inverno 2004, la lotta francese alla “guerra contro le intelligenze e la cultura”, che ebbe una vasta eco in tutta Europa e attraversò anche i precari movimenti dell'Onda studentesca e delle università italiane, le mobilitazione di precari-e delle grandi catene di distribuzione, come dei servizi alle persone (call center e non solo), per arrivare alle intermittenti dello spettacolo e del lavoro culturale che nei primi anni Dieci si ripresero teatri, spazi pubblici, sale cinematografiche in dismissione. Era la stagione delle mobilitazioni europee per affermare una nuova idea di società e di attività operose, che permettesse di sfuggire ai ricatti del lavoro povero, a partire dalla valorizzazione di conoscenze e saperi messi in condivisione.


Per un nuovo Welfare
Perché nel lungo ventennio che vorremmo lasciarci alle spalle il nostro Paese ha conosciuto un'esponenziale frammentazione contrattuale del lavoro, in assenza di qualsiasi dignitosa possibilità di scelta. E paradigmatico è il peso sopportato dalle donne nel mercato del lavoro, aggravato dalla tradizionale impostazione “familista” e “paternalista” del nostro sistema di Welfare che ancora non conosce garanzie universali, a partire da una qualche forma di reddito di base. Nello stesso ventennio è stata scatenata una scientifica e bipartisan guerra alle intelligenze indipendenti, letteralmente disprezzando il lavoro della conoscenza, proprio mentre capitale e società dello spettacolo mettevano al lavoro le qualità relazionali, cognitive, comunicative delle persone sempre più spesso costrette al lavoro gratuito, senza alcuna garanzia: in un ospedale o in una biblioteca, come nella redazione di un giornale.

Contro il corporativismo
Dinanzi a questo scenario di vero e proprio saccheggio del lavoro culturale e di relazione appare del tutto inutile, quando non strategicamente pericoloso, rinserrare le fila del corporativismo: che sia quello autoreferenziale e bizantino dell'Accademia, quello professionale dell'immaginario imprenditore di se stesso, o quello del piccolo orticello sindacale, sempre più impoverito e insicuro. E non basta rivendicare maggiori investimenti pubblici, se questi saranno amministrati dalle solite oligarchie, baronìe e congreghe che hanno contribuito all'attuale situazione. Come non basta difendere il carattere pubblico dell'istruzione, ma occorre affermare l'urgenza di una scuola pubblica di qualità, come hanno sempre fatto i movimenti montessoriani.

Sorellanza di sperimentazioni montessoriane, dimenticate
Per questo varrebbe la pena tornare con la mente a cento anni fa, quando una sorellanza di vedute tra le intuizioni di Maria Montessori e il sostegno di Virginia Mieli, moglie di Ernesto Nathan, allora Sindaco di Roma (1907-1913), generò quel grande spazio di sperimentazione innovativa dell'istruzione pubblica per i bimbi, partendo dal quartiere popolare di San Lorenzo, per poi diffondersi in tutto il mondo. E oggi quasi tornando a dimenticare tutto questo, qui a Roma, in Italia, quando misere classi dirigenti di ogni colore e tipo si candidano al governo cittadino senza neanche ricordare e valorizzare questa irriducibile tradizione di saperi vivi. E viene sempre da evocare il Maestro Remo Remotti di Mamma Roma Addio.




Dentro l'economia sociale e collaborativa
Dentro le grandi trasformazioni dell'economia collaborativa è invece il momento di creare spazi in cui sperimentare incontri produttivi tra nuove imprese sociali, indipendenti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione e tutte le diverse forme di lavori della conoscenza, che oramai riguardano ampi segmenti di tutto il mondo del lavoro un tempo ritenuto tradizionale, dove l'innovazione tecnologica impone la formazione, condivisione e diffusione di vecchi e nuovi saperi. Si tratta di investire risorse pubbliche e private per condividere una nuova cassetta degli attrezzi concettuali e pragmatici per ribaltare la subordinazione, tanto al comando del lavoro, oramai quasi gratuito – a prestazione mai retribuita – quanto alle retoriche tecnocratiche e falsamente meritocratiche. Sarà un'alleanza necessariamente affollata, intergenerazionale, plurale e molteplice. Ci si riconoscerà nella comune insoddisfazione rispetto agli immaginari esistenti: quelli dell'impoverimento culturale generalizzato, dell'intollerante qualunquismo parolaio, quindi di una malinconica politica sempre più autoreferenziale, dentro i suoi cliché ideologici.

Processi ricostituenti
Come è capitato di sostenere già in passato è di nuovo il momento di inventarsi le forme e le pratiche per innescare un processo ricostituente, con la pretesa di trasformare città, vite, istituzioni a partire da un atteggiamento pragmatico di invenzione sociale, economica e istituzionale, per una nuova idea di cultura e cittadinanza sociale, che sappia garantire indipendenza individuale e solidarietà collettiva.

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