venerdì 27 marzo 2020

GUERRA?




Roberto Ciccarelli

"Nuove alleanze" e freni d'emergenza. Memoir di idee e politiche dopo il primo mese di emergenza da coronavirus. 

“Guerra”, metafora e realtà. Usata in maniera universale: guerra economica, guerra contro il virus, guerra sanitaria. Mi colpisce il ricorso all’idea della “mobilitazione generale”, o “totale”, evocata mentre 3 miliardi di persone in tutto il mondo sono costrette a restare a casa, dunque impossibilitate a “mobilitarsi”.

Mobilitazione. Ci si mobilita stando fermi, si agisce rinchiudendosi ed evitandosi a tempo finora indeterminato. A differenza della seconda guerra mondiale, l’orizzonte simbolico evocato in maniera impropria da tutti, non si tratta di mobilitare il pubblico e il privato verso la produzione di armi, in un’economia del sostentamento.

È proprio il contrario: "si tratta di come gestire la realtà della smobilitazione nazionale per fermare la diffusione del virus"dice Duncan Weldon, storico dell’economia in un’intervista sul Financial Times del 27 marzo a Jonathan Ford.

Nel libro del 1940, How to Pay for the War, l'economista John Maynard Keynes spiegava l’imperativo della mobilitazione in questo modo: "la produzione bellica della Gran Bretagna [dovrebbe essere] grande quanto sappiamo organizzare", lasciando solo un "residuo definitivo disponibile per il consumo civile". Ciò significava che lo Stato doveva fare la parte del leone nella produzione bellica e prendere misure come l'aumento delle tasse per ridurre la domanda dei consumatori. Questi passi erano necessari a causa del forte aumento dei redditi delle famiglie - il prodotto della piena occupazione in tempo di guerra. Questo, si temeva, potrebbe indurre i produttori a deviare la capacità di produrre beni di consumo: "Non possiamo permettere che una semplice questione di denaro nelle tasche del pubblico abbia un'influenza significativa sulla quantità che ci è permesso di consumare", ha osservato Keynes.



Oggi ci troviamo nella situazione opposta.

I governi chiudono, più o meno, le attività “inessenziali” che in una vera guerra sarebbero attive, o riconvertite alla produzione di armi, oppure garantite per sostenere la popolazione. La maggior parte delle attività di vendita al dettaglio, se non ha chiuso, si troverà a chiudere, così come accade a molte aziende che rallentano volontariamente la produzione a causa della diminuzione della domanda dei loro prodotti o del desiderio di prevenire l'infezione. Al di fuori di alcuni settori, come quello alimentare, la domanda dei consumatori è in calo.


Per spiegare l'uso del concetto di “guerra”, alcuni economisti hanno evocato un’altra guerra, quella del 14-18. Allora i regimi liberali responsabili del primo massacro epocale del XX secolo adottarono tutt’altre politiche rispetto alla seconda guerra mondiale. Nel 14-18 le banche centrali, come oggi, acquistavano titoli. Nel caso inglese , con il governo, la banca d’Inghilterra si è concentrata sul mantenimento dei mercati senza preordinare a quale livello avrebbero dovuto operare. Il loro obiettivo era garantire la liquidità alle imprese, ma soprattutto al governo, per tenerlo in vita. Questa scelta fu disastrosa, sia per gli effetti economici prodotti, sia perché fu la premessa per la distruzione di intere società, e l’inizio del nazifascismo. Oggi la situazione è diversa: l’insistenza dei banchieri centrali sulla necessità di politiche fiscali espansive e coordinate a livello continentali da parte dei governi.

Questa idea è stata spiegata dall’ex vice governatore della Banca d’Inghilterra Paul Tucker il quale sostiene che l'obiettivo non dovrebbe essere quello di stimolare un'economia, che il governo sta comunque cercando di reprimere con le sue misure per sopprimere il virus. Dovrebbe invece essere quello di evitare che l'economia cada in un vortice e che il governo faccia in modo che i cittadini possano vivere dignitosamente e che le imprese non vengano inutilmente distrutte. Si spiega così l’insistenza di Mario Draghi sulla necessità di superare un’idea monetarista del debito. Per evitare la distruzione sia dei mercati, che dello Stato, oggi è preferibile aumentare senza limiti il debito. E, si desume, una volta chiusa l’”economia di guerra” procedere a forme di default controllato, o di condono del debito, come del resto accadde alla Germania dopo la seconda guerra mondiale. Per fare questo è necessaria una politica economica che, al momento, non esiste.

Ci può essere una guerra senza nemico?


“Questa non è una guerra, perché non c'è nessun nemico - ha detto la filosofa Claire Marin in un’intervista a Nicolas Truong su Le Monde del 25 marzo - Ci troviamo di fronte a un fenomeno che fa parte della legge della vita, che si manifesta sia attraverso processi di creazione che di distruzione. La malattia fa parte della vita in senso biologico, come la degenerazione e la morte. Non ci sono nemici quando non c'è né intelligenza umana né intenzione di nuocere. È un fenomeno biologico che ci minaccia e ci mette alla prova, ma non è la guerra. Pensare alle malattie in termini di guerra significa fraintendere l’esperienza della vita. Non sono sicuro che sia utile immaginarlo o capire come funziona. Tanto più che qui non si tratta di entrare in contatto, ma di schivarlo come un agile pugile. Per il momento non siamo in grado di distruggerlo, né con un trattamento né con un vaccino, ma cercare il più possibile di arginarne la spaventosa diffusione. Questo è molto diverso. Può essere simile a una guerra ciò che i medici e gli infermieri sperimentano anche sulla loro vita, mentre gli ospedali cercano di affrontare situazioni inedite e drammatiche.

Ciò che forse può ricordare la guerra è il fatto che stiamo vivendo collettivamente, allo stesso tempo, una minaccia e un contenimento. Ma, ancora una volta, dobbiamo tenere a mente cosa può essere il contenimento in tempo di guerra e come il modo in cui oggi viviamo nella quarantena, preoccupati per noi stessi e per gli altri, ansiosi, sì, ma non spaventati da una bomba cada sul nostro tetto. Il drammaturgo Wajdi Mouawad, direttore del Théâtre de la Colline di Parigi, nel suo "Journal de confinement", ha vissuto da bambino la guerra. Chi lo ascolta può capire davvero cosa significa essere chiusi in casa.

Molti evocano un “dopo” la pandemia, un’immaginazione comprensibile dopo settimane di reclusione. E infatti dopo potrebbe emergere una consapevolezza collettiva della necessità di ripensare la nostra comprensione del mondo sociale, il lavoro, la sanità pubblica, il significato della convivenza e il rapporto con la natura. A livello individuale, una maggiore lucidità di fronte ai piccoli compromessi in malafede che facciamo con noi stessi. Ma questo non esclude che lo stato di emergenza, com’è ormai chiaro, si dilungherà in forme imprevedibili e anche minacciose, dopo la fine di questa emergenza. Di fronte al disastro, di solito la reazione è un’altra: considerare l’emergenza come una parentesi e non come un avvertimento.

Bisogna difendere la società

C’è un’altra ipotesi: si parla di “guerra” per difendere un’idea di società. Questo è lo scopo “biopolitico” dello Stato descritto nell’omonimo corso da Michel Foucault già nel 1976. Si difende la società da una minaccia esterna - l’immigrato, un virus, un nemico di un’altra nazione, oppure di classe. I nemici sono intercambiabili e sono descritti in termini biologici, animali, virali, non umani per segnalare l’assoluta ostilità dell’esterno rispetto all’interno. Allo stesso tempo, si ristruttura la società a partire da un’idea di popolazione che oscilla dall’invenzione di una comunità “naturale” alla trasformazione del “popolo” in una “popolazione”, ovvero un soggetto attivo e non solo un oggetto di disciplina, o di speculazione statistica. In questa cornice il potere regola, non solo comanda. Guida, non solo punisce. Fa vivere, lascia morire; non fa morire, lasciando vivere come accade nel regime assolutistico.

Ciò che allora si vuole difendere in questa “guerra”, mobilitati stando fermi in una casa, è un’idea della vita e l’immunizzazione della morte. Ciò che si difende è l’idea di riprodurre la vita secondo la “normalità” dell’individuo consumatore, l’imprenditore di se stesso, assicurandolo dai danni con l’estensione della cassa integrazione e i bonus per le partite Iva, immunizzandolo dalla morte che non è più “ciò che si nasconde”, ma è tragicamente sotto gli occhi di tutti. Non è più privata, ma pubblica. Avere convinto, senza troppi sforzi, la popolazione a chiudersi in casa serve sia a proteggerla dal contagio, ma anche ad allontanarla da questa nuova, tremenda, immagine pubblica della morte.


Il filosofo ed epistemologo Bruno Latour su Le Monde del 27 marzo sostiene che si vuole difendere un’idea “umana” della società, ovvero quella definizione convenzionale della società composta solo dagli esseri umani che non sono in rapporto con gli elementi conturbanti della “natura” e dagli effetti devastanti prodotti dal capitalismo su questa “natura”. Questo sarebbe il senso dell’immunizzazione in corso: proteggere la società dal suo stato sociale che dipende “in ogni momento dalle associazioni tra molti attori, la maggior parte dei quali non ha una forma umana. Questo vale non solo per l’ambiente - come sappiamo fin dai tempi di Pasteur - ma anche per Internet, la legge, l'organizzazione degli ospedali, le capacità dello Stato e il clima”. In altre parole, la società è andata da tempo oltre gli stretti confini della sfera sociale. E il “sociale” si definisce in base alla relazione tra una molteplicità di fattori umani e non umani, correlati e mescolati.

Latour relativizza drasticamente l’idea di “stato di guerra” come stato di eccezione contro un virus. Lo può fare perché il virus è in stretta relazione con l’essere umano, e la sua società che si pretende estranea ad esso. È evidente: il virus si diffonde attraverso l’essere umano, passa nella sua dimensione sociale per eccellenza: il rapporto. Per Latour lo “stato di guerra" è solo un anello di una catena dove la gestione delle scorte di maschere o die test, la regolamentazione dei diritti di proprietà, le abitudini civiche e i gesti di solidarietà contano esattamente quanto nella definizione del grado di virulenza dell'agente infettivo. Una volta presa in considerazione l'intera rete di cui è questa “guerra” sarebbe solo uno degli snodi, va anche detto che il virus non agisce allo stesso modo a Taiwan, Singapore, New York o Parigi. E non agisce allo stesso modo nelle condizioni sociali di classe in cui sono organizzate tutte le società. C’è una differenza tra vivere in clausura in quattro persone in 30 metri quadri, e vivere da soli in un appartamento di 200 metri quadrati. La pandemia non è un fenomeno "naturale" più delle carestie, della crisi climatica o del capitalismo. È un fenomeno politico.

Latour non esclude che la "guerra contro il virus” possa essere intesa letteralmente: è vero che l’essere umano “combatte” i virus - lo fanno i medici, lo fanno soprattutto i malati. È una guerra anche contro la non-umanità del virus che sta dentro di noi, passa da una parte all’altra, e ci uccide senza biasimarci. Ma questa descrizione rende “incomprensibile” il contesto in cui è nato anche questo virus. Siamo in un mondo in piena “trasformazione ecologica”. Tale trasformazione ha cambiato le condizioni di vita di tutti gli abitanti del pianeta. Il suo motore non è il virus, ma l’uomo. “E non tutti gli umani- precisa Latour - ma alcuni, che ci fanno la guerra senza dichiararci guerra. È una guerra di classe, la guerra del capitale contro gli uomini, contro il pianeta.

La famiglia dei coronavirus è apparsa, e si sta moltiplicando, in questo mondo. Non c’è un rapporto di causa-effetto, ma un rapporto contestuale e multifattoriale. Come l’emergenza climatica, anche la diffusione dei virus è l’occasione di una “guerra” economica tra stati, di una guerra di classe tra chi è rinchiuso in un appartamento borghese e chi è costretto per lavoro a portargli una pizza in bicicletta.

Latour segnala infine come lo Stato nazionale sia mal preparato, mal calibrato, mal progettato nella crisi ambientale perché i fronti sono multipli e attraversano ognuno di noi. È in questo senso che la "mobilitazione generale" contro il virus dimostra che non siamo pronti per la prossima crisi. Non passerà molto tempo: qualcuno verrà a dirci che ci dobbiamo preparare. E già lo stiamo facendo.

Una guerra civile?

"Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi" ha scritto Giorgio Agamben.

Di conseguenza, si potrebbe prospettare anche una guerra civile nel soggetto, tra sé e sé, ovvero tra il desiderio e la necessità, l'abbraccio e il "distanziamento sociale".

La più assurda delle guerre potrebbe anche diventare la più normale delle condotte: quella dell'autocoscienza. Questa guerra civile dentro di noi è stata variamente definita dalla filosofia o dalla psicoanalisi. Nel caso attuale potrebbe segnare il passaggio dal lavoro del negativo al lavoro dell'autoimmunizzazione. Con un rischio: come in tutti i discorsi sull'immunità, l'organismo che si rende auto-immune si distrugge. L'intensificazione paradossale della "guerra" che forma il soggetto nella sua costituzione anti-virale - "assurda" scrive Agamben - potrebbe portare anche a questo esito.

C'è un'altra chiave per interpretare questa idea di "guerra civile"; Sappiamo che lo stato di emergenza durerà, in forme variabili ancora da comprendere, fino a quando non sarà trovato un vaccino: 18-24 mesi. E' una prospettiva terrificante da ogni punto di vista. E' difficile, ma cerchiamo di sospendere il senso di vuoto per un momento.

Che tipo di rapporto ci sarà tra questa vita che imparerà a convivere con l'esigenza di immunizzarsi e il potere?

E' una domanda esotica, oggi, dove più di qualcuno potrebbe dire che questo non è il momento della critica, ma della guerra, dell'emergenza. Ogni critica è una speculazione, una "teoria", nel senso più dispregiativo possibile, un'esercizio aristocratico del pensiero separato. Sono pensieri che arrivano nei momenti di guerra: non pensare, il nemico ti ascolta; non criticare, il governo deve operare. Questi,ed altri pensieri, sono i riflessi di un'interiorizzazione dello stato di guerra dichiarato.

Provo a fare un'ipotesi: presto o tardi scopriremo che l'emergenza è un problema, è un oggetto di pensiero, è una condizione che interroga la politica, sia nelle forme del governo, sia in quelle del mondo (la "natura", la malattia, la salute ad esempio). Al centro di questa emergenza c'è una guerra. Dicono contro una presenza proveniente dall'esterno - una presenza aliena, mostruosa. Potremmo invece scoprire che tale presenza è stata prodotta da condizioni di vita specifiche, da un sistema di trasmissione tra specie diverse. La stessa genesi del virus è causata da un salto ontologico (spill over). Dunque, è una forma di vita, ha una sua storia. Ed è una relazione. Lo si vede dalla sua diffusione. Il virus si diffonde prendendo gli aerei, ad esempio. E le compagnie aeree stanno fallendo. E chiedono decine di miliardi di dollari in sostegno agli Stati.

Tutte queste dimensioni sono contenute in ciò che chiamiamo "virus": un sistema di relazioni e poteri.

Il problema del potere, e dunque della sua critica, è dunque più intimo di quanto crediamo in questo momento. Quella guerra civile che Agamben indica dentro di noi, può essere anche tra un potere che accompagna e guida il soggetto in ogni momento della sua vita, per il suo bene, per evitare il contatto - e dunque un contagio - con i suoi simili.

Vediamo la campagna lanciata dal Comune di Roma amministrato da una sindaca del Movimento 5 Stelle:



Questo invito alla delazione organizzata da parte del cittadino "responsabile" traduce la mentalità della nuova guerra civile. (Questi sono i reati in cui si può incorrere aderendo a questo invito). Il suo scopo non è l'annientamento del nemico politico, come nella guerra civile politica, ma il controllo poliziesco delle condotte. E' quello che è accaduto nella campagna contro i runners, coloro che corrono nei parchi o in strada per provare a tenersi in forma in questa quarantena. Lo stesso accadrà quando il distanziamento assumerà altre forme di (auto)controllo.

La domanda implicita a questa evoluzione, in corso e sotto gli occhi di tutti, è: se c'è un potere, per di più agito da noi stessi, dov'è la resistenza?

Politica dello stato di emergenza

Non siamo pronti, ma la politica come stato di emergenza continua è un continuo addestramento e preparazione alla prossima crisi.

Questa è la scoperta fondamentale che possiamo fare ora e adesso. La politica è gestione della crisi infinita, risk management, il paradigma del governo elaborato a cominciare dagli anni Ottanta del XX secolo, adattata prima alle emergenze, poi diventata politica sociale, oggi politica economica. Significa vincolare la tradizione giuridico-politica costituzionale dello stato di diritto a un nuovo paradigma. Non è la sospensione della legge in casi eccezionali o, all'opposto, uno stato di eccezione permanente, ma la sua trasformazione in un nuovo contesto. Qui il futuro è rappresentato come una minaccia. Uno “choc esogeno”, così gli economisti chiamano il virus Covid 19. Il punto di vista va rovesciato: questi “choc” sono la realtà quotidiana, il presente è costituito da infinite rotture. In questa cornice la politica è gestire, modellare, inoculare l’emergenza, normalizzandola attraverso un potere di regolazione sempre più diffuso e basato sulla volontà delle persone che accettano liberamente di farsi immunizzare e immunizzarsi dagli altri considerati come rischi, o minacce potenziali.

E' questa rappresentazione della paura che bisogna affrontare. E, nel caso, cambiare alla radice.

Nikolas Rose, in La politica della vita, pubblicato in Italia nel 2008, ha descritto questa trasformazione del cittadino come l’esito di un’etosomatica neoliberale che segue l’epoca della biopolitica descritta, in tempi recenti, da Michel Foucault, e da molti oggi riscoperta.

Le nuove tecnologie digitali che saranno adottate per individuare gli infetti da coronavirus - sorvegliare la società e punire i trasgressori - anche in Italia permetteranno una progressiva riapertura della società e una sua trasformazione ancora più radicale dell’etica somatica del cittadino neoliberale - il “capitalista umano”. È un problema essenziale perché nessun governo può permettersi di tenere in quarantena a lungo centinaia di milioni di persone. Questo uso delle “app” potrebbe essere adottato in una società già sensibilizzata dalla consulenza genetica, dalla prescrizione di antidepressivi, dalle tecniche biomediche, dalla medicina personalizzata, da un vasto apparato di prevenzione dal rischio biologico, neuronale, sociale, economico. La trasformazione antropologica è già avvenuta negli ultimi cinquant’anni. La politica di emergenza anti-contagio la intensificherà come mai prima, ricorrendo anche alle tecnologie digitali.

Lo smart work, la didattica a distanza sono le altre significative trasformazioni capitalistiche che saranno prodotte da questa crisi. Ma questi processi insistono su una trasformazione dei comportamenti, e delle mentalità, già avvenute. E che continueranno, grazie a nuovi processi di razionalizzazione operati dai soggetti su se stessi, e nei loro rapporti con gli altri. L’emergenza antivirus è una nuova potente occasione di legittimazione di un quadro di tecniche regolatrici di governo che riguardano le controversie sulla vita, la sua gestione, e il rapporto tra libertà e coazione in tutte le società.

La distinzione tra una via “cinese” e una “occidentale” è interessante, scrive Simone Pieranni da tempo su Il Manifesto. In tutta evidenza non designa un’alternativa di civiltà, come invece sostengono i nuovi partigiani della “guerra di civiltà” che non è altro che una guerra inter-imperialistica che si gioca anche sulla gestione tecnologica ed economica di un virus. L’etosomatica è un governo di sé e degli altri. Si tratta di un processo, non di un paradigma, né un modello unico imposto da un Potere. Il potere nasce dalla relazione con questa etica individuale e collettiva, praticata innanzitutto dagli individui per proteggere se stessi e gli altri. E vivere insieme. All’interno di questo processo si possono riconoscere applicazioni diverse e contrastanti. Talvolta sovrapposte, altre coincidenti. Storicamente determinate, mutevoli con le contingenze, e con i poteri che li applicano. Questa distinzione passa inosservata, ad esempio, nell’interpretazione che ha dato Giorgio Agamben del virus nei termini di uno “stato di eccezione permanente”. Ciò non toglie che il filosofo italiano abbia colto il problema.

L’etosomatica non è dunque una dimensione totalitaria, ma dialettica, politicamente contesa, non definita una volta per tutte da un potere assoluto. È quella dimensione storica in cui ci troviamo ora, e che potrebbe cambiare in maniera diversa rispetto a quanto stabilisce un potere che funziona sulla previsione, non solo sull’imposizione; sul consenso, e non solo sull’obbedienza; sul protagonismo soggettivo, non solo con la polizia. Questa contraddizione in atto la sperimentiamo intensamente nei giorni dell’autoreclusione dove tutto è diventato più autoevidente attraverso l’emergenza. Non perché è nuovo, ma al contrario perché questo oggi è il modo in cui viviamo.

“L’etica somatica è intrinsecamente legata allo spirito del (bio)capitale” ha scritto Rose. Questo significa che viviamo in una contraddizione. “Dopo” - quello a cui tutti aspiriamo - vedrà un’intensificazione di questo modo di vita.

Ciò che rende politicamente interessante questa condizione è che non è data una volta per tutte. Pensare l’emergenza, oltre che viverla in questa inedita condizione comune, significa opporre al presentismo e al fatalismo contemporaneo un'altra concezione del tempo e un'altra idea della lotta.

Freno d’emergenza

Nel dibattito sulle politiche di emergenza in Europa e negli Stati Uniti Stéphane Foucart su Le Monde del 15 marzo e Henry Mance sul Financial Times del 7/8 marzo hanno segnalato come le stesse misure adottate oggi per contrastare la diffusione del coronavirus potrebbero essere adattate a lungo termine contro l’emergenza climatica e l’erosione della biodiversità.

”Il coronavirus - scrive Mance - sospendendo le abitudini e causando tragedie dolorose - potrebbe generare un nuovo consenso rispetto all’imprevedibile”. L’appello all’autodisciplinamento e al controllo reciproco, il “distanziamento sociale”, potrebbe creare una nuova forma di consapevolezza rispetto alle malattie che già oggi feriscono la vita e la spezzano, mentre potrebbero essere gestite diversamente, salvando molte vite. Lo stesso potrebbe avvenire con i rischi a più lungo termine.
A questo proposito Mance usa una categoria dell’economia comportamentale, il “pungolo”: (nudge). Senza volerlo, l’individuo si trova costretto a modificare i suoi comportamenti e, davanti alla situazione, finisce per accettare il cambiamento. Di solito, questa teoria neocomportamentalistica è stata adattata ai mercati finanziari e alle decisioni politiche. Nelle numerose critiche di cui è stata oggetto questa teoria, è emerso che il "cambiamento" è definito da una politica degli interessi stabilita dai dominanti. Il potere non è mai neutro, cambia e ti cambia indirettamente, a distanza, nelle relazioni.

Nell'emergenza in cui ci troviamo, l'interesse è invece la "protezione della vita". Il crescente dibattito sul rapporto tra emergenza e stato di diritto, tra i costituzionalisti come tra coloro che si occupano di privacy e capitalismo delle piattaforme, dimostra che questo interesse non è "neutrale". L'emergenza è stabilita nell'ambito delle costituzioni, ma può produrre conseguenze irreversibili, al momento non ancora identificabili, ma definibili.

“Al tempo della peste il tipico europeo viveva in una costante anticipazione del disastro - dice lo storico Philip Ziegler, riportato da Henry Mance - Forse il fattore che ha contribuito di più rispetto alla demoralizzazione allora fu la quasi totale inconsapevolezza delle dinamiche attraverso le quali procedeva l’economia e la politica nel mondo di allora. Forse oggi siamo più fortunati, siamo a conoscenza delle dinamiche di una pandemia, di un disastro naturale indotto da dinamiche complesse come il riscaldamento globale. Potremmo anche sapere come intervenire”.

Sta qui il senso della dichiarazione di stato di emergenza climatica chiesta dai movimenti come Fridays For Future o Exctintion Rebellion. Perché oggi la politica si gioca sul senso da attribuire al concetto di "emergenza". E, in questo caso, si affronta il tema dell'"emergenza" in maniera interessante. Le mobilitazioni a sostegno della giustizia ambientale non possono prescindere dalla giustizia sociale. Così come oggi sono in molti ad avere evidenziato che le politiche di prevenzione dei danni sociali ed economici prodotti dal contrasto del virus devono essere all'altezza di un'idea universale dell'esistenza.

Questi movimenti hanno evidenziato come la giustizia è legata all'uso del mondo, al senso che diamo alla libertà e all'uguaglianza, ai mezzi necessari per istituirle e tutelarle a tutti. "L'entusiasmo angelico e le cupe profezie della fine - ha scritto a questo proposito il filosofo francese Pierre Charbonnier nel suo recente libro "Abondance et liberté - sono interpretazioni caricaturali di una realtà complessa che ci costringe a ripensare il significato della libertà quando i vincoli ambientali ed economici sospendono la sua prassi".

Dipende dal modo in cui si usa l’emergenza e dal suo rapporto con la democrazia, osserva Stéphane Foucart nel suo articolo. Un primo uso potrebbe essere quello di un trattamento indiretto della crisi ambientale, attraverso misure di emergenza per gestire il susseguirsi di crisi acute. Questa politica potrebbe produrre conseguenze poco desiderabili adottando misure improvvisate e drammatiche, sul modello delle misure d'emergenza prese contro il progresso della nuova malattia. Fino al punto da prospettare il blocco dell'attività parlamentare o, in alternativa, una nuova teoria del "diritto parlamentare di emergenza" evocato da vari costituzionalisti in queste ore.

Foucart non coglie tutte le implicazioni di questa situazione, ma individua un paradosso: nel tempo medio-lungo, cercando di curare gli effetti di una crisi strutturale, si finisce per ignorare le sue cause. Ovvero, non si cambia in nessun modo il sistema che amplifica i danni che produce. E, per di più, si sospendono o si mette a tacere un dibattito necessario che può cambiare radicalmente decisioni potenzialmente disastrose. Per difendere un sistema già in sé diseguale e malfunzionante, si rischia di peggiorarlo danneggiando i più deboli, e non solo. Anche per questo oggi tornano d'attualità le politiche che chiedono un drastico cambiamento degli assetti proprietari nella produzione e nella società, la finanziarizzazione del capitale, contro il taglio e la privatizzazione delle politiche pubbliche, a cominciare dalla sanità, l'idea universale e incondizionata di welfare con un reddito indipendente dal lavoro e dal non lavoro. Sta qui l'interesse, ad esempio, del "reddito di quarantena" come "estensione universale e incondizionata del "reddito di cittadinanza".

In questi giorni sto leggendo gli ultimi libri di Isabelle Stengers. Nel 2009 ha scritto “Au temps des catastrophes: Résister à la barbarie qui vient” [Al tempo delle catastrofi, resistere alla barbarie che viene] e anche qui trovo un'altra idea di emergenza. E spiega perché si parla, in queste "emergenze", di “guerra”.

Non una guerra contro un nemico “umano”, ma contro una “minaccia” che interrompe il normale corso di una vita identificato con il “progresso”, la “crescita”. Una minaccia pandemica, una zoonosi (la trasmissione dei virus dagli animali all'uomo), può essere identificata con “Gaia”, imprevedibile e spaventosa.

Nell’emergenza si manifesta l’incapacità di una cultura di negoziare un nuovo rapporto con il mondo che non sia l’impero dell’Anthropos sul vivente. Viceversa Stengers auspica la definizione di una nuova “alleanza” tra gli esseri umani, e tra questi e il vivente, per modificare radicalmente il rapporto con il pianeta e contro la “barbarie” che viene. Che non è quella di una natura incontrollabile e catastrofica, ma quella di un sistema tecnoeconomico che crea nuove ingiustizie una volta che si manifesta un problema. L’uragano Katrina negli Stati Uniti, ad esempio, di cui si è molto scritto. La “barbarie”, scrive Stengers, è una politica fatta da esseri umani contro altri simili per mantenere in vita un sistema dove ci sono dominanti e subalterni, sfruttati e sfruttatori.

Un'altra interpretazione dell'emergenza, decisiva per comprendere il potere e un possibile posizionamento di fronte ad esso. Il senso della “nuova alleanza” di cui parla Stengers sta forse in quella frase di Walter Benjamin per cui oggi le rivoluzioni sono il freno di emergenza tirato mentre un treno è in corsa, per impedire che vada a schiantarsi.

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