mercoledì 11 dicembre 2019

LAVORO, E ANCORA LAVORO. MA PARLIAMO PRIMA DI LIBERTA' E AUTONOMIA



Giuseppe Allegri

Che ci sia, o non ci sia, cambia la stagione, il discorso è: lavoro, lavoro, lavoro. Si interviene sempre con scarsissima efficacia e lungimiranza sul rompicapo. E alla fine ci si ritrova al punto di partenza. La rivista Luoghi Comuni n. 3-4/2019, diretta da Andrea Ranieri, edita da Castevelcchi, propone un passo in avanti: per parlare di "lavoro" è necessario partire dall'autonomia e la libertà della forza lavoro. Se un lavoro non la garantisce, e non è nemmeno pensato a partire da questo, parliamo di una cultura politica che mira alla gestione del governo in nome del potere esistente e non all'esercizio del potere dei senza potere. Un'indicazione che viene dalle ultime opere di Bruno Trentin. E non solo. Ne parla Giuseppe Allegri nel saggio pubblicato sulla rivista con il titolo "Cooperazione sociale, garanzie di base e innovazione istituzionale, finalmente?"


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Immaginare il futuro delle mille forme dei lavori e del fare impresa diventa sempre più difficile, dinanzi ad un presente di grande accelerazione, tanto dell’innovazione tecnologica, quanto dell’impoverimento di larghe fette di classi medie e subalterne delle società occidentali, nell’economia digitale della vita messa al lavoro, spesso scarsamente retribuito, e di vite alla vana ricerca di attività degne e spesso prive di qualsiasi tipo di tutela sociale, per quelle milioni di esistenze sempre più subordinate e dipendenti dai ricatti del lavoro e della sua mancanza. [Alessi et al., 2019].

Lavoro, non lavoro e reddito di base: trent’anni di cavillosi dibattiti e inefficaci riforme
Tutto questo ancor più nel Belpaese, cronicamente caratterizzato da una larga fetta di lavoro informale, sommerso e occasionale, welfare familiare, scarsa mobilità sociale, inscalfibile potere delle burocrazie amministrative, diffusa pervasività sociale e territoriale della criminalità organizzata. Eppure negli ultimi decenni, soprattutto nella sinistra politica, sindacale e culturale, il confronto sulle trasformazioni dei sistemi di produzione, del lavoro e delle garanzie sociali ha conosciuto aspri confronti, testimoniati, anche, oramai proprio trenta anni fa, a ridosso del 1989 europeo e globale, dalla discussione a più voci pubblicata in un celebre numero della storica (per la sinistra italiana e non solo) Rivista del Centro per la Riforma dello Stato (fondato nel 1972 dal PCI e a lungo presieduto prima da Umberto Terracini e poi da Pietro Ingrao) «Democrazia e Diritto», la cui prima parte era dedicata a «lavoro – lavori atipici – non lavoro», mentre la seconda si occupava di discutere la fattibilità del «reddito di cittadinanza». Temi e questioni tuttora di estrema attualità dinanzi alle sempre tardive e sempre faticose innovazioni legislative di ammodernamento del mercato del lavoro (le diverse ondate di riforme promosse spesso e volentieri dal centro-sinistra, dagli anni Novanta del Novecento, al Jobs Act renziano 2014-2015) e di ripensamento delle garanzie e tutele sociali (dal «reddito minimo di inserimento» del Ministro Livia Turco, nel Governo Prodi del passaggio di millennio, al «reddito di cittadinanza» del precedente governo giallo-verde, passando per le varie Social Card e Sussidio di Inclusione Attiva – SIA).

Così potremmo dire che è per lo meno un trentennio che si riflette, con dovizia di puntualizzazioni e differenziazioni, e si interviene, con scarsità di efficacia e di lungimiranza, sul rompicapo lavoro, lavori, non lavoro, impresa, produzione e distribuzione della ricchezza, negli stessi decenni in cui gli stili di vita e i legami sociali dell’“era salariale e industriale” andavano in crisi (come descritto, in anticipo, già negli anni Sessanta del Novecento, dagli studi e dalle analisi di Hannah Arendt, André Gorz, Alain Touraine e Claus Offe, per citare i più celebri e universalmente riconosciuti). Del resto, sempre nei primi anni Novanta del Novecento, a valle del movimento studentesco della Pantera e dentro la prima precarizzazione di massa, in un intervento provocatoriamente titolato Lo statuto che non c’è, pubblicato sulla rivista di movimento e di pensiero critico post-operaista «Luogo Comune» (anno III, n. 4, giugno 1993, pp. 50-59, nome che anticipa la nostra Luoghi Comuni sulla quale scriviamo!), Marco Bascetta e Giuseppe Bronzini sottolineavano l’urgenza di pensare e redigere una dichiarazione dei diritti sociali dell’epoca postfordista, con al centro la garanzia di un reddito di base, per una vera e propria «Magna Charta delle attività immateriali, saltuarie, servili», che altrimenti già condannavano una larghissima fetta di società italiana all’esclusione dal patto sociale fordista, sottoscritto nei decenni precedenti tra rappresentanze istituzionali del capitale e del lavoro.

Senza Welfare, con molti populismi
Possiamo quindi sostenere come da più di un quarantennio, nella contraddittoria modernizzazione italiana, la crisi e contemporanea Critica dello Stato sociale categoriale e burocratizzato (Baldassarre, Cervati, a cura di, 1982, in particolare il saggio di Claus Offe lì contenuto), insieme con la connessa crisi del ceto medio (Bologna, 2007), abbiano prodotto un laboratorio di esclusione da diritti, garanzie e tutele istituzionali di diversi soggetti sociali, più o meno produttivi, sicuramente condannati ad una insicurezza sociale, nel mancato circuito virtuoso tra lavoro, impresa e Welfare. È quella Terza Italia del capitalismo molecolare affermatosi in alcuni distretti produttivi del centro-nord est Italia dai primi anni Ottanta del Novecento e quindi nel lavoro autonomo di seconda generazione nelle grandi città e non solo, studiati tra gli altri da Arnaldo Bagnasco (già nel 1977, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino), Sergio Bologna e Aldo Bonomi. E anche quell’Italia immersa nel divenire Quinto Stato che con Roberto Ciccarelli (Allegri, Ciccarelli, 2013) da anni proviamo ad indagare come una condizione di impoverimento relazionale, sociale, culturale, oltre che economico, di quelle classi medie dell’antico Terzo Stato e delle classi operose del moderno Quarto Stato, ora sempre più sospese tra lavori poveri, neo-servili, precarietà e disoccupazione attiva di una bassa classe di mezzo (lower middle class), impaurita e insicura, che non è solo “il precariato”, come sembra intenderlo Maurizio Ferrera nel suo recente saggio dal titolo che evoca il nostro precedente lavoro (Ferrera, 2019), ma che sicuramente necessita di un nuovo Welfare, come giustamente nota egli stesso (sul nesso Welfare e trasformazioni del lavoro si veda da ultimo l’omonimo lavoro di Pisani, 2019). Perché questo è uno dei nodi del progressivo impoverimento della nostra società e soprattutto di una larga fetta delle sue ultime generazioni, se ripensiamo all’analisi che un radicale critico del «realismo capitalista», come il compianto Mark Fisher, proponeva dell’affluente e universalistico Welfare anglosassone, nel sostenere protezione sociale e innovazione artistica e culturale, fino agli anni Ottanta del Novecento del lavoro e dell’industria culturale, musicale, televisiva britannica:

«Nel Regno Unito, tra anni Sessanta e Ottanta il Welfare State postbellico e i sussidi di mantenimento per l’istruzione accademica hanno costituito una fonte indiretta di finanziamento per la maggior parte degli esperimenti nel campo della popular culture. Il successivo attacco ideologico e pratico ai servizi pubblici ha significato che uno degli spazi in cui gli artisti potevano vivere al riparo dalla spinta a produrre opere di immediato successo è stato brutalmente ridimensionato. […] Il risultato di tutto ciò è stato che il tempo sociale a disposizione per liberarsi dal lavoro e immergersi nella produzione culturale è drasticamente diminuito» [Fisher, 2019, 29].

Questo nesso tra garanzie del Welfare, istruzione accademica, creatività e innovazione culturale non si è mai verificato in Italia, dove negli ultimi trent’anni abbiamo conosciuto il sorgere di diverse ondate di populismo, che proprio sull’esclusione dal patto sociale della Terza Italia e del Quinto Stato, tra marginalità metropolitane e aree vaste e dismesse del centro-sud Italia, hanno messo le radici del proprio consenso, sottraendolo ai tradizionali partiti di massa della prima storia repubblicana, che del resto facevano leva sull’inclusione e la partecipazione attiva delle classi medie e subalterne come base materiale e garanzia sociale delle democrazie pluralistiche. Ecco così il populismo anti-statalista, contrario alle tasse e separatista, della prima Lega Nord, quello televisivo-leaderistico di Silvio Berlusconi e della sua Forza Italia, quello giustizialista dell’Italia dei Valori e dell’eredità dell’inchiesta “Mani pulite”, passando poi per l’evocazione leaderistica del “Sindaco d’Italia”, tra Walter Veltroni e Matteo Renzi, per giungere quindi al plebiscitarismo digitale ancora una volta giustizialista e “anti-casta” del Movimento 5 Stelle e del suo leader Beppe Grillo, fino all’oltranzismo nazionalistico, xenofobo e sovranista dell’autoritarismo digitale di Matteo Salvini e della sua nuova Lega.

In questo lungo inverno del proprio scontento, la sinistra politica e sindacale ha vissuto una fase di assoluta reazione, rifugiandosi in una bipolare tendenza al mimetismo temporale, sospesa tra il pedissequo adeguarsi al presentismo di una retorica della governabilità e lo speculare rinserrare in quelle retrotopie che ancora ammorbano le intristite menti di partiti e movimenti inesistenti eppure persi negli incubi del piccolo mondo antico di un necrofilo socialismo nazionale. Senza dimenticare che, all’occorrenza, questa bipolarità ha costituito la fortunata biografia politica di una classe dirigente un tempo più liberista dei liberisti ed ora più nazional-identitaria dei sovranisti.


(...)

Ci sono per lo meno tre ambiti di azione sui quali realizzare progetti comuni di emancipazione e solidarietà sociale: Il primo riguarda, inevitabilmente, il miglioramento dell’attuale misura di “reddito di cittadinanza”, per investire maggiormente sulla dimensione di universalizzazione e autodeterminazione in un quadro di innovazione istituzionale per un Welfare universale e multilivello, di libero accesso a servizi pubblici di qualità, coniugando la lotta alla povertà e all’esclusione sociale con una mobilitazione sociale e istituzionale che coinvolga i milioni di destinatari della misura, i soggetti che hanno predisposto la raccolta delle domande (tra i quali figurano i sindacati) e quelli che dovranno prendere in carico le persone, insieme con tutta la filiera di livelli amministrativi coinvolti. Fino a giungere al rompicapo delle attività lavorative che possono essere immaginate intorno a questa misura, se pensata come strumento di investimento e miglioramento delle capacità delle persone, in un circuito virtuoso tra istituzioni locali, nuova imprenditorialità sociale, le sperimentazioni degli innovatori sociali, sistemi formativi, processi di valorizzazione dei singoli e delle comunità, politiche pubbliche sui servizi alla persona, etc.

Così eccoci arrivati al secondo punto, il tema di pensare in modo inedito la questione lavori e impresa sociale nell’epoca digitale e in un Paese che conosce sacche di impoverimento e arretramento imprenditoriale che generano condizioni di lavoro neo-servili, quasi neo-schiavistiche, dai campi agricoli, alle piattaforme digitali, dal settore delle pulizie ai servizi alla persona. Questa è la scommessa forse decisiva per i sindacati: come ripensarsi in qualità di mediatori evolutivi tra una cultura progressiva, sociale, ecologica del fare impresa e condizioni lavorative affrancate dai rischi e dai ricatti dell’insicurezza sociale, dell’isolamento personale, della sfiducia nei confronti della società e delle istituzioni. Qui ci sarebbe da tessere i fili organizzativi e produttivi della società di mezzo, in una relazione virtuosa con le istituzioni di prossimità e un uso progressivo delle reti digitali come interfaccia sociale, che ribalti il rabbioso scontento di chi si sente abbandonato in un protagonismo sociale in prima persona. Un investimento collettivo, istituzionale, sulle potenzialità inespresse delle persone, che permetterebbe una mobilitazione e un dialogo intergenerazionale, dentro una riappropriazione dell'innovazione tecnologica per pensare altrimenti i tempi di vita, lavoro, socialità, tra rigenerazione ecologica, economia circolare, semplificazione amministrativa e concreto sostegno di qualità ai più vulnerabili. È il campo nel quale ripensare lavori, imprese e garanzie per un nuovo patto sociale.

Per finire, come terzo punto, con una particolare presa in cura di quello che da diversi anni viene chiamato “diritto alla città” e “diritto della città”, come occasione per ripensare quella Quarta Italia delle metropoli trasformate e impoverite e quindi delle aree vaste e spesso sempre più deserte ed isolate del centro appenninico e del Meridione d’Italia. È questo un ambito che permette da un lato di confrontarsi con quanto si sperimenta in giro per l’Europa, a partire da due casi esemplificativi: il progetto Plaine Commune che una serie di soggetti pubblici e privati, università e istituzioni, a partire da un’idea del filosofo e ricercatore sociale Bernard Stiegler, stanno portando avanti al livello intercomunale in nove comuni di Paris Nord e che prevede particolari processi formativi e di trasmissione di conoscenze, insieme con un cosiddetto reddito di contribuzione (revenu contributif); quindi quanto sta facendo da tempo l’amministrazione locale della città di Barçelona su inclusione sociale, sovranità digitale e anche qui l’erogazione di un reddito di base al livello municipale. D’altro canto c’è da valorizzare, mettere in rete e sostenere economicamente e progettualmente quanto si è mosso nelle piccole e grandi realtà italiane in quest’ultimo decennio proprio sull’idea di ripensare le città, tra beni comuni, rigenerazione sociale e urbana, gestione condivisa di aree abbandonate o dismesse dal privato quanto dal pubblico, valorizzazione degli spazi pubblici, economia circolare, lotta alla grande criminalità, etc., nel solco di una plurisecolare tradizione di protagonismo civico e autorganizzazione sociale che deve trovare i soggetti istituzionali e privati che la sostengano e la rilancino ulteriormente.

Ecco dei primi, assai parziali, appunti, di possibili sentieri comuni da intraprendere, rimuovendo antichi e persistenti pregiudizi e con lo sguardo rivolto, non verso le macerie dell’Angelus Novus, ma verso una società post-capitalistica in cui le innovazioni tecniche permettano di redistribuire la ricchezza e ridurre la settimana lavorativa a quindici ore, secondo i celebri auspici di un pensatore caro a molti come John Maynard Keynes, che così scriveva a ridosso della Grande Crisi del 1929, in condizioni probabilmente al momento peggiori delle nostre, eppure con un inscalfibile, certo ironico e provocatorio, ottimismo (Economic Possibilities for Our Grandchildren, 1931).


Bibliografia
Alessi, C., Barbera M., Guaglianone L. (a cura di) 2019, Lavoro, non lavoro e impresa nell’economia digitale, Cacucci editore
Allegri, G., 2013, Insubordinati: Quinto Stato e nuovo sindacalismo. Coalizioni sociali, nuove istituzioni e reddito di base, in «Democrazia e Diritto», n. 3-4, pp. 61-77
Allegri, G., 2018, Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefè editore
Allegri, G., Ciccarelli, R., 2013, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte alle Grazie
Baldassarre, A., Cervati, A.A. (a cura di), 1982, Critica dello Stato sociale, Laterza
Bologna, S., 2007, Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi
Castronovo, V., 1995, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Einaudi
Ferrera, M., 2019, La società del Quinto Stato, Laterza
Fisher, M., 2019, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, minimum fax [ed. or. 2013]
Minenna, M., 2019, Perché l’idea dell’«helicopter money» è sempre meno estrema, in «Il Sole 24 ore», 16 settembre
Pisani, G., 2019, Welfare e trasformazioni del lavoro, Ediesse



Giuseppe Allegri, Ph.D. in teoria dello stato e istituzioni politiche comparate, è un ricercatore, consulente, docente e organizzatore culturale indipendente, si occupa di sistemi di welfare, trasformazioni del lavoro, diritto comparato, innovazione culturale, sociale e istituzionale. Autore di Il reddito di base nell’era digitale (2018) e curatore con altri di Questioni costituzionali al tempo del populismo e del sovranismo (2019).

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