sabato 5 marzo 2022

Luciano Bianciardi ribelle



Giuseppe Allegri

La modernità gassosa di un ribelle. Il primo Antimeridiano di Luciano Bianciardi riletto in occaasione del centenario della nascita dello scrittore

Forse un qualche Babbo natale (non certo un Dio) che può salvarci dalla Santa (Claus) depression potrebbe esistere, qualora ci regalasse L’Antimeridiano di Luciano Bianciardi (ISBN edizioni – ExCogita Edizioni), altrimenti davvero inacquistabile dall’alto dei suoi 69 euro. È l’unico, sostanziale, appunto che possiamo fare all’editore e ai due noti (per i lettori de il manifesto) curatori Massimo Coppola e Alberto Piccinini, che dovrebbero spendere il loro 2006 in un ciclo di presentazioni nei centri sociali e nei luoghi di ritrovo delle precarie moltitudini italiche, diffondendo a metà prezzo il primo volume dell’opera omnia di un Autore che ha ancora molto da dire alle più o meno giovani generazioni devote a San Precario, linfa vitale di un Paese ormai alla deriva. Perché in questa operazione editoriale c’è tutto il Bianciardi anarco-ribelle, che prova a lasciarsi alle spalle (senza mai riuscirci del tutto) provincia e famiglia, per buttarsi a capofitto nella metropoli da bere, centro nevralgico di follie autodistruttive e precari aneliti alla libertà. 

Questo, con molta approssimazione, è il senso che ancora ci parla di quella formidabile trilogia che va dal Lavoro culturale (1957), all’Integrazione (1960), alla Vita agra (1962), proditoriamente compresa nel volume in questione, insieme con molti appunti diaristici inediti della gioventù di Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971). Lì siamo negli anni di passaggio tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, quando un’intera generazione di provinciali intellettuali in formazione si riversa nelle capitali del lavoro culturale (oggi diremmo cognitivo): la Milano dei giornali e dell’editoria, la Roma della politica, ma anche dell’accademia, del cinema e della televisione. 


Quartari cognitari


Lì si vanno formando quei lavoratori neanche più terziari, ma «quartari» (comunicatori,  pubblicitari e cognitari, appunto), che «non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura». Rileggendo quelle pagine sembra di intravedere una spietata diagnosi sociologica, ma con la poesia della vera letteratura vissuta sulla propria pelle, delle trasformazioni delle forme di produzione intellettuale, tra non-lavoro e lavoro che invade anche la nuda vita. Le notti insonni passate a tradurre, riscrivere, battere a macchina (al computer, oggi), comporre frasi, in cambio delle quali ottenere quel reddito che ti permette di arrivare alla fine del mese, tra i timori del licenziamento e la consapevolezza di divenire (o essere già in nuce) un «collaboratore esterno». Sono le miriadi di partite Iva che abbiamo conosciuto nei successivi anni Ottanta e Novanta e le moltitudini di collaboratori occasionali, continuativi, a progetto (di precari-e, in una parola) che riempiono le redazioni televisive e giornalistiche, le biblioteche, le aule universitarie, le aziende della net-economy, le agenzie pubblicitarie, i call center, le catene delle grandi distribuzioni, etc. 


E mentre lì c’era il boom economico alle porte, del quale Bianciardi ci insegna come è possibile vedere il fallimento nel momento in cui massimo sembra il suo successo, ora c’è solo la condanna ad un individualismo ossessivo, che porta incomunicabilità e risentimento. È come se Bianciardi illustrasse i limiti del welfare fordista con trent’anni di anticipo: ai nostri attuali esegeti riformisti e/o lavoristi di tutte le risme basterebbe leggere queste pagine per percepire che le garanzie di un sistema sociale all’altezza dei tempi devono essere svincolate dall’impiego ed essere invece improntate a forme di (continuità di) reddito; e speriamo che le leggano queste pagine, e le capiscano.


Dissipazione e progetto


Ma al contempo la lettura di Bianciardi ci insegna che la via di uscita può essere ricercata soprattutto nella condivisione di forme di vita che riescano a coniugare dissipazione e progetto: come combinare l’attitudine vitellonesca della propria gioventù, fatta di sarcasmo, ozio e attivismo sfrenato, insieme con il bisogno di riconoscimento di una generazione che avrebbe voluto fare piazza pulita delle ipocrisie e delle storture di un sistema che condanna all’isolamento e al produttivismo sfrenato. 


«Infine, c’eravamo noi, i giovani, la generazione bruciata: decisi a rompere con le tradizioni ed a rifare tutto daccapo» (Il lavoro culturale); ma «ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine» (La vita agra). 


Questo il testimone di inizio secolo che ci trasmette Bianciardi: tenere insieme autonomia e libertà, con sicurezza e riconoscimento. Una generazione che, mettendosi in gioco, alluda ad una comunità che viene: delle singolarità percepite come oziose e perditempo, ma che invece vorrebbero declinare altri tempi e legami sociali, perché ogni generazione ha il diritto a sperimentare forme di buona vita. 


Distonia, Campari e sommovimenti precari 


Il nostro tempo è qui e comincia adesso: lo slogan del movimento universitario e della Rete Nazionale Ricercatori Precari NoMoratti, che assediò le istituzioni, uno dei movimenti che dall'inizio del millennio hanno cercato di rifondare dal basso i saperi, ridotti in macerie. C'è stato dunque un pur implicito riconoscimento della necessità di fare i conti con questa tradizione di distonia (non a caso il titolo dell’ultimo libro che avrebbe voluto scrivere Bianciardi) rispetto alla storia repubblicana ufficiale. 


E se è vero che a Bianciardi può essere attribuita la responsabilità di essersi «arreso troppo facilmente» (così Goffredo Fofi in una celebre, tremenda, introduzione a L’integrazione), è altresì vero che la sua prematura e solitaria scomparsa, «distruggendosi con l’alcol» (così Corrias nella sua splendida Vita agra di un anarchico), avviene agli albori di un fermento politico e culturale che finirà per essere brutalmente represso o per integrarsi nel sistema, con modalità peggiori di quelle praticate dai potenti che si volevano spodestare. E allora: possibile non ci sia alternativa tra integrazione e autodistruzione? È il terribile, insoluto interrogativo che ci ha lasciato Bianciardi, insieme con il rammarico di non poterlo avere più tra noi, precognitari in movimento, ma a tentoni, in questa «seconda modernità» (neanche più liquida, piuttosto) gassosa, come le bollicine dei Campari che ci sarebbe piaciuto prendere insieme, sperimentando brandelli di una vita in comune degna di essere vissuta per cambiare il mondo, condividendo i nostri sentimenti e la nostra rabbia di non riconciliati: salute a te, Luciano, uno di noi…


da il manifesto del 27 dicembre 2005

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