giovedì 28 giugno 2012

LAPSUS, PASSI FALSI E GAFFE NELLA RIFORMA DEL LAVORO


Roberto Ciccarelli

Nella riforma del lavoro approvata ieri alla Camera, e nelle dichiarazioni del ministro Fornero che l'ha battezzata, emerge un piano impalpabile, addirittura psicoanalitico, di cose dette e poi negate, di pensieri inconfessabili eppur sospirati attraverso la produzione di "gaffe".

Psicoanalisi della Gaffe
Stiliamo una fenomenologia breve della "gaffe", abbozzando un'improvvisata psicoanalisi a partire dall'etimo della parola. Gaffe, apprendiamo, è balordaggine, sproposito, granchio, ma anche sbaglio, topica, equivoco, granchio, azione o espressione inopportuna, atto o parole che rivelino inesperienza o goffaggine. In francese significa afferare con il gancio o gaffa (lunga pertica con due rami, uno diretto e l'altro ricurvo che serve ad agganciare la barca). In italiano "gaffe" si dice anche "gaffa" e deriva dal longobardo "gairo", punta di giavellotto, o "gancio d'accosto".

Una lettura sintomale di questi atti mancati, pulsioni che girano a vuoto, che scambiano la verità per senso comune e la propria banalità per ragione incarnata, racconta meglio questo paese, e la mentalità di chi lo governa, di quanto non facciano i singoli provvedimenti contenuti nella riforma.



Il meccanismo è semplice: alla base c'è un'irrefrenabile coazione a dire la cosa più ovvia possibile ("il posto fisso non esiste più, scordatevelo) scambiandola per la realtà da affermare in una società che non vuole sentire ragioni e pretende di restare ancorata al passato. Dopo 15 anni di "pacchetto Treu" e della più vasta, e terribile, deregolamentazione del lavoro è difficile sostenere questa "verità" affermata con piglio dogmatico da tutti gli esponenti del governo.

Ricordiamo quella di Monti sul posto fisso; Martone sugli sfigati; Cancellieri sull'abitudine dei "figli" italiani a lavorare insieme a mamma e papà, oltre che quella del ministro Fornero sulla pastasciutta che gli italiani mangerebbero ricevendo il reddito di base. Non si capisce la ragione di una gaffe se, infine, non la si contestualizza nell'ambiente in cui viene pronunciata e dove c'è l'abitudine, o la tolleranza, a formularla: la società medio-alto borghese, quella dove c'è un galateo che impone l'uso accorto della reticenza, e tollera l'uso distratto di una parola scorretta, di un pronunciamento scomodo e volgare, ma in fondo autorizzato. L'ambiente da cui si presume provenga i membri che compongono l'esecutivo in carica.

La gaffe svela infine la reticenza sulla quale si regge una società. E aspira, non riuscendoci mai, a creare un vero ordine del discorso. Un "faux pas", un "non-so-che", un'interiezione a singulto, un rutto o un peto, insomma un atto inconfessabile che non ha referenti, ma dice molto di chi lo compie.

Fenomenologia della gaffe "tecnica"
Diversamente da quello di Berlusconi, orgoglioso praticante della gaffe come stile politico, la gaffe nel governo Monti ha sempre un retrogusto penitenziale, o sacrificale. Rientra nel registro del dolore, o del compatimento, fino a sfiorare la disperazione, come si vede nell'arcinoto video delle lacrime versate dal Ministro del Welfare in occasione dell'annuncio, pochi mesi fa, della riforma delle pensioni:



La Gaffe può assumere anche un carattere parresiastico, improntato ad un'amabile spiacevolezza, basata sulla confusione dei termini, sul dissidio dei loro significati e, temiamo, anche sulla loro ignoranza. Ad esempio sull'edizione cartacea del Wall Street Journal del 27 giugno è apparsa un'intervista al ministro del Welfare Fornero che ha affermato: 

"We're trying to protect individuals not their jobs," said Ms. Fornero, 63 years old. "People's attitudes have to change. Work isn't a right; it has to be earned, including through sacrifice."

(Cerchiamo di proteggere gli individui, non i loro posti di lavoro - Il comportamento delle persone deve cambiare. Il lavoro non è un diritto, lo si deve guadagnare, anche attraverso il sacrificio)

L'indignazione scatenata da questa affermazione ha portato il ministero a pubblicare una precisazione e, insieme, la trascrizione dell'intervista dove avrebbe affermato questo:

"a job isn't something you obtain by right but something you conquer"
 "Un posto di lavoro non è qualcosa che si ottiene di diritto, ma qualcosa che si conquista"

La confusione tra "work" e "job", che vengono tradotti dal ministero con "lavoro" e "posto di lavoro", è programmatica. Per "work", "lavoro", qui si intende "posto fisso", cioè contratto a tempo indeterminato. Per "job" s'intende "flessibilità". In realtà, "work" in inglese ha un significato molto generico e definisce un'attività astratta, non legata ad un'attività specifica, bensì ad un'esperienza. Il significato che il ministro ritiene essere quello di "work", è in realtà posseduto da "labor": un'attività ciclica che segue la logica dei mezzi e dei fini, e si rivolge ad un oggetto che le persone impiegate in una simile attività possono trasformare, dall'inizio alla fine. Infine, "job" indica un lavoro specifico determinato, per esempio, dipingere una stanza, cambiare una lampadina, oppure lavorare in un McDonald's (si parla infatti di McJobs). 


Gli inglesi che hanno letto l'intervista incriminata dovrebbero avere inteso che in Italia non si ha diritto a sviluppare un'esperienza qualsiasi che implica sforzo, dedizione o competenza. E che, se lo si vuole, bisogna guadagnarsi la vita con sacrificio. Nella rettifica, qualora i lettori del WSJ l'avessero letta, si apprende che per guadagnarsi un Mcjob, cioè un sottoprodotto di un lavoro qualificato, flessibile o meno, gli italiani non hanno nemmeno la speranza di averlo di diritto (almeno quello), bensì di sputare sangue nella competizione quotidiana.

In un governo che dovrebbe essere immancabilmente anglofono si scopre così l'essenza della gaffe linguistica. L'incomprensione del significato di due parole fondamentali, almeno per chi guida un ministero del welfare, rivela imprevedibilmente la vera natura del lavoro, oggi, in Italia.

Amabili resti del lavoro
Un irrefrenabile coazione a dire la cosa più scorretta possibile, rispetto alla sensibilità di un paese ferito dall'uso sfrenato della cooptazione familistica, dalla disoccupazione e dall'inoccupazione. Eppure ribadita dalla moltiplicazione esorbitante di "gaffe" che affermano, con amabile violenza o salottiera normalità maldicente, la realtà che milioni di italiani - giovani e anziani - vivono da un quindicennio: per loro il relitto, scarto o sottoprodotto di un lavoro ("job") è il mondo migliore in cui vivere in futuro.

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