La scommessa di quei sapienti movimenti sociali che da Roma a Palermo, da Catania a Milano, da Napoli a Venezia occupano teatri, atelier, spazi pone l'urgenza di creazione dal basso di nuove istituzioni dell'autogoverno sociale, con la consapevolezza di far saltare i vecchi e falsi steccati tra riformismo, conservazione e rivoluzione, soprattutto tra le mentalità che ancora li leggono secondo quei paradigmi.
Il volume curato e introdotto da Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, con postfazione di Stefano Rodotà (Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 335, 25), è un esempio formidabile di come una comunità plurale, interdisciplinare e intergenerazionale di studiose, ricercatori e intellettuali indipendenti, sapientemente guidati da una curatrice – che è anche anima e coordinatrice di seminari, incontri, convegni, assemblee, discussioni – riesca a restituire tutta la complessità e ricchezza del dibattito intorno alle possibili vie di un “diritto dei beni comuni”, evitando scorciatoie semplicistiche e/o le vuote ripetizioni di stanchi ritornelli, che sembrano diventare mainstream.
Il volume curato e introdotto da Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, con postfazione di Stefano Rodotà (Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 335, 25), è un esempio formidabile di come una comunità plurale, interdisciplinare e intergenerazionale di studiose, ricercatori e intellettuali indipendenti, sapientemente guidati da una curatrice – che è anche anima e coordinatrice di seminari, incontri, convegni, assemblee, discussioni – riesca a restituire tutta la complessità e ricchezza del dibattito intorno alle possibili vie di un “diritto dei beni comuni”, evitando scorciatoie semplicistiche e/o le vuote ripetizioni di stanchi ritornelli, che sembrano diventare mainstream.
L'intera ricerca è articolata in quattro sezioni, che vanno dalle «ideologie
e genealogie dei beni comuni», all'esplosione culturale, politica e sociale dei
beni comuni – dall'acqua all'immateriale – per attraversare lo «spazio urbano
come commons» e chiudere su un'equivalenza sospesa su di un punto
interrogativo «lavoro=bene comune?». Interrogativo al quale chiariamo
immediatamente che ci sentiamo di rispondere con le considerazioni finali
dell'intervento di Adalgiso Amendola (Il lavoro è un bene comune?,
pp. 258-276): «il lavoro non è un bene comune da difendere, ma uno spazio di
conflitti per il comune», declinato al singolare e inteso come «continua
produzione di soggettività», dimostrazione del diffondersi della «produzione
contemporanea sull'intero spazio sociale e su tutto il tempo di vita», che
incide «sul piano delle trasformazioni dell'ordine politico», evidenziando «il
deperimento della tradizionale architettura pubblico/privato».
Bastano queste poche note per esplicitare quanto gli studi raccolti da
Marella non si assestino su una semplicistica e olistica digressione intorno a
una concezione vasta e indistinta di beni comuni, ma aggrediscano le possibili
connessioni costituenti tra i movimenti dell'autorganizzazione sociale,
che mettono in tensione gli statuti proprietari predatori esistenti (che siano
della rendita privata, piuttosto che della burocratica corruzione
dell'amministrazione statuale), e le trasformazioni di un pensiero giuridico,
filosofico, politico che accetta la sfida di non rimpiangere,
malinconicamente, il mondo (poco) incantato di ieri, ma si attrezza per pensare
e praticare altrimenti il presente.
Per questo tra i molti e irriducibili sentieri di lettura ci piace
individuare quello che in modo più potente ragiona sul come pensare e praticare
regole di condotta e comportamento che possano essere, non solo condivise, ma
permanentemente aperte a meccanismi di autotrasformazione collettiva nel divenire
diritto del comune. E in questo sottile filo rosso non c'è tanto
l'aspirazione a leggere in modo progressivo alcuni precetti costituzionali.
Una tendenza che invero ci porterebbe a un'interpretazione a ritroso della nostra Assemblea Costituente, con faticose disamine delle intenzioni di Amintore Fanfani, piuttosto che di Paolo Emilio Taviani nei lavoratori preparatori intorno all'art. 43 Cost., nonché alla sua successiva attuazione politica – e mentre scrivo mi rendo conto di essere davvero vecchio, poiché oramai quasi nessuno immagina neanche lontanamente l'aurea che c'è dietro questi nomi sconosciuti, o dimenticati, ai più!, quanto la possibilità di interrogare i modi di produzione di un inedito diritto comune, a partire dalla creazione di nuove istituzioni, e non dal “momento sovrano” delle fonti del diritto, piuttosto che dell'accordo tra privati, riducibile nel contratto. Perché l'invenzione istituzionale è il contrario di pensare il diritto dentro le gabbie sacrificali del rapporto tra comando e obbedienza, tra servitù volontaria e condanna alla subordinazione.
Una tendenza che invero ci porterebbe a un'interpretazione a ritroso della nostra Assemblea Costituente, con faticose disamine delle intenzioni di Amintore Fanfani, piuttosto che di Paolo Emilio Taviani nei lavoratori preparatori intorno all'art. 43 Cost., nonché alla sua successiva attuazione politica – e mentre scrivo mi rendo conto di essere davvero vecchio, poiché oramai quasi nessuno immagina neanche lontanamente l'aurea che c'è dietro questi nomi sconosciuti, o dimenticati, ai più!, quanto la possibilità di interrogare i modi di produzione di un inedito diritto comune, a partire dalla creazione di nuove istituzioni, e non dal “momento sovrano” delle fonti del diritto, piuttosto che dell'accordo tra privati, riducibile nel contratto. Perché l'invenzione istituzionale è il contrario di pensare il diritto dentro le gabbie sacrificali del rapporto tra comando e obbedienza, tra servitù volontaria e condanna alla subordinazione.
È l'intuizione di Gilles Deleuze, che percepiva dei movimenti
– nelle istituzioni – che non si possono identificare né con la legge
(le fonti del diritto pubblico), né con il contratto (rapporto tra
privati, nel diritto civile). Così il bell'intervento di Luca Nivarra (Alcune
riflessioni sul rapporto tra pubblico e comune, pp. 69-87), ruota intorno a
questa assai condivisibile affermazione:
«Si tratta, in altri termini, di immaginare
assetti istituzionali e regole operative nei quali trovino espressione e si
rispecchino i bisogni e gli interessi non del popolo sovrano o del consumatore
sovrano (travolti, l'uno dal declino dello Stato, l'altro dal virulento
esplodere della irrazionalità dell'economia politica capitalistica), ma di
coloro per i quali la sorte dei commons risulti davvero cruciale.
Dunque, comunità di utilizzatori del “comune” anche significativamente estese
(si rammenti l'ottavo principio progettuale della Ostrom), ma protette da un sistema
di autogoverno efficiente delle risorsa che le metta al riparo dalle pulsioni
predatorie e parimenti distruttive tanto del “pubblico”, quanto del “privato”,
ai quali, semmai, in questa ottica centrata sull'autogoverno degli
utilizzatori, potrebbe chiedersi di cooperare nei modi volta per volta ritenuti
più opportuni» (p. 86).
Perdonerete l'ampia citazione, ma in questo passaggio viene
sapientemente esplicitata l'urgenza di pensare e creare degli assetti
istituzionali e delle regole di condotta per far sì che la dimensione
dell'autogoverno collettivo sia l'utopia concreta di nuove
forme del vivere associato e di tutela, affermazione e valorizzazione dei commons.
Evidentemente questa consapevolezza è anche un modo – indiretto – per
rispondere alle critiche di chi intravede in un certo discorso intorno ai beni
comuni il rischio di «soddisfare i bisogni dei semplificatori e degli
antipolitici irriflessivi», insistendo su di un'alternativa che ha il
pericoloso sapore di presentarsi come una «proposta chiaramente populista»,
secondo la cruda analisi di Carlo Donolo, Qualche
chiarimento in tema di beni comuni.
In questo senso la sfida di pensare ai movimenti della società che si
autorganizza come nuove istituzioni nascenti dell'autogoverno comune
diviene un modo per far sì che «la condivisione collettiva di una cultura delle
regole e di cooperazione, sia sociale che interistituzionale» (ancora Carlo
Donolo), non sia da intendersi come un semplice “ritorno all'ordine
istituzionale”, quanto una possibile tensione costituente tra «passaggi
riformisti» e affermazione dal basso di nuove domande di giustizia, in cui
lo spazio metropolitano diviene la dimensione dove la «relazione tra pubblico e
privato sembra completamente ricreata non più in termini oppositivi, ma in
termini di godimento comune delle singolarità» (per riprendere l'assai
condivisibile recensione al volume fatta da Toni Negri, Il recinto dei beni comuni,
in il manifesto, 14 aprile 2012).
Sembra essere questa la scommessa all'ordine del giorno di quei
sapienti movimenti sociali che da Roma a Palermo, da Catania a Milano, da
Napoli a Venezia si pongono l'urgenza di creazione dal basso di nuove
istituzioni dell'autogoverno sociale, con la consapevolezza di far saltare
i vecchi e falsi steccati tra riformismo, conservazione e rivoluzione,
soprattutto tra le mentalità che ancora li leggono secondo quei paradigmi.
Perché come dice un sempreverde slogan del quale non ricordo la fonte:
si auspica sempre la formazione di un qualche ordine, per far sì che
alla sua ombra si possa contribuire a far nascere una nuova eresia...
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