sabato 16 giugno 2012

TEATRO VALLE: BENVENUTI NELLA LOTTA CHE E' DA SEMPRE NOSTRA

Teatro Valle Occupato.
La rivolta culturale
dei beni comuni.
DeriveApprodi
Giuseppe Allegri-Roberto Ciccarelli

Occupato il 14 giugno 2011 dopo la cancellazione dell'Ente Teatrale Italiano (Eti) e per evitare che il comune di Roma emanasse un bando che lo avrebbe consegnato alla gestione dei privati, il teatro Valle è il modello a partire dal quale possiamo immaginare la fondazione di una nuova repubblica.

Le attrici, e gli attori, sono le incarnazioni dell'attivismo politico cinico. Nella vita sociale, e non solo sul palcoscenico, interpretano quella vita esemplare che abbaia per avvertire la città dell'imminenza di un pericolo e mostrano davanti ai suoi occhi la possibilità di un'altra società. Questa simulazione permanente e combattiva di un mondo giusto, in una società che non lo è affatto, ha restituito al mestiere di attore la sua vocazione autentica, del resto riconosciuta inizialmente dalla rivoluzione francese, come anche da quella sovietica, in cui il teatro non fu solo uno strumento di propaganda, ma un eccezionale strumento per toccare il futuro che viene.

Nelle memorie dell'attrice e regista lituana Asja Lacis, fondatrice del teatro proletario dei bambini e protagonista del teatro politico in Germania e in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta, viene scolpita l'immagine di un teatro che non ha bisogno di prime sensazionali, né di registi condottieri che combattono sulla scena brillanti battaglie con i loro fantasmi, o di attori con posture rutilanti#. Quello che vuole cambiare il teatro rivoluzionario non è lo stile scenico, ma il mondo. È questa tensione tra teatro e politica che abbiamo visto riemergere al Valle dove a tratti, a lampi, si è manifestato il desiderio di creare infiniti mondi. Non solo sul palcoscenico, ma nella vita.

Dal teatro politico al desiderio di un'esistenza politica. Per comprendere questo passaggio, che è riuscito in un anno a smuovere le insospettabili risorse dell'affettività collettiva e un insperato desiderio di felicità pubblica in migliaia di persone, ragioniamo sulla superiorità dell'atto performante dell'attore rispetto alla disciplina verbale, triste e sacrificale, del militante politico o del politico di professione. L'attore crea un concetto e fa toccare le potenzialità della vita che sono più reali del mondo in cui viviamo. Per fare questo egli non si presenta come “professionista”, ma mette all'opera il suo saper fare, la sua tecnica, la sua esperienza per estraniarsi dal ruolo che la società gli ha assegnato e dimostrare la realtà di qualcosa che ancora non è attuale, la verità del mondo che viene. Come Diogene, anche qui la spoliazione degli attributi del galateo del professionista o dello status, l'esibizione di questa povertà, non corrisponde alla mendicità o alla depressione, ma al contrario all'espressione delle infinite potenzialità della vita.


L'effetto di straniamento viene ottenuto riducendo a commedia la società dove viene riconosciuta una centralità al valore del lavoro, quando invece tutti sanno che non c'è più bisogno di lavoro, e in particolare di quello degli artisti, dei “professionisti” o della conoscenza. E così sul palcoscenico gli attori si sono dichiarati, innanzitutto, lavoratori della conoscenza, intermittenti, precari, intermittenti, cioè simili al pubblico che continua a riempire il teatro Valle durante l'occupazione. Questo apparente svilimento del narcisismo – molto forte in questa categoria, almeno quanto lo è tra “avvocati”, “scrittori” o “professori” - risponde ad una convinzione maturata tra gli intermittenti romani. Su questo punto hanno polemizzato con i colleghi dello spettacolo con i quali occuparono il tappeto rosso della festa del cinema di Roma nell'autunno 2010 durante la lotta contro il taglio al Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus).



Questa convinzione non è nuova nella storia delle avanguardie artistiche e politiche. Nel 1934 Walter Benjamin la definì un atteggiamento “operante”#. In una conferenza citò l'esempio di uno scrittore, Sergej Tretjakov, che svolse in una comune agricola sovietica un'attività di pedagogia, di comunicazione e di espressione per liberare le energie letterarie del suo presente. Benjamin avvertì che quella di Tretjakov non era un'attività da giornalista o da propagandista, o quella che oggi chiameremmo di “animatore culturale” o “formatore”. La creazione di nuovi concetti, insieme a quella di un mondo nuovo, deriva da un orizzonte più ampio rispetto alle forme artistiche, o generi letterari, esistenti o passati. Solo dalla sperimentazione nella vita nasce il nuovo nella letteratura.

È in questa tendenza a privilegiare l'esperienza prima dello status, la biografia prima della competenza, la dimensione etica della passioni prima della rappresentazione politica che riconosciamo la spinta politica a costituire il Quinto Stato. Oggi chi si dichiara “lavoratore della conoscenza” rende accettabile una verità conosciuta da tutti, ma che nessuno è disposto ad accettare: la società faticherà moltissimo per trovarvi un lavoro – e sarà una concessione, una grazia, un favore personale – ma di questo lavoro, di cui voi avete assolutamente bisogno, essa può farne a meno. L'attore rivela che il lavoro inutile a cui tutti aspiriamo, perché è l'unica forma di cittadinanza accettata in una società arretrata e miserabile come la nostra, non può in nessun modo adempiere ad una funzione di legame sociale, di integrazione o di carriera.



Visto allora che un lavoro precario, intermittente, a durata o volontario non serve a niente, non è meglio ripartire dal reddito di base per i periodi di non lavoro, per la formazione (fatta di stage, provini, prove e corsi) e per il progetto di vita e non cedere al ricatto: qualsiasi lavoro va bene, anche se non garantisce un salario, tantomeno una vita degna e felice? Siamo una società del lavoro che sopravvive solo grazie alla nostra ostinazione nel cercare il nostro principale fantasma: la sicurezza che un lavoro inesistente non darà mai. L'entusiasmo che per mesi si è respirato al Valle è stato generato dal sollievo di apprendere di avere partecipato ad una commedia degli equivoci. Per questo il pubblico ha pensato di essere protagonista di una catarsi collettiva: perché tutti desideriamo partecipare ad una competizione che non ci porta a nulla?

Così facendo gli intermittenti hanno inventato un nuovo genere di spettacolo, un interminabile happening collettivo il cui principale, ed unico, oggetto è la simulazione dei ruoli sociali, in una società dove il lavoro non esercita il ruolo di regista e nessuno può ormai sedersi su quella sedia per dirigere gli attori. Tutti i ruoli sono intercambiabili visto che il loro valore è pari a zero. Tutte le persone possono indossare le maschere a disposizione. L'umorismo del cinico metropolitano deriva dalla presa di coscienza che le norme sociali non corrispondono più alla vita delle persone, lo status a cui tutti aspirano è solo una finzione, gli individui non possono rispondere alle attese della società perché la società non ha più nulla da chiedergli. Per questa ragione il cinico metropolitano rifiuta di identificarsi in un ruolo, in una funzione o nell'utilità sociale marginale che hanno i precari e sceglie di dedicarsi alla costruzione di un altro mondo.


Gli attori mettono in scena la loro auto-organizzazione e scoprono che funziona meglio che nello spettacolo diretto da un regista unico. Nel loro umorismo virtuoso e politico emerge un'altra dimensione dove è possibile riconoscere la dimensione estetica e performante dell'esistenza, delle relazioni comunicative e affettive, l'amore, l'amicizia o la tenerezza che non sono accettabili in una società organizzata sull'impotenza, lo scacco, la paura del fallimento. L'attore simula queste relazioni, interpreta l'irrazionalità rispetto alla norma, ma indica al suo pubblico l'esistenza di un altro mondo. Oggi è necessario salvare l'eccedenza, la singolarità, l'autonomia. E per questo bisogna esagerare, dimostrando che un'altra vita è possibile a partire dal poco o dal molto di cui dispone questa vita.

2. Al teatro Valle sono stati messi in scena tutti i limiti che affliggono il Quinto Stato: l'individualismo e il corporativismo. Sin dall'inizio dell'occupazione si è molto parlato di un “bene comune” precedente alla definizione di una società che si regge sul cinismo di Stato – vale a dire sull'opportunismo delle clientele e sul prestigio di una vocazione artistica (e umanistica) superiore alla necessità di cooperare per garantire a tutti, e non solo ad una categoria del lavoro della conoscenza, l'autonomia e le sue risorse politiche. In questa evocazione c'era un evidente riferimento al referendum del 12 e 13 giugno 2011 che ha evitato la privatizzazione dell’acqua “bene comune”, così come il possibile riuso democratico e partecipativo di un teatro gestito democraticamente.

Ma, al fondo, il “bene comune” è un operatore semantico che risponde alla condizione generale del Quinto Stato, ne delinea l'obiettivo di massima sintetizzando una serie di complesse significazioni in una pratica comunicabile e simbolica. Con questa idea di bene comune il Quinto Stato indica il desiderio di vivere in un modo ecologicamente equilibrato dove è possibile rispettare una qualità della vita, la continuità di reddito, le tutele giuridiche, le garanzie sociali per il lavoro indipendente e un'equa distribuzione delle risorse pubbliche destinate alla cultura, alla formazione e alla ricerca.



La capacità di intrecciare la rivendicazione di un diritto sociale - ad esempio il reddito di base per una categoria esclusa da una legge del 1935 dal sussidio di disoccupazione e il cui reddito medio è di 7500 euro annui - con un'istanza politica generale - restituire ad un uso comune un'istituzione culturale, ad esempio un teatro - è il cuore della proposta politica del Quinto Stato. Viene qui indicata una potente alternativa rispetto all'idea liberale, come a quella socialdemocratica, per le quali la richiesta di un diritto sociale equivale alla rivendicazione di un diritto al consumo e l'idea di un governo collegiale di un bene comune è inconcepibile perché non rientra nella concezione del servizio pubblico, né in quella della gestione privata.

Nella celebre teoria sulla cittadinanza, quella di Thomas Marshall#, così come in tutte le sue derivazioni di destra o di sinistra, i diritti sociali non sono mai coordinati dai principi razionali stabiliti dal contratto sociale o da quello del lavoro. Essi sono l'espressione degli interessi di un “consumatore” che non ha i mezzi per imporsi sul mercato e cerca gli strumenti per ottenere dalla società il rispetto degli interessi che lo inducono a violare i diritti degli altri, per ottenere la sopravvivenza. L'ipotesi che un consumatore possa dirigere un teatro o governare un bene comune è semplicemente assurda.

Le rivendicazioni degli intermittenti dello spettacolo non sono l'espressione di una lobby di consumatori, ma di soggetti che si considerano centrali in una società dove la produzione e la diffusione dei beni culturali e dell'immaginario occupa il posto centrale che avevano nella società industriale i beni materiali#. La loro richiesta di diritti sociali, come premessa all'esercizio della cittadinanza, rispetta l'esigenza di difendere l'autonomia personale contro l'idea di una vita amministrata come un'azienda e governata come una caserma. Ridurre invece questa azione alla richiesta di uno status significa ridimensionarla alla semplificazione o alla liberalizzazione di un sistema professionale, oppure all'espressione della condizione pauperistica di consumatori che non riescono a partecipare alla competizione sul mercato in quanto “precari”, soggetti “svantaggiati” o clienti insoddisfatti.

La richiesta di tutele e di garanzie per gli intermittenti, come il riconoscimento dell'indipendenza per la vita di tutti (e non solo dei figli rispetto ai genitori) denunciano l'assenza di un contratto sociale, l'unico strumento per governare la pulsione di morte con una legge e il rispetto dei valori. In questo contratto i diritti sociali non hanno collocazione e, se la ricevono, è solo perché sono l'espressione di un desiderio anormale, fuori dalla legge e non conforme alla tradizione (così dice la psicoanalisi). Oppure di un esercizio illegale della loro posizione nella società (così dice il liberalismo) e ancora come una deroga alla contrattazione nazionale tra parti sociali riconoscibili (così dice la sinistra e il sindacalismo tradizionale).

Ma cosa succede quando non è più possibile la definizione di un contratto che regola la distribuzione delle risorse, le aspirazioni di chi vuole conquistare uno status insieme a quelle di chi ha già una professione, un talento certificato, un merito stabilito? Il cinico metropolitano è l'unico ad avere compreso questo problema: è la libertà dei soggetti di istituire i contratti, le istituzioni, le norme, a volere bene ai padri e lasciare i figli liberi di vivere, non di fallire o di avere successo. E questa libertà a fare paura, per questo non bisogna premiarla, anzi meglio rimuoverla o punirla. Sul palcoscenico del teatro Valle essa ha invece ricevuto ospitalità, trovando il tempo per mettere in scena la commedia di una società dove l'attribuzione dei ruoli non risponde più ad una norma prestabilita, ma dipende solo dai rapporti di forza tra i soggetti di una società che non tollera la libertà individuale e l'autonomia collettiva.

3. “Vogliamo tornare ad essere cittadini”. È stato questo il ritornello scandito nelle assemblee del Valle, così come tra i lavoratori autonomi e quelli precari, lo hanno detto gli studenti per anni e oggi lo ripetono gli artisti e i curatori di arte contemporanea, i freelance del giornalismo come i redattori precari o gli scrittori. La “cittadinanza” a cui aspirano queste persone deriva dalla possibilità degli individui di intervenire sui meccanismi sociali che determinano il proprio status: cioè la relazione con se stessi, l'identità personale e quella professionale, l'immagine che la società ha di loro e le opinioni che contribuisce a determinare l'immagine che questi cittadini hanno di se stessi. Il Quinto Stato rivendica il potere di muoversi all'interno di una società ostile in maniera strategica, modificando le regole del gioco per reagire a ciò che gli fanno gli altri, ma soprattutto per affermare la sua vita autonoma.

“Benvenuti nella lotta che era già vostra”. Con questo saluto è stato inaugurato il primo giorno di occupazione del teatro Valle. Proteggeremo a lungo l'emozione che questo saluto provocò in un teatro gremito da un migliaio di persone. Era l'affermazione di una condizione comune.

La nostra.

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