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Teatro Valle Occupato.
La rivolta culturale
dei beni comuni.
DeriveApprodi |
Giuseppe Allegri-Roberto Ciccarelli
Occupato il 14 giugno 2011 dopo la cancellazione dell'Ente Teatrale Italiano (Eti) e per evitare che il comune di Roma emanasse un bando che lo avrebbe consegnato alla gestione dei privati,
il teatro Valle è il modello a partire dal quale possiamo immaginare la fondazione di una nuova repubblica.
Le attrici, e gli attori, sono le incarnazioni dell'attivismo politico cinico. Nella vita sociale, e non solo sul palcoscenico, interpretano quella vita esemplare che abbaia per avvertire la città dell'imminenza di un pericolo e mostrano davanti ai suoi occhi la possibilità di un'altra società. Questa simulazione permanente e combattiva di un mondo giusto, in una società che non lo è affatto, ha restituito al mestiere di attore la sua vocazione autentica, del resto riconosciuta inizialmente dalla rivoluzione francese, come anche da quella sovietica, in cui il teatro non fu solo uno strumento di propaganda, ma un eccezionale strumento per toccare il futuro che viene.
Nelle memorie dell'attrice e regista lituana Asja Lacis, fondatrice del teatro proletario dei bambini e protagonista del teatro politico in Germania e in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta, viene scolpita l'immagine di un teatro che non ha bisogno di prime sensazionali, né di registi condottieri che combattono sulla scena brillanti battaglie con i loro fantasmi, o di attori con posture rutilanti#. Quello che vuole cambiare il teatro rivoluzionario non è lo stile scenico, ma il mondo. È questa tensione tra teatro e politica che abbiamo visto riemergere al Valle dove a tratti, a lampi, si è manifestato il desiderio di creare infiniti mondi. Non solo sul palcoscenico, ma nella vita.
Dal teatro politico al desiderio di un'esistenza politica. Per comprendere questo passaggio, che è riuscito in un anno a smuovere le insospettabili risorse dell'affettività collettiva e un insperato desiderio di felicità pubblica in migliaia di persone, ragioniamo sulla superiorità dell'atto performante dell'attore rispetto alla disciplina verbale, triste e sacrificale, del militante politico o del politico di professione. L'attore crea un concetto e fa toccare le potenzialità della vita che sono più reali del mondo in cui viviamo. Per fare questo egli non si presenta come “professionista”, ma mette all'opera il suo saper fare, la sua tecnica, la sua esperienza per estraniarsi dal ruolo che la società gli ha assegnato e dimostrare la realtà di qualcosa che ancora non è attuale, la verità del mondo che viene. Come Diogene, anche qui la spoliazione degli attributi del galateo del professionista o dello status, l'esibizione di questa povertà, non corrisponde alla mendicità o alla depressione, ma al contrario all'espressione delle infinite potenzialità della vita.