domenica 21 ottobre 2012

ANGELO MAI ALTROVE: IL TERZO PAESAGGIO DI ROMA

Apro gli occhi e vedo per la mia terra uno 
spettacolo sbagliato. Ovunque io vada, tutti vogliono fare un abuso di 
potere. Mancava poco alla mezzanotte di venerdì 19 ottobre, e all’annuncio della 
nuova occupazione dell’Angelo Mai altrove contro il divieto di usare il bar, 
polmone finanziario di uno dei centri culturali indipendenti più originali della Capitale, quando il cantane italo-francese Sandro
 Joyeux ha intonato «Power show» di Fela Kuti.

Da più di un mese il
 divieto di somministrare alcolici senza licenza ha bloccato le
attività della vecchia bocciofila in ondulato di plastica trasformata
 miracolosamente in uno spazio polivalente per la musica e il teatro.
 Impossibile acquistare una licenza, bloccate da anni dal municipio,
anche perché non tutti possono - né vogliono pagare - 150 mila euro
 sotto banco. È l’ultimo scandalo che fa discutere la Capitale, in uno 
dei suoi periodi più bui, e corrotti.


L'Angelo è stato rioccupato, per riprendere a vivere e immaginare un'altro progetto per gli spazi autonomi per la produzione e l'associazione dei lavoratori della conoscenza e dell'immateriale, gli artisti e tecnici, freelance e autonomi, giovani e precari che a Roma rappresentano un terzo della forza-lavoro attiva. 

Il quinto stato e stato veltroniano?

Ci sono stati degli anni di buco tra il vecchio Angelo Mai e il nuovo - racconta Giorgina Pilozzi, regista teatrale e attivista dell'Angelo - Dal vecchio spazio che avevamo nel rione Monti siamo stati sgomberati nel 2006 e ci sono state varie vicende prima di riuscire a entrare nella nuova sede, nell’autunno del 2009. L’altro spazio era un luogo occupato in cui eravamo entrati insieme a un movimento di lotta per la casa. è stato un esperimento appassionante: lì convivevamo con una trentina di famiglie in emergenza abitativa, era un luogo molto grande, un ex convitto.

In questo spicchio del parco archeologico delle Terme di Caracalla non c’è un 
angolo che non sia stato ricostruito dall’assegnazione concessa da
 Alemanno nel 2009, dopo una tormentata vicenda di occupazioni e 
sgomberi iniziata nel 2006 con Veltroni. 


L'Angelo Mai ha preso il nome dall'omonimo convitto nel rione Monti. Incastrato tra via Clementina, piazza Madonna dei Monti e via degli Zingari, questo enorme manufatto di fine Ottocento, contenente una chiesa sconsacrata risalente al XVIII secolo, nel 2004 viene occupato da una trentina di famiglie che rivendicano il diritto alla casa. Un collettivo di teatranti, musicisti, artisti visivi, tecnici del suono e delle luci, lavoratori e ricercatori, quelli che avrebbero fondato il collettivo dell'Angelo Mai, confluiscono nell'occupazione. 

Come prima istanza il comitato di occupazione arresta le voci di speculazioni - alcune delle quali fantasiose - sull'ex convitto abbandonato alla fine degli anni Ottanta. Spunta l'ipotesi del centro commerciale, coerente con la gentrificazione di Monti, il quartiere della Suburra nella Roma papalina, insediamento del minuto artigianato e del commercio, come del resto è stato il più grande Trastevere fino agli anni Ottanta. Il comune che allora viveva l'ultim'ora del veltronismo dei "grandi eventi culturali", capisce e propone di trasferire all'Angelo Mai il vicino Viscontino, una scuola media divisa in tre plessi ancora oggi in cerca di una sede. 400 bambini avrebbero trovato nell'enorme cortile dov'era appena stata installata la ciclofficina un paradiso dove scorrazzare. E' stato questo il grimaldello per scardinare l'occupazione degli artisti.

Nei giorni dell'addio alla politica, sembra un paradosso ricordare Veltroni come colui che ostacola una delle possibili espressioni della "classe creativa". Ma Veltroni non è stato l'espressione di centro-sinistra di questa "classe"? Certo, ne ha rappresentato le posture isteriche, gli istinti appropriativi e individualistici, la speranza di appartenere ad un'identità, ma non certo la sua realtà: quella della produzione. La sua idea di produzione culturale dall'alto, ha negato la possibilità di creare un'economia viva. Ciò che è più importante è spendere centinaia di milioni per un auditorium dove celebrare i fasti dei grandi eventi, non scuole, laboratori, industrie o cowork per la produzione immateriale.

Per questo la vicenda dell'Angelo Mai rappresenta la più chiara sconfessione dell'ideologia finto-consensuale, mid-cult popolarmente chic della stagione dei grandi eventi  - e delle grandi infrastrutture - costruite nei quindici anni di governo del centro-sinistra a Roma. All'Angelo Mai la "classe creativa" aveva scelto di allearsi con gli occupanti del diritto alla casa, e con quel Quinto Stato, ad esempio, dei ricercatori precari reduci dalla grande manifestazione - con occupazione di piazza Montecitorio, contro la Riforma Moratti dell'università. I concerti, i progetti artistici, gli incontri politici, la creazione di relazioni - la produzione di progetti teatrali e musicali alcuni dei quali sono ormai diventati realtà internazionali e indipendenti - erano il risvolto di questa capacità di coalizione, e di costituzione di una società - vivissima a Roma, sin dagli anni Settanta - rappresentano l'antitesi del veltronismo e dell'alleanza con i costruttori edili – i padroni della città - di cui è stato espressione.

In più, bisogna ricordare quanto falsa sia stata la ragione del primo sgombero dell'Angelo. La vicenda dell'ex convitto non si è ancora conclusa. I lavori nell'enorme immobile rimasto vuoto non sono mai partiti: l'edificio, oggi ancora più fatiscente, non ospita ancora il cantiere, nonostante l'ultimo cartello dei lavori esposto - approvato con  la delibera n. 576 dalla Giunta Comunale in data 19 dicembre 2007 - indichi come "ultimazione prevista" il 25 febbraio 2011 e come importo complessivo dei lavori 1.110.762,79 euro. 

Le zone autonome crescono in centro
Per noi era importante rimanere in centro. Non per essere trendy, ma per un percorso di senso preciso. Se adesso si gira per il centro di Roma è ancora più chiaro, ma già dieci anni fa era evidente che questa città veniva svuotata a tavolino. È forte il legame tra quello che noi cercavamo e la questione della lotta per la casa: a Roma la situazione è molto grave, ci sono migliaia di famiglie senza una sistemazione che avrebbero diritto a una casa popolare. Tutta la grandissima area del centro è sempre stata abitata da strati diversissimi fra loro, grazie al fatto che c’erano delle case popolari. Un bel giorno queste case sono state cartolarizzate, la gente è stata letteralmente buttata fuori città, in provincia. Il centro si è svuotato, Trastevere, rione Monti sono diventati quel che sono. Per noi il fatto di rimanere dentro il centro significava ribadire, soprattutto sotto il veltronismo, che questa città non è solo quella delle bellezze archeologiche, della Notte Bianca, dei grandi eventi, ma è anche un luogo dove ci si può ancora veramente incontrare. Chiaramente nella nostra lingua uno degli incontri possibili può avvenire attraverso l’arte. Su questo punto abbiamo tenuto duro. 

Questa non è la storia della "classe creativa", è l'anteprima del Quinto Stato. La ricerca di un "centro" segue un ragionamento: costruire una zona autonoma - e un centro produttivo di linguaggio, simboli, socializzazione - nel cuore del deserto creato dalla speculazione immobiliare che rappresenta il motore dell'economia sin dalla deportazione delle classi popolari da Campo de'Fiori a partire dagli anni Cinquanta. 

L'Angelo arriva alle Terme di Caracalla e trova poco più di un 
rudere, pericolosissimo. L’Eternit spuntava ovunque. Era in queste condizioni che il comune aveva consegnato l'immobile. Oggi c’è un palco 
mobile, la sala polifunzionale, l’aria condizionata e la platea che sono costati oltre 60 mila 
euro. Per gli impianti elettrici a norma c’è stato un bagno di sangue:
altri 60 mila euro. Soldi ottenuti grazie all'auto-finanziamento degli spettacoli e al bar. La 
resurrezione dello spazio è stata progettata insieme all’architetto Romolo Ottaviani che veniva dall’esperienza di Stalker.



Tre anni dopo sotto il naso del foltissimo collettivo degli artisti che
 hanno creato questa opera collettiva, viene sventolata l’arma finale
 del sequestro giudiziario. Decine di multe per trasgressioni alle 
ordinanze comunali continuano a bersagliarli. 
Quella in corso è un’offensiva proibizionista che rischia di
cancellare una geografia artistica: il Rialto Santambrogio cresciuto
nella corte interna di un palazzo seicentesco nel ghetto ebraico, il
teatro Kollatino Underground che ha ridotto le attività per non essere 
chiuso, il teatro Furio Camillo.

Sono luoghi che garantiscono 
libertà e sperimentazione, l’apertura a un pubblico vasto a prezzi
 popolari, ma che oggi rischiano l’estinzione in una città impietrita.
Il piano strategico di questa offensiva inizia a chiarirsi. Alemanno
 vuole modificare il regolamento per la gestione del patrimonio
immobiliare nel quale rientra la «delibera 26», l’atto con il quale 
Rutelli sancì nel 1995 l’assegnazione degli spazi a decine di centri
sociali romani. Una conquista storica, unica in Italia, ottenuta dopo
 una lunga stagione di conflitto.

Noi siamo il terzo paesaggio




«Negli anni – continua Giorgina – questa delibera ha manifestato sempre più le sue
 pecche. Ha regolarizzato gli spazi occupati obbligandoli a diventare
associazioni culturali, una forma giuridica inadeguata per esprimere
la particolarità di centri di produzione indipendente come il nostro. Il paradosso è che l'associazione culturale obbliga ad una serie di illegalità come gonfiare le voci di spesa. Quando invece produciamo uno spettacolo o un concerto siamo trattati come una discoteca o un “locale”: biglietti, siae. Sia nel caso dell'associazione culturale che in quello del locale c'è un tabù: i lavoratori dello spettacolo producono ma reddito, ma dire che lo producono è tabù. Ecco perchè ci obbligano a dichiarare il falso, ci impongono tasse per un'attività che non facciamo: noi non facciamo intrattenimento, noi produciamo cultura, musica, teatro e lo facciamo senza costare nulla ai contribuenti”.

L'indipendenza, e il reddito che essa produce, sono argomenti naturalmente estranei ad un sindaco come Alemanno che ha acquistato per 12 milioni di euro – a spese dei contribuenti – un palazzo dove oggi si è insediata l'esperienza neo-fascista di Casa Pound. Ma luoghi come l'Angelo Mai, e le occupazioni
dell’ultima generazione a Roma, il teatro Valle o il cinema Palazzo per fare degli esempi, vivono in un paradosso costituente, molto più ampio della storia di questo sindaco.

S'impone un ripensamento della delibera, alla luce della ricerca di una forma
giuridica e politica che non sia costretta nel binomio tra bene
pubblico e bene privato o tra spazi culturali finanziati dallo Stato e
quelli commerciali. Ed è ormai chiaro che non basta più definirli con
le categorie dell’associazionismo culturale e anche del no-profit.

«Noi facciamo parte di un terzo paesaggio – continua Giorgina – che
 non è né pubblico, né privato. I centri sociali erano già qualcosa di
simile. Oggi è intervenuta una discontinuità molto naturale dovuta al
cambiamento dell’idea di attivismo. Ci sono persone che entrano a far
parte delle nostre zone franche e iniziano un percorso declinandolo a
partire dalle esigenze della loro professione. Altri ci lavorano per
condurre una ricerca artistica che non trova cittadinanza nelle
istituzioni “ufficiali”. È una trasformazione che sta avvenendo
ovunque e rispecchia i cambiamenti nel mondo dei lavoratori della conoscenza e dell’immateriale». 

Il “fascino umano”


Il riconoscimento di questa realtà generale in un unico spazio viene ribadito nel «mai altrove» che
accompagna il nome dell’Angelo. In questa immanenza, che rimanda ad un
desiderio di durata nel tempo, e non di rinuncia al movimento, si è
affermata un’intensità affettiva, «un fascino umano», che ha
conquistato i Motus.


«L’Angelo è un’isola, per tutti noi è la seconda casa, ne abbiamo
addirittura le chiavi – sorride la regista Daniela Nicolò – Per una
compagnia indipendente come la nostra, che lavora soprattutto
all’estero perchè qui è estranea ai circuiti degli scambi e ai teatri
stabili. Con gli angeli abbiamo un rapporto che va molto
al di là di quello che si stabilisce con i direttori dei teatri chiusi
nel loro ruolo di burocrati».

Per Fanny&Alexander, un’altra delle più
originali compagnie teatrali italiane, «luoghi come l’Angelo
dovrebbero essere la normalità – sostiene il regista Luigi De Angelis
- uno stimolo grandissimo per creare altri luoghi indipendenti nella
gestione politica, ma anche dell’anima. A Roma abbiamo lavorato in
altri teatri, ma è la prima volta che in uno spazio autogestito
abbiamo incontrato una simile sapienza nelle relazioni umane. Ci sono
incontri che lasciano tracce nel tempo».


Roberto Ciccarelli

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