domenica 7 ottobre 2012

PERCHE' SONO DIVENTATO UN COWORKER


La nuova generazione del lavoro organizzato dovrebbe mirare a qualcosa in più del recupero del potere di acquisto dei salari o dello stile di vita da classe media. Dovrebbe ricreare una modalità del lavoro rimossa dalla civiltà del lavoro dipendente, e di quello salariato: quella della cooperazione.

Durante il workshop Co-Work-Italia tenuto all'Internet festival di Pisa nel racconto del co-working - la pratica del lavorare insieme in spazi condivisi - a Milano, Verona, Alessandria, Roma e Firenze è emerso un tratto comune: un'economia fondata sulla relazione e la collaborazione tra i lavoratori digitali, creativi, professionisti e partite Iva in un ambiente che non è quello della fabbrica né quello della pubblica amministrazione, ma quello del territorio o della comunità dove il lavoro della conoscenza sviluppa una duplice caratteristica: erogare servizi intellettuali, alla persona o alla produzione nell'ambito di un ambiente di un territorio diffuso e la creazione di legami tra una comunità di persone impegnate nell'esecuzione di una commessa, di un progetto o di un'impresa.





Il coworking è la pratica della condivisione di risorse (conoscenza, relazioni ma anche le spese per l'affitto di una postazione in uno spazio) e dei valori del reciproco sostegno, quelli della sussidiarietà rispetto a un mondo o un sistema urbano privi di occasioni di socialità o vincoli organizzativi che in passato hanno garantito l'accumulazione dei saperi e il loro sfruttamento rispetto ad uno scopo imprenditoriale.

Il bisogno di una nuova socialità, l'idea di efficienza e imprenditorialità gestite dai lavoratori (nomad workers) e dalla loro auto-organizzazione, sono esigenze emerse negli Stati Uniti dove il termine "coworking" è stato inventato dal programmista informatico, inventore di giochi e umorista di successo Bernie De Koven e poi sviluppato dall'ingegnere informatico  Brad Neuberg




Creare uno spazio di co-working non è un'idea nuova, hanno spiegato Dario Banfi e Sergio Bologna in Vita da freelance. La novità sta nel crearlo sotto la spinta di un desiderio che scaturisce da un bisogno: creare una comunità e facilitare un rapporto tra i lavoratori e il territorio; difendere le competenze acquisite durante un corso di studi universitario o di specializzazione  che spesso vengono cancellate da un mercato saturo oppure ristretto; adattare le modalità d'uso dello spazio rispetto alla domanda o alle filiere produttive presenti sul territorio, oppure rispetto alle competenze del gruppo che fonda il cowork.

"Il fulcro del progetto - ha spiegato Alessando Di Tecco, cofondatore di "The collective" a Verona - è la costituzione di una comunità e di un movimento prima ancora dell'individuazione di uno spazio fisico. Bisogna diventare una comunità per le persone che condivideranno le finalità e i discorsi. Non è interessante cercare persone che vogliono solo un ufficio economico, ma persone che sono alla ricerca di un progetto e che vogliono mettere un segno nello spazio che costruirai insieme a loro. Sono queste le persone che fanno crescere la comunità".
"Le persone della community vogliono partecipare alla definizione di un progetto comune e non amano vederselo calare dall'alto - ha aggiunto Mico Rao, responsabile insieme a Stefania Burra del cowork Lab 121 di Alessandria - Il cowork è l'opposto dell'organizzazione classica dell'impresa o della politica: bisogna fare presa sulla coscienza del coworker, aprirsi alla casualità degli incontri e definire insieme un percorso comune. Non bisogna andare alla ricerca di professionalità generiche: l'architetto, il pubblicitario, l'organizzatore di eventi, ma delle singole competenze, e delle storie individuali che entrano in risonanza con quelle degli altri quando si inizia un percorso comune".
L'aspetto costituente
La costruzione di una comunità, di un "movimento", che abbia come obiettivo un'azione comune e una convivenza sociale e professionale (nell'auto-impresa postfordista questi obiettivi sono spesso sovrapposti) è determinante. I lavoratori della conoscenza, o freelance, sono allergici alle retoriche sulla comunità: sono individualisti, credono nella competizione, al sogno di una svolta personale con un surplus di reddito e di affermazione personale, insomma quanto di più lontano dall'idea della comunità. Da quando la crisi ha incrinato l'individualismo competitivo, sembra che una soluzione venga dalla ricerca di una comunità aperta, fondata sulla condivisione di principi e pratiche collaborative.

La costruzione di una simile comunità avviene a partire da un'idea di impresa sociale creata dall'aggregazione delle competenze autogestite dai professionisti. Per Massimo Carraro, pubblicitario, che sta sviluppando la rete "Cowo" in Italia il coworking serve a

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"sviluppare del lavoro in maniera sostenibile. Per noi significa  mettere davanti al profitto la relazione. al primo posto viene la relazione personale tra le persone, al secondo posto viene il profitto".
Questa visione, che traduce l'idea di una comunità basata sull'economia delle relazioni, ispira l'idea dell'impresa come innovazione sociale.

"Per innovazione sociale - spiega Michele Magnani che insieme a Nicolò Pecorini gestisce il cowork Multiverso a Firenze - intendiamo una soluzione a un problema sociale che sia più efficace, efficiente, sostenibile ed equa di tutte le soluzioni esistenti e che generi valore diffuso per tutta la società e non solo per i singoli individui".
Tra l'altro, il cowork rappresenta una soluzione contro il "precariato", cioè la deprofessionalizzazione e la svalorizzazione del lavoro della conoscenza, oltre a rappresentare un effetto moltiplicatore:



Ed è per questa ragione, aggiunge Mico Rao di Lab 121 di Alessandria (un cowork aperto da 10 mesi, con 301 soci), il cowork interpreta un'esigenza basilare del territorio: la tutela dei bisogni sociali attraverso le pratiche di mutuo soccorso:

"I nostri soci - spiega - mettono a disposizione della comunità i loro saperi attraverso corsi di formazione; abbiamo attivato consulenze gratuite di commercialisti, avvocati, ma anche accordi con gruppi di acquisto e convenzioni sanitarie o assistenziali. Ogni membro del cowork si sente responsabile del territorio e della politica".



Il rompicapo dell'innovazione

Nella definizione del cowork come pratica e come relazione con una comunità-territorio non ci troviamo semplicemente di fronte ad una concezione del capitale umano che riceve un reddito, o ne crea uno, perché è il lavoratore in quanto tale ad apparire - innanzitutto davanti a se stesso - come una sorta di impresa in sé, un "libero imprenditore di se stesso", come sempre è stato inteso anche in Italia.

L'esigenza di anteporre le relazioni comunitarie o quelle mutualistiche al profitto, come all'impresa, segnala l'esigenza di non considerare il lavoratore autonomo che fattura con la partita Iva, oppure lavora con la ritenuta d'acconto o con le aberranti figure contrattuali "atipiche" come un imprenditore delle proprie "competenze", produttore di se stesso e dei propri redditi.

Non si può tuttavia negare che il discorso sul cowork sia una risposta alla degenerazione delle politiche del capitale umano, dal momento in cui è sempre più difficile trarre un reddito dalle attività cognitive, linguistiche, artistiche o relazionali incarnate nel lavoratore. Su questo piano ogni discorso sull'innovazione, e quindi sull'attività produttiva o sul desiderio di comunità, derivano da una certa idea del "fare impresa", cioè sull'economia del capitale umano basata sull'investimento sul soggetto (donna o uomo) in quanto tale e non sull'impresa tradizionale. Per questa ragione si può dire che buona parte dei cowork esistenti sono "business-oriented".

Ma la realtà è complessa e si colloca sul crinale tra attività profit e no/profit e ciò dovrebbe obbligare a un ripensamento del concetto stesso di "impresa". Nel dibattito sul cowork tutto questo è allo stato embrionale. Ciò non toglie che l'interesse che sta ricevendo in questi mesi anche in Italia dipenda da un discorso diverso sull'antropologia, sull'etica e sulla politica del lavoro. Il cowork pone un problema ormai invisibile in altri ambiti del lavoro: esiste la possibilità di sviluppare l'autonomia singolare e collettiva del lavoro? Per questa ragione rappresenta un'anomalia rispetto al discorso neo-liberista sul capitale umano e l'innovazione sociale d'impresa che vive attraverso la sussunzione della cooperazione. 

L'anomalia e le soluzioni possibili

L'anomalia del cowork si spiega con la richiesta della riconversione  in spazi di coworking degli spazi pubblici, deindustrializzati o soggetti alla speculazione immobiliare presenti nelle città. La richiesta dei coworkers agli enti locali è di farsi garanti giuridici e amministrativi di un'attività che essi concepiscono in maniera indipendente dalla politica. "Il cowork deve essere un'attività sostenibile in sé, e non deve dipendere da finanziamenti esterni rispetto alla sua attività".

Ciò non toglie che, per svilupparsi, il cowork abbia bisogno di nuovi strumenti giuridici utili a costituzionalizzare la sua attività in un assetto tale da potenziare un percorso che si sviluppa sul crinale difficile tra profit e no-profit. E gli strumenti vengono spesso dal diritto commerciale, elemento ricorrente in tutte le attività sociali e innovative nate nella governamentalità neo-liberale.




Ad esempio, le reti di impresa o contratti di rete, che rientrano nella più generale categoria dei "contratti di consorzio" e prevedono agevolazioni fiscali, amministrative e finanziarie a sostegno delle piccole e medie imprese che si aggregano, in particolare quelle "innovative".

Rispetto a questa proposta, particolarmente sentita perché il Cowork non è sostenuto né riconosciuto come sistema, torna l'anomalia. Il cowork non è un'impresa tradizionale e quindi non rientra tra gli strumenti giuridici né tra i destinatari dei fondi (200 milioni di euro per tre anni) stanziati dal governo Monti per le "start up" nel decreto sviluppo.

Lo si potrebbe considerare come un ecosistema che sostiene sia la creazione d'impresa per il lavoratore a partita Iva che un'opzione di cittadinanza per chi non è imprenditore, ma lavora con la conoscenza o con le competenze. Non escludendo altre soluzioni, in questo caso il Coworking diventerebbe un consorzio di cittadinanza al quale possono aderire soggetti di scala diversa: dalle reti d'impresa alle associazione culturali, dai singoli lavoratori ai sindacati, o altri soggetti privati, istituzionali o pubblici. Gli obiettivi di questo consorzio, non assimilabili a quelli del "cartello tra imprese", sarebbe l'evoluzione di una pratica economica e mutualistica ormai diffusa in Italia. E sarebbe, infine, la premessa per creare tutele e garanzie economiche, assicurative e previdenziali per gli autonomi e i precari (il "Quinto Stato") che oggi sono esclusi dallo Stato, come dal mercato.

La proposta di bilancio sociale sembra andare in questa direzione.  Un atto che ogni cowork può stilarlo, per misurare l'impatto sociale della propria attività sul territorio, da presentare alle amministrazioni pubbliche, utile per il riconoscimento e per un'azione concertata per sviluppare l'ecosistema al di là del territorio di riferimento. 

Roberto Ciccarelli

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