Al convegno immaginario che si è radunato davanti al mio pc collocato nel sottoscala dell'istituto tecnico Stendhal in via Cassia 726 a Roma è spuntata un'assemblea di studenti. Tra di loro c'era qualcuno a cui piacevano i libri e qualcuno che si definiva un rivoluzionario. Quindi tutti gli studenti sono rivoluzionari e leggono i libri. Magari, ma non ho avuto tempo di approfondire la conoscenza di questa nuova umanità che affolla le classi, perché è venuto il momento delle bariste avellinesi.
Il concorsone della scuola sarà ricordato per la tiritera sessista sulle bariste avvenenti e avvedute. Per un lungo momento mi sono chiesto quali torti avesse fatto Avellino al governo, o alcune bariste che hanno avuto i natali in questa cittadina dov'è praticamente nato anche mio padre. Il quiz che ha fatto il giro della rete e, oggi, traduce l'insieme morale, simbolico, ottativo in cui si è svolto l'evento biblico del 2012, prima della fine del mondo annunciata dalla profezia dei Maya. Racchiude la mentalità, e il capitale simbolico, del governo tecnico che tra poche ore spirerà. E lascerà la sua eredità ad altri consimili, altre fratrie infami, posteri di ogni villaggio.
Perché a ben vederla, la relazione insiemistica che passa tra una barista avellinese, una avveduta e una avvenente è la stessa che passa tra quella razzista, e sicuritaria, di "gommoni, albanesi, pugliesi". A me sono capitati entrambi i quiz, di cui avevo già scritto e letto un'abbondante letteratura critica nei commenti su facebook. Mi sono iscritto ai gruppi di discussione, nel tentativo di trovare una soluzione. Tutte le bariste sono avvedute o avvenenti. Alcune sono avellinesi. Tutti gli albanesi viaggiano su un gommone e arrivano in Puglia. Ma non si sa come reagiscono i pugliesi. Se tutti gli albanesi vanno in gommone, gli altri che sono italiani brava gente reagiranno come tutti i popoli civili: andate via, not in my backyard.
Voi, ho pensato, non sapete di cosa parlate. Voi non avete visto con questi miei occhi l'orrore. E adesso pensate di tradirlo, liquidarlo, umiliarlo in un quiz. Non avete il coraggio di guardarlo in faccia il nostro orrore. In questi istanti ho fatto un viaggio nel 1991. A 17 anni, prendevo la bicicletta, facevo 10 chilometri e andavo allo Stadio della Vittoria trasformato in un campo di concentramento per i 30 mila albanesi sbarcati nel porto di Bari. Per una settimana ho visto la carne umana cotta dal sole, dai lacrimogeni, le ambulanze, la violenza del cibo lanciato dagli elicotteri e umani, come bestie, che lottavano per conquistarsi una scatoletta. Potenza del quiz: ho ricordato quelle tende della protezione civile dove erano distesa donne disidratate, adolescenti scheletrici con la pelle brunita. Ho visto l'odio di un paese in vacanza. Era agosto. Io non sapevo nulla. Voi,burocrati, non sapete nulla, oggi.
L'immaginario del quiz natalizio di fine legislatura è fondato sul sessismo e sul razzismo. Mentre i miei cinquanta minuti scorrevano veloci sulla destra dello schermo osservavo accanto a me una ragazza sovrappeso di trenta chili. Capelli lunghi, occhiali spesso. un viso tondo e stupito. Parlava con affetto al suo Pc, sembrava accarezzarlo, accompagnandolo risposta dopo risposta verso l'unico esito possibile di una vita: superare la prova informatica e passare a quella scritta. Aveva un'aria amorevole verso il mondo, Elisabetta, che un viaggio dal Molise l'ha dovuto fare perché da lei non c'è la classe di concorso in materie letterarie per la scuola media. E' figlia unica, laureata in lettere più di dieci anni fa, vive di spezzoni di cattedra, una o più volte all'anno, talvolta salta un giro e scende di graduatoria. Fa lezioni private al nero, sta a casa. E' single. Assiste la madre malata, in una piccola cittadina, poche anime. Il suo orizzonte è interiore. E su quel Pc non ha avuto il coraggio di cliccare su "termina" la prova. Ci ha pensato lui dopo 50 minuti. D'autorità e d'efficienza.
Elisabetta si è fermata impietrita davanti alla domanda: trova la relazione insiemistica tra "bariste avvenenti bariste avvedute e bariste avellinesi". L'ho osservata a lungo invece di terminare il mio quiz che avevo concluso dopo 12 minuti e non mi andava di terminare, ben sapendo che avevo sbagliato tutto. Mi ha chiesto, nel momento di distrazione della preside dell'istituto che vegliava dietro di noi con un ingombrante accento veneto: "Ma se sbaglio sulle bariste perdo quanti punti?". "Mezzo, 0,5" le rispondo io. "Ok". Ma niente. Fino alla fine ha piantato il cursore del mouse su una delle risposte possibili da dare. Poteva anche non rispondere, non avrebbe avuto una penalità. Non lo ha fatto. Non dare una risposta a questa domanda le è costato il concorso a scuola. Che avrebbe potuto darle persino una cattedra a Roma, uscire dal suo purgatorio, magari tornare ad assaporare una vita che ha conosciuto quando studiava alla Sapienza, in casa con altri studenti. Sogni di povertà, ma comunque sogni di una vita migliore. Nella nostra "classe" composta da dieci persone nessuno ha superato la prova. Nemmeno gli altri radunati nei laboratori informatici dello Stendhal. Stesso esito al mattino. Un'ecatombe.
Ho percorso a ritroso quella follia urbana che è la Cassia all'ora di cena. Prima di scrivere, in redazione ho letto un'agenzia dove il capo dipartimento del Miur Giovanni Biondi, spiegava le ragioni di questa ecatombe di bocciati al sud rispetto al centro-nord (dove la media dei promossi è stata del 45%):
«Al Sud c'è maggiore disoccupazione, avevamo numeri maggiori di candidati ed è possibile che abbiano fatto il concorso tanto per fare».Roma contiene un Sud immenso, grande quanto l'intero paese. Al ritorno sulla Cassia ho visto dipanarsi la storia del capitale simbolico che per i burocrati, e i dominanti, divide ancora un paese. Ma questo paese invece è unito solo dalla povertà e dalla millenaria rassegnazione per un sistema impazzito, caotico, risentito, invecchiato. La "disoccupazione" che ha spinto a fare un concorso "tanto per fare" è quella delle 214.453 persone che fino a ieri non hanno mai messo un piede in aula per insegnare e hanno fatto la prova. Ed è quella dei 106.757 supplenti in servizio o aspiranti supplenti in graduatoria d'istituto che hanno accettato di sottoporsi al quiz, pur avendo vinto concorsi e acquisito esperienza e abilitazioni. Questo è il disprezzo quotidiano in cui vive, in Italia, il lavoro intellettuale, di cura, dell'insegnamento, il Quinto Stato che siamo noi.
Roberto Ciccarelli
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