Sergio Bologna
I
candidati del PD, di SEL, di Rivoluzione civile, hanno letto questo
libretto: In-flessibili. Guida pratica della CGIL per la contrattazione collettiva inclusiva e per la tutela individuale del lavoro? Se non lo hanno ancora fatto, lo facciano. Diranno, sul
problema drammatico dell’occupazione e dei diritti di chi lavora,
qualcosa di meno generico di quanto i più volonterosi tra di loro
vanno dicendo in queste settimane pre-elettorali.
Ma dovrebbero
leggerlo anche i lavoratori con contratti “atipici” e i
lavoratori autonomi con partita Iva, perché il testo lascia
intravedere, a mio avviso, la possibilità di una svolta molto
importante nella storia della CGIL o, meglio, la esplicita, perché
il cambiamento in questi anni c’è stato ma era sotterraneo, non
ancora legittimato dai vertici, e dunque non effettivo. Ora, che
questo libretto, concepito come manuale per la “contrattazione
inclusiva” ad uso dei quadri intermedi del sindacato, delle RSU e
dei delegati, sia presentato da due segretari nazionali, dimostra che
ci troviamo di fronte a una possibile inversione di rotta di cui la
Direzione CGIL è ben consapevole. Ma di quale svolta si tratta?
Finora
la CGIL aveva difeso – bene o male è un altro discorso – i
diritti dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, secondo i
principi dello Statuto dei Lavoratori. Questo era il suo mestiere,
nato e consolidato in epoca fordista. I lavoratori autonomi non
ricadevano nella sua titolarità contrattuale, anzi, spesso non
venivano nemmeno fatti rientrare nella fattispecie “lavoro”
perché erano considerati imprese, individuali ma imprese.
Nemmeno le
profonde trasformazioni interne al lavoro autonomo, che ci avevano
fatto parlare di una “seconda generazione”, dedita ai lavori di
conoscenza, ai lavori professionali più che a quelli di tipo
artigianale, aveva fatto cambiare idea al sindacato. Memore di quanta
fatica aveva fatto nel rappresentare gli impiegati di concetto
assunti a tempo indeterminato, probabilmente non aveva voglia di
avventurarsi nel mondo dei knowledge
worker
indipendenti, dei professionisti arroccati nei loro Ordini, nelle
loro associazioni professionali. Tanto più che i grattacapi allora
venivano proprio dal lavoro subordinato. Infatti, mano a mano che in
epoca postfordista si andava formando un esercito sempre più
numeroso di “precari”, cioè di persone assunte con contratti
“flessibili”, fatti apposta per sottrarre il datore di lavoro ai
vincoli imposti dallo Statuto, il sindacato si trovava di fronte una
fattispecie di figura lavorativa che non poteva essere tutelata con i
medesimi strumenti normativi e con le medesime tecniche negoziali
(es. lo sciopero) del lavoratore subordinato.
Non solo, il sindacato,
e qui parlo anche di CISL e di UIL, pur con accenti differenti, aveva
in sostanza preso per buona la tesi che la flessibilità in ingresso
avrebbe favorito l’occupazione e reso più agevole l’inserimento
dei giovani nel mercato del lavoro. Secondo questa tesi, il
“precariato” è un fenomeno transitorio destinato a risolversi da
solo con una più o meno rapida stabilizzazione. Quando si vide che
le cose non stavano proprio così e che l’esistenza dei “precari”
diventava un fatto strutturale e accompagnato da una condizione di
vivo disagio, il sindacato si decise a far qualcosa ed aprì dei
“centri di servizio”, ben lontano dal costituire quello che
sarebbe stato necessario, difficile ma innovativo, un sindacato di
categoria di lavoratori precari di tutte le categorie. Ma anche
questi “centri di servizio” furono considerati superflui o non
consoni al ruolo di un’organizzazione che deve difendere solo il
lavoro dipendente.
In CGIL questo centro di servizi si chiama Nidil
ed aveva cominciato a fare cose egregie, ma fu smantellato subito,
all’epoca della segreteria Cofferati ed oggi conta ben poco. La
condizione del “precariato”, già difficile, cominciò a
peggiorare, le tipologie contrattuali “atipiche” a moltiplicarsi,
la durata del periodo cosiddetto “transitorio”, prima di un
stabilizzazione, ad allungarsi, la platea a riempirsi sempre più di
laureate e laureati, le retribuzioni a toccare livelli indegni di un
paese che pretende di essere annoverato tra quelli “avanzati”,
mentre si diffondeva a macchia d’olio il lavoro gratuito degli
stagisti.
“Riconosco che abbiamo sbagliato a non usare la forza collettiva dei più garantiti per difendere anche le persone senza contratto o con un contratto atipico”, ha detto in qualche circostanza Susanna Camusso, come ci ricorda la quarta di copertina.
Ora questa Guida,
questo manuale ad uso dei funzionari e dei rappresentanti sindacali,
dice chiaramente che lavoratori con contratti “atipici” e
lavoratori autonomi rientrano a pieno titolo nel perimetro della
titolarità contrattuale della CGIL, alla stessa stregua dei
lavoratori dipendenti. Ma non sta qui la svolta, a mio avviso, la
svolta sta nel modo in cui la questione viene posta con chiarezza
intellettuale nelle premesse. Si parte infatti da un assunto
fondamentale, che esistono due
fattispecie lavorative, quella del lavoro subordinato o dipendente e
quella del lavoro autonomo. Perché questo assunto è importante
(tenuto conto delle posizioni precedenti del sindacato)?
Perché
consente di definire in maniera corretta la terza fattispecie, quella
figura anomala che sta diventando la normalità: il soggetto
precario. Finché nell’orizzonte culturale del sindacato esisteva
solo il lavoro dipendente, il “precario” era quello che stava per
entrare (o sperava di entrare) nel rapporto di subordinazione con
contratto regolare. Era un dipendente acerbo. Questo ha fatto sì che
per anni sindacalisti e politici abbiano potuto cavarsela con le
stesse frasette che li sentiamo ripetere in questa campagna
elettorale: “no al precariato”, “superamento del precariato”,
“lotta alla precarietà”, che non sono frasi generiche ma frasi
senza senso.
Perché l’unica prospettiva sensata è quella di
rendere sostenibile la precarietà,
di consentire ai lavoratori precari un’esistenza dignitosa nella
precarietà, fintantoché un rivoluzione politica non riesce a cambiare
radicalmente modello di sviluppo e modello di welfare.
Riconoscere
che esistono due fattispecie di lavoro significa riconoscere che il
lavoratore con contratti “atipici” non ha una sola alternativa,
quella del lavoro subordinato, ma ne ha altre due: quella del lavoro
indipendente e quella del precariato per scelta. Ragionevole questa
seconda, perché le cose oggi nel mercato del lavoro sono messe così
male che può essere conveniente continuare a vivere di lavori
saltuari piuttosto che farsi assumere da laureati a 800 euro al mese
per 50 ore settimanali o aprire una partita Iva e farsi massacrare
dal fisco e dall’INPS.
L’idea che l’unica alternativa ai
contratti flessibili sia il contratto a tempo indeterminato ha
generato il pasticcio della cosiddetta “riforma Fornero”, che sta
producendo non stabilizzazione ma disoccupazione ed inserisce la
complessità del mercato del lavoro in un quadro di generalizzato
“abusivismo” nei confronti del quale si agisce per via
disciplinare. Proprio per questo a me sembra molto importante che nel
libretto della CGIL si specifichi che “prima di iniziare un’azione
collettiva /nei confronti di persone con contratti “atipici”/ è
bene verificare la volontà delle persone che abbiamo di fronte nel
voler essere assunti stabilmente” e di verificare “quali e quanti
sono i lavoratori che non pensano di avere le condizioni o vogliono
volontariamente continuare ad utilizzare le forme di lavoro non
subordinato e chiedono una regolazione di quegli stessi rapporti”.
Sembra un’ovvietà ma, tenuto conto della cultura del sindacato che
ha sempre considerato il lavoro autonomo un’anomalia, è un bel
passo avanti, anche nei confronti della cultura sottostante alla
“riforma Fornero” per cui le Partite Iva sono tutte “false”.
Sarebbe stato il colmo se il sindacato CGIL, invece di agire su altri
terreni, primo tra tutti quello di una spinta alle retribuzioni
perché diventino minimamente dignitose, avesse sposato interamente
l’impostazione “disciplinare” e “giustizialista” della
“riforma Fornero”, che in definitiva rimanda tutto alla
magistratura.
Malgrado
questi passi avanti, ritengo che il pesante “non detto”, anche in
questa svolta della CGIL, sia proprio il tema delle retribuzioni.
Questo è stato finora anche il grande limite dei discorsi sulla
precarietà: focalizzando tutto il discorso sul tema della
stabilizzazione, cioé della forma contrattuale, si è sorvolato su
quella che è forse la vergogna ancora più grande in tutti i
contratti: i livelli retributivi. Primum
vivere.
E quindi, a cascata, non si affronta una delle condizioni più
devastanti non solo del lavoro autonomo ma dell’intero tessuto
delle microimprese e della piccola impresa: i mancati pagamenti. Qui
ci sarebbe voluto un intervento “giustizialista”, qui la forza
della coercizione dello stato!
Quando si spinge al suicidio quella
che viene considerata la linfa vitale del nostro modello economico,
la figura del piccolo imprenditore (che spesso tratta i dipendenti
meglio di una multinazionale o di un’amministrazione pubblica),
mentre le dirigenze dei partiti se la fanno con banchieri malandrini,
vuol dire che si è raggiunto il fondo e che ogni discorso sullo
“sviluppo” e sull’”uscita dalla crisi” è una presa in
giro. Ben venga la svolta della CGIL con la scelta di organizzare in
un’unica RSU dipendenti, “atipici” e professionisti a partita
Iva. Questo è l’unico modo di fare una contrattazione avendo
chiara la struttura e la strategia dell’impresa con cui si imposta
il negoziato, ed è certamente la strada da percorrere per avviare un
percorso di ricomposizione di una forza lavoro divisa e
individualizzata. Ma c’è di più e questo è molto importante.
Riprendendo un’idea originaria del Nidil, si dichiara che la
contrattazione può anche essere “individuale”, non solo
collettiva, il singolo collaboratore a progetto può presentarsi a un
negoziato con l’ufficio del personale accompagnato da un
sindacalista, il quale, se non altro, vigila che il lavoratore non
venga sottoposto a ritorsioni semplicemente per aver chiesto qualcosa
o per aver fatto presente una condizione di disagio.
Questo fatto, di
dare al lavoratore “flessibile” singolo o alla Partita Iva
individuale la sensazione di non essere più soli davanti al padrone,
rappresenta a mio avviso una svolta. Al tempo stesso potrebbe evitare
che un lavoratore dipendente o “atipico” ricorra alla
magistratura con pretese assurde nei confronti del datore di lavoro,
rischiando in moltissimi casi – basta parlare con un avvocato del
lavoro che segue le cause per rendersene conto – di ottenere
soddisfazione nell’aula del tribunale. E’ il ripetersi di questi
episodi – che ora cominciano a riprodursi con la “riforma
Fornero” - a gettare il discredito sullo Statuto dei Lavoratori ed
in generale sul sistema delle garanzie.
Tutto
questo viene chiamato “nuova generazione contrattuale”, che deve
tener presente le specificità dei diversi gruppi di lavoratori e non
deve riproporre meccanicamente agli “atipici” ed ai
professionisti le soluzioni del lavoro dipendente. Frasi come “prima
di iniziare un’azione contrattuale vanno sempre costruiti gli
elementi identitari” oppure “gli ‘atipici’ spesso si sentono
diversi dagli altri lavoratori e si percepiscono – o sono indotti a
percepirsi – professionisti e concorrenti tra loro” oppure “avere
compensi equi ma, soprattutto tutele sociali in caso di malattia,
infortunio, maternità, disoccupazione, assieme all’acceso al
credito, alla regolazione dei tempi di pagamento e alla formazione,
sono le principali preoccupazioni dei professionisti” – indicano
una sensibilità nuova della CGIL verso la forza-lavoro postfordista
e un approccio corretto al problema. Nei consigli sulla fase
propedeutica alla contrattazione si insiste molto sulla difficoltà
di superare le contraddizioni ed i conflitti interni ai diversi
gruppi di lavoratori, si raccomanda vivamente un rapporto stretto con
le associazioni autoorganizzate, nate spontaneamente, essenziali per
capire le mentalità professionali, ma una ricetta su come superare i
conflitti interni non c’è. E forse l’arte della mediazione, il
dialogo, non bastano.
Trattandosi di un terreno inesplorato, anzi di
un ambito d’azione per molti anni ritenuto estraneo all’iniziativa
sindacale, non c’è altra soluzione, penso io, che sperimentare,
trovare un punto dove aprire una vertenza. La prima che si conclude
con un successo, magari dopo dieci fallimenti, sarà lo standard
della “nuova generazione contrattuale”. Ma il datore di lavoro
potrebbe non riconoscere la titolarità contrattuale del sindacato
nei confronti di “atipici” e Partite Iva. Ci vuole un appiglio
formale in una normativa vigente e il nostro libretto lo trova nella
“riforma Fornero” che consentirebbe “di superare
l’indisponibilità formale a trattare per chi non è dipendente
perché consegna proprio alla contrattazione collettiva il compito di
regolare molti aspetti cruciali delle collaborazioni a progetto” e
poiché queste appartengono, secondo il codice civile, alla medesima
fattispecie lavorativa delle Partite Iva individuali, “possiamo
affermare con convinzione che il sindacato può avere la titolarità
della contrattazione collettiva per tutti coloro che svolgono
attività autonoma individuale nell’impresa”. Con il capitolo
successivo, dedicato alla “riforma Fornero”, si chiude la sezione
propedeutica alla contrattazione, alla quale sono dedicate le prime
due parti del libretto.
La
terza parte è dedicata alle forme contrattuali diverse dal contratto
di lavoro subordinato, ad essa è aggiunto un allegato contenente la
proposta di alcuni contratti-tipo di collaborazione a progetto e di
contratto d’opera con Partita Iva, dove si ha cura d’inserire
clausole che possono tutelare il lavoratore. Il settimo e l’ottavo
capitolo sono dedicati alle tutele sociali ed al problema della
fiscalità delle Partite Iva. Qui ci si limita a richiamare le
normative esistenti, nell’economia della pubblicazione va
benissimo, ma non dimentichiamo che qui si tocca il punto dolente di
tutta la faccenda ed il sindacato non potrà cavarsela con un
semplice rimando alla normativa.
Dovrà prendere posizione
sull’aumento dei contributi alla Gestione Separata dell’INPS per
i lavoratori autonomi, una misura del governo Monti che ha messo in
ginocchio migliaia di professionisti e li sta costringendo a cambiar
mestiere, dovrà prendere posizione sulla pretesa dei funzionari INPS
di decidere discrezionalmente sulle indennità di maternità e di
ricovero ospedaliero, dovrà dire se l’Irap per le partite Iva
individuali è una tassa ingiusta o no, e così via.
Per
chiudere, 60 pagine di appendice che riportano integralmente le
normative, dal decreto legislativo 276/03 come modificato dalla legge
92/2012 (“riforma Fornero”) alle diverse circolari relative
all’interpretazione delle norme della medesima riferite ai
collaboratori e alle Partite Iva, all’art. 2222 del codice civile
relativo al contratto d’opera. Chiudono il libretto i verbali
succinti di due riunioni con alcune categorie (Fillea, Filcams, Fiom,
Flai, Slc) sulla nuova “contrattazione inclusiva” dalle quali si
apprende che Confindustria non sarebbe disposta a riconoscere la
titolarità contrattuale del sindacato per i lavoratori autonomi.
Un
commento finale. Pensare che da questo momento la CGIL cambi rotta
sulla tutela dei collaboratori a progetto e delle partite Iva, sulle
collaborazioni occasionali e sulle associazioni in partecipazione,
sarebbe da ingenui. Una svolta di questa portata – se alle parole
seguono i fatti - probabilmente incontrerà molte resistenze
nell’organizzazione stessa, nelle RSU, nei delegati, abituati
finora a considerarsi rappresentanti del solo lavoro dipendente.
Sarebbe ingenuo anche pensare che le altre confederazioni sindacali
accettino subito di misurarsi sullo stesso terreno. E chissà come
reagiranno coloro che finora sono stati lasciati fuori dal perimetro
contrattuale, molti dei quali portano dentro una grande amarezza e un
bruciante senso di solitudine. Si fideranno ad essere difesi da
coloro che finora li hanno trascurati? O guarderanno alla
“contrattazione inclusiva” con diffidenza, come una trappola che
li frega ancora di più?
La mia opinione è che questo passo in
avanti della CGIL, se compiuto con determinazione dalla segreteria,
può cambiare il clima delle relazioni sindacali in Italia e porre
certi argini alla pratica selvaggia della flessibilità, infondendo
maggiore fiducia nei lavoratori con contratti “atipici” e
rendendoli più disponibili al conflitto aperto. Del resto, è la
prassi seguita da alcuni anni dal grande sindacato Ver.di in
Germania, perché dovrebbe essere impossibile farlo in Italia? Credo
anche che in questo settore possa rinascere all’interno
dell’organizzazione uno spirito di militanza e di combattività che
si era andato perdendo in questi anni. Ma, nel dire questo, debbo
subito aggiungere che la “contrattazione inclusiva”, a mio
avviso, potrà funzionare solo nell’ambito di un sistema
organizzativo più o meno complesso, solo nell’ambito dell’impresa.
Le centinaia di migliaia di “precari” e di partite Iva che
lavorano per agenzie o per intermediari di vario tipo, nel settore
dei media, dell’audiovisivo, della comunicazione, della moda,
dell’evento, della pubblicità, del marketing, del turismo, del
fitness e così via, quelli rimangono ancora “scoperti”, quelli
non hanno al loro fianco “la forza collettiva dei più garantiti”,
per dirla con la Camusso, perchè in quei mondi sono precari e
“temporanei” tutti quanti o quasi.
Questa però non è una buona
ragione per rinunciare all’esperimento, anzi, ora c’è
l’occasione giusta per cominciare “una nuova generazione
contrattuale”: la scadenza del contratto nazionale del
tessile-abbigliamento, 450 mila addetti. Ci sarà bene qualche
contratto “atipico” là in mezzo e qualche partita Iva. Coraggio,
e vediamo cosa succede. Ma c’è poi l’altro versante su cui la
Consulta delle Professioni della CGIL e l’Associazione “20maggio” del Dipartimento lavoro del PD – che hanno avuto un ruolo
importante nella stesura di questo libretto – possono svolgere
un’azione incisiva: la riforma delle professioni.
Le norme varate
dal governo Monti, contrastate tenacemente da alcune categorie, come
l’ordine forense, quelle dell’agosto 2012, accolte invece con
soddisfazione ed entusiasmo da molte categorie dei non ordinisti
quelle del dicembre 2012, rappresentano a mio avviso un terribile
passo indietro perché ripropongono un modello di rappresentanza
ancora vincolato all’ideologia ottocentesca del “decoro” della
professione e negano del tutto le trasformazioni che “il lavoro
autonomo di seconda generazione” ha portato nella mentalità del
professionista dell’èra digitale, dove la tematica dei diritti ha
assunto priorità assoluta rispetto a quella dei codici deontologici
o della “tutela del cliente”. Ne discende che la forma della
rappresentanza non può essere quella dell’associazione
professionale ma quella del sindacato che unisce tutte le
professioni, anzi tutti i lavoratori indipendenti, tutti i freelance
ed agisce per creare solidarietà, per costruire forme di mutuo
soccorso. Ed è proprio qui, nella concezione di base del modello
organizzativo e di rappresentanza, che si possono trovare forti
affinità con la grande tradizione del movimento operaio e sindacale
italiano.
Questa è la strada vincente seguita dalla FreelancersUnion degli Stati Uniti, che con i suoi 180 mila iscritti fa sentire
la sua voce al punto che la fondatrice, Sara Horowitz, è stata di
recente cooptata nel Board of Directors della Federal Reserve Bank di
New York per dare suggerimenti e formulare proposte in merito alle
politiche per le start up.
***
Il libro: In-flessibili. Guida pratica della CGIL per la contrattazione collettiva inclusiva e per la tutela individuale del lavoro. Prefazione di Elena Lattuada e Fabrizio Solari, con testi di Davide Imola, Cristian Perniciano, Rosangela Lapadula, Marilisa Monaco, Ediesse, Roma 2013, pp. 195, € 13,00.
La presentazione: Roma, martedì 19 febbraio, ore 18.00 - Fondazione Giacomo Brodolini, via Barberini, 50- Sala Biblioteca
che gioia apprendere da Mario Bologna di questo evento segnato dalla pubblicazione di in-flessibili! è un'altra testimonianza del cambiamento radicale che la nostra società sta faticosamente cercando di affrontare a tutti i livelli e in ogni ambito. è evidente che i politici tradizionali sono coloro che più tirano il freno, a scapito di un'evoluzione progressista conseguente a una visione lungimirante, ad un progetto condiviso e sostenuto, e a realizzazioni graduali per riconfigurare nuovi assetti, politici, sociali, economici...
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